Quasi un topo ma la coda sembra una carota: può soltanto essere un dunnart

Si risveglia ed esce dal suo nido, corre, cerca, fa la guardia al territorio. La piccola creatura che ci sembra di conoscere fin troppo bene. Essa può godere, d’altra parte, di un musetto aguzzo dall’olfatto molto sviluppato. Piccoli occhi neri per guardarsi dai pericoli e dai predatori. Zampe agili, passo scattante, la capacità di muoversi rapidamente e senza far rumore. Il primo indizio che non tutto sia quello che sembra, d’altra parte, s’identifica nella fondamentale presa di coscienza contestuale. Poiché dove siamo a passeggiare, nelle ore di penombra quando il sole si avvicina all’orizzonte, se non verso il continente nel remoto meridione, l’assolata terra dei canguri e di creature che si sono distanziate, biologicamente, per un minimo periodo di almeno un centinaio di milioni di anni… Australia. Dove la diffusa soluzione evolutiva del mammifero dotato di placenta, fin da tempo immemore, si è vista contrapporre dall’evoluzione l’intrigante approccio di colei che può contare su un marsupio, tasca nel suo corpo che protegge e al tempo stesso massimizza le opportunità di crescere dei nuovi nati. Non che il singolare appartenente al genere Sminthopsis, parte della stessa famiglia dei Dasyuridi entro cui si trovano i kaluta, quoll e il diavoletto tasmaniano, possa dirsi l’ordinario membro e tipico rappresentante della sua categoria, neppure in questo. Stiamo qui parlando, d’altra parte, di un essere dalla lunghezza massima di 90 millimetri e una durata della vita pari a 15-18 mesi, quasi come un topo, per l’appunto. Che ha dovuto perciò individuare pratici sistemi per riuscire a trarre il massimo, da ogni circostanza ed utile momento della sua frenetica esistenza. Semplificando: vedi la natura puramente carnivora della sua dieta, per cui si concentra nel mangiare più che altro insetti, ragni, piccoli rettili ed anfibi, le cui sostanze nutritive in eccesso vengono comunemente accumulate nella coda dell’animale, che può per questo assumere la distintiva forma conica di un tipico ortaggio da radice. Ottimizzando: con l’intero periodo diurno e buona parte delle notti che trascorrono in uno stato letargico detto in gergo tecnico “torpore”, che li porta ad abbassare la temperatura ed il calore corporeo fino a minimizzare al massimo il consumo metabolico di energie. Accelerando: tramite l’efficiente capacità di mettere la mondo una pluralità di cucciolate (di fino a 7 piccoli ciascuna) nell’intero periodo tra luglio ed aprile di ogni anno, con un periodo di gestazione pari ad appena 13 giorni seguìto da 37 trascorsi all’interno della “tasca” della madre, in realtà più simile a una semplice piega sulla pelle del suo ventre peloso. Va pur considerato, d’altra parte, come i nuovi nati abbiano le dimensioni approssimative di un chicco di riso. Non proprio dispendiosi, dunque, da energizzare tramite la produzione ininterrotta del bianco latte che dà la vita…

Tirare fuori un dunnart dalla sua tana tipicamente costruita con rametti o intrecci d’erba, piuttosto che all’interno di un cavo dell’albero o in fossette artificiali create intenzionalmente dall’uomo, può implicare un certo rischio per i naturalisti del settore. Piccoli denti, è inevitabile, possono pur sempre fare del male.

