Auto elettriche con il pantografo da tram: il futuro del car-sharing negli anni ’70

Guido la candida cabina lungo il corso del Keizersgracht, verso un piacevole pomeriggio di shopping e un pranzo con gli amici. Dalle ampie finestre che circondano la postazione, scorgo agevolmente fino al minimo dettaglio dei dintorni, in modo incrementato ulteriormente dalla marcia rallentata del mio stretto e verticale mezzo di trasporto, almeno per qualche minuto ancora. Raggiunta una distanza ragionevole dalla meta finale, quindi, scorgo il parcheggio designato meta ultima della trasferta, dove con rapida manovra del volante, instrado la curiosa vettura sotto la rotaia che si occuperà di ricaricarla. Odo il suono, apro lo sportello. Un rapido passaggio della chiave magnetica per confermare la riconsegna, mentre un computer all’altro capo della linea telefonica si occupa d’inviare il conto di un centesimo al minuto ai contabili della mia banca. Faccio un passo e sono libero, senza un minimo pensiero in merito ai disagi dell’autista o l’inquinamento.
Perché il progresso tecnologico possa verificarsi in maniera improvvisa, occorre in genere la convergenza di un minimo di tre fattori: la necessità, l’intenzione e l’ingegno. La prima da parte del grande pubblico, opportunamente percepita dall’opinione comunitaria in funzione di un qualche disagio inerente; la seconda opportunamente veicolata dal consorzio di coloro che decidono, ovvero politici, consiglieri, amministratori comunali; ed il terzo, generato dall’enorme potenziale cogitativo del potentissimo cervello umano, dimensione parallela ove ogni cosa viene concepita, trasformata, instradata in un sentiero logico apparente. In altri termini, nessun grande balzo in avanti è possibile in tal senso, a meno che operi al timone un qualche tipo di persona eccezionale, quello che viene convenzionalmente definito un “genio”. Certe volte, quindi, il contributo di costui alla società indivisa viene messo sopra un piedistallo, offrendogli ringraziamenti imperituri. All’opposto il caso in cui sia rifiutato categoricamente, con conseguente disonore ed accantonamento di ogni possibile cambio di paradigma (nella quale contingenza, convenzionalmente, si usa dire: “Peccato, è nato un paio di generazioni troppo presto). Molto più frequente di entrambe le alternative, d’altra parte, è un tipo di occorrenza situata tra gli estremi di questi due punti, magari parzialmente accettabile per i suoi contemporanei, contrariamente all’opinione postuma dei loro discendenti. Oppure funzionale al 100%, ed invero utile a voltare pagina, se non che l’usuale resistenza ed inedia della società, come potenti elastici, l’avrebbero portata dolorosamente indietro.
Mettiamo quindi sotto i nostri cannocchiali questa città di Amsterdam verso la fine degli anni ’60, per avere un significativo laboratorio con spunti d’analisi sulla nostra attuale condizione degli ambienti urbani. Affinché basti osservare un tale mondo, tramite i filmati d’epoca e il racconto della gente, per notare come l’avvento dell’automobile, e la frenesia collettiva assieme al desiderio molto umano di possederne una, possa rapidamente stritolare un sistema che per tanti anni aveva funzionato senza il benché minimo inciampo. Quello espresso da un antico dedalo di strette stradine, canali, vicoli e piazzole dal parcheggio quasi inesistente, un tempo percorso dai suoi cittadini unicamente a piedi, oppure in bicicletta. Finché la quiete non venne interrotta dal suono di un singolo motore, poi alcuni, infine moltissimi, verso la creazione di quel tipo di caos estremamente familiare che, per molti versi, sussiste ancora. Un disegno dal quale sarebbe emersa, laboriosamente, la figura di un possibile salvatore…

Il collegamento telematico attraverso le linee del telefono costituiva una metodologia decisamente avveniristica per l’epoca, soprattutto quando si considera cosa trovava posto dall’altra parte. Un potentissimo elaboratore, idealmente abbastanza compatto da poter trovare collocazione all’interno di un’abitazione privata…