Particolarmente ammirati da coloro che ne riconoscono le ingegnose abilità ed adattamenti alla sopravvivenza in territori aridi ed inospitali come l’entroterra australiano, i dunnart sono stati lungamente trascurati dal punto di vista della conservazione ambientale proprio perché impropriamente associati all’universo dei roditori, progressivamente sempre più comuni e diffusi attraverso il confermarsi della colonizzazione umana dell’intero territorio australiano. Il che non ha causato, in modo forse controintuitivo, alcun tipo di competizione o conflitto tra le due tipologie di creature, vista l’occupazione di nicchie ecologiche totalmente differenti. Nonché l’abilità di condividere il territorio ed ottenere dalla convivenza, addirittura, una reciproca serie di vantaggi. Vedi l’abitudine, particolarmente associata alla specie di dunnart Sminthopsis crassicaudata (o “dalla coda grassa”) alla creazione di nidi comunitari simili a vere e proprie colonie, entro cui convivere, per l’appunto, con esemplari del tutto fuori contesto del nostro familiare mus musculus o topo domestico importato dal più “vecchio” dei continenti. Alleato, amico e soprattutto vantaggiosa fonte di calore, assieme a cui proteggersi dalle più rigide nottate dell’inverno australe. Una capacità d’adattamento alla presenza di creature provenienti da lontano che purtroppo e in modo molto prevedibile, non può riuscire a estendersi anche ai bipedi creatori di palazzi, strade ed automobili rombanti sull’asfalto delle circostanze, pratiche barriere insuperabili che segmentano e rovinano la libertà inerente di ogni essere legato al territorio. Con particolare incidenza nella regione di Kimberley, nei parchi nazionali della zona di Arnham e le propaggini settentrionali del Queensland, alcuni tra le ultime roccaforti di questa inconfondibile categoria di creature. Suddivisa in 19 specie riconosciute, molte delle quali soggette a vari livelli di rischio di conservazione soprattutto all’interno di aree geografiche definite. Benché la moderna presa di coscienza della questione ecologica abbia permesso, in larga misura, l’implementazione di programmi di conservazione su ampia scala, come il progetto ormai decennale per l’eliminazione dei gatti ferali ed il ripristino della vegetazione presso l’Isola dei Canguri a sud del paese, dove si stima la presenza rimasta di appena una cinquantina d’esemplari della specie endemica di dunnart (Sminthopsis aitkeni) fugace abitatore del sottobosco dal peso approssimativo di una batteria stilo. Eppure dimostratosi, grazie al carisma implicito della propria affascinante unicità, capace di unire le menti e le ambizioni della gente verso un singolo encomiabile obiettivo: ritrovare un equilibrio pratico e fecondo con l’universo della natura. Ed alcuni tra i più piccoli, operosi, efficienti tra i suoi guardiani.

La vista di un dunnart all’interno del suo ambiente che si nutre d’insetti catturati sul momento, come questa cavalletta, ne dimostra l’effettiva strategia biologica fondamentalmente differente da quella di un comune topo. Che preferisce esimersi, quando possibile, dalla ricerca di prede vive.

Poco diffuso in cattività e negli zoo, a causa della difficoltà nel creargli un habitat realmente adatto in condizioni artificiali, il dunnart ha costituito d’altra parte un utile modello nello studio dell’evoluzione e la biologia dei marsupiali, a causa della rapidità nel moltiplicarsi traferendo i propri geni alla prole. Un contesto valido a permettere, nel 2021, la pubblicazione di una serie di dati statistici da parte di un team di studiosi (Hipsley, Cook, Newton) atto a dimostrare qualcosa di lungamente sospettato in questo ambito, ma mai efficacemente dimostrato prima di quel momento: la maniera in cui nascere e crescere all’interno di un marsupio sottintenda l’inversione per i mammiferi nell’ordine di di sviluppo delle proprie caratteristiche fisiche dominanti. A partire da una bocca, una mandibola ed un naso simili a quelli degli adulti, per potersi attaccare efficacemente al capezzolo e iniziare a trarne nutrimento. Prima ancora di poter disporre di gambe o muscolatura funzionali a muoversi in autonomia, comprensibilmente l’ultima priorità nel singolo mese necessario a raggiungere l’indipendenza. E gli ulteriori 155 giorni prima che le femmine possano di nuovo partorire (159 per la fertilità maschile) perpetrando ulteriormente l’implacabile ritorno stagionale di alcuni tra i più affascinanti e famelici tra i carnivori del vasto continente meridionale. Interpretando il quale molti altri animali, persino quelli provenienti dall’ambiente fortemente competitivo dei mammiferi europei, si sono dimostrati capaci d’apprendere e trarre un qualche tipo di transiente ma misurabile vantaggio. Perché paese che vai, tana che trovi…

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