Che il ’68 sia stato un’anno di significative proteste e risveglio sociale su scala internazionale è una questione largamente nota. Così come tra i confini della capitale olandese, per le ragioni di cui sopra, nacquero e prosperarono numerosi movimenti dediti tra le altre cosa alla riforma del traffico cittadino e tutto quello che questo riusciva a comportare. Uno di questi era diventato, a partire da tre anni prima, il gruppo anarchico dei Provo, un movimento di controcultura capace di anticipare in patria quello degli hippie, che nelle parole del suo co-fondatore Roel van Duijn aveva “Qualcosa contro il capitalismo, il comunismo, il fascismo, la burocrazia, il militarismo, il professionalismo, il dogmatismo e l’atuoritarsimo” elencando inoltre nel copioso manifesto gli ampi strati sociali verso cui rivolgeva la sua critica di modalità ed intenti. Ma poiché la predica ad un coro già convinto può giungere soltanto fino a un certo punto nello stimolo alle riforme, ben presto i membri del gruppo iniziarono a inscenare una ben nota serie di atti di protesta performativi ed assolutamente non-violenti, sebbene certamente fastidiosi dal punto di vista delle autorità. Dello sdoganamento politico e procedurale delle loro idee si sarebbe quindi occupato niente meno che Luud Schimmelpennink, l’uomo che potremmo definire un letterale vulcano di evoluzioni possibili a vantaggio dei suoi connazionali. Nonché figura cardine per il progetto delle Biciclette Bianche, in base al quale non soltanto il centro di Amsterdam sarebbe stato chiuso alle automobili, ma inondato pure di 20.000 velocipedi di quel colore, posseduti dallo stato e lasciati liberi per l’utilizzo da parte dei concittadini. Idea che non piacque al concilio cittadino, privo del consueto ottimismo nei confronti della natura umana che ha sempre caratterizzato i movimenti anarchici occidentali, il che non avrebbe comunque impedito al movimento Provo di comprare 50 veicoli a pedali e disseminarli per il centro cittadino. E quando la polizia li sequestrò in quanto prive di lucchetto e perciò contrarie alla legge, provvidero ad immetterne altrettante, questa volta dotate di combinazione rigorosamente scritta sulla loro struttura metallica, direttamente di fronte al sellino. Ma c’è soltanto un certo punto raggiungibile mediante questa tipologia di approcci da guerriglia, è questo Schimmelpennink sembrava averlo compreso particolarmente bene. Quando nel 1974, finalmente, riuscì a recarsi di fronte ai consiglieri del sindaco per proporre la sua più complicata e interessante creazione. Il nome era di nuovo Witcar (Auto Bianche) con riferimento all’utilizzo di un sistema di propulsione elettrico, quindi del tutto privo d’emissioni inquinanti. Ma ciò che piacque soprattutto a chi aveva il potere di dare il via libera, era l’idea che tali mezzi potessero costituire un bene al servizio di tutti, pur risultando tracciabili grazie a un sapiente impiego della tecnologia moderna. Raccolta la cifra non indifferente di 250.000 dollari da investitori di varia provenienza (lo stato si rifiutò, come lui aveva sperato, di gestire autonomamente l’azienda) l’inventore/imprenditore ottenne quindi la collocazione di cinque punti di parcheggio e ricarica, bastanti all’utilizzo contemporaneo di 35 automobili, fatte produrre in base al suo eclettico progetto dall’azienda motoristica Cock di Assen (Ah!) In cui possiamo osservare, se vogliamo, l’usuale spinta all’innovazione nel design e configurazione esteriore delle auto elettriche, tanto spesso utilizzate come terreno di prova per un’evoluzione possibile nel campo dei trasporti. Schimmelpennink acquistò inoltre un sofisticato mini-computer PDP-11, delle dimensioni approssimative di un armadio, per memorizzare sulle proprie schede perforate l’utilizzo da parte degli abbonati ed agevolare il pagamento automatico conseguente. Witcar era sotto molti aspetti, in altri termini, un evidente prodotto della nostra epoca contemporanea, spostato in anticipo di circa 50 anni.

Candida e immutata, una singola Witcar trova oggi collocazione nel Museo Storico di Amsterdam, tra Kalverstraat e Nieuwezijds Voorburgwal. È parte di un’ingegnosa esperienza interattiva formalmente diretta ai bambini, in cui far scorrere una ripresa d’epoca della città di allora. Ma conoscete un singolo adulto che rifiuterebbe l’opportunità di parteciparvi, davvero?

Con un costo ragionevole per l’acquisto della chiave magnetica e l’affitto dei veicoli, Witcar raggiunse ben presto i 4.500 abbonati, suscitando non poche proteste da parte dei tassisti della città. I problemi, tuttavia, non tardarono a presentarsi. In primo luogo di natura tecnica, per le prestazioni delle automobili da appena 24 volt e 2000 watt di potenza per un peso di 450 Kg, la cui autonomia non superava la mezz’ora, ed il tempo di ricarica piena mediante l’ingegnoso pantografo risultava semplicemente troppo lungo. Come negli attuali progetti di car-sharing, inoltre, la marcia spontanea dei veicoli avveniva sempre verso il centro cittadino, lasciando spesso sguarniti i parcheggi periferici con conseguente laborioso ricollocamento ad opera dei dipendenti della compagnia. Ma soprattutto il più importante ostacolo fu quello burocratico, per un immediato e significativo disamore da parte degli amministratori urbani sopraggiunti entro il 1976, anno in cui la Witcar avrebbe dovuto ricevere il permesso per ulteriori 10 spazi di ricarica e la messa in opera di 100 veicoli. Cosa che semplicemente non avvenne, ostacolando eccessivamente la visibilità dei veicoli e la loro percezione da parte della collettività cittadina. Le Auto Bianche non costituirono quindi mai null’altro che una mera curiosità sperimentale, fino alla chiusura inevitabile dell’azienda entro l’anno 1986.
Ciò che era e non poteva essere. Quello che avrebbe potuto anticipare i tempi, se soltanto chi poteva scegliere l’avesse fatto in modo più vantaggioso. Così l’opportunità di cambiare veramente le cose, con molti anni di anticipo, andò scemando, come lacrime versate nei canali della tentacolare città. Perché la gente a piedi di Amsterdam potesse riprendere il controllo del suo centro, sarebbe occorso aspettare l’inizio degli anni 2000, e l’ampliamento dell’ancora pertinente campagna per la riqualifica delle infrastrutture ciclabili e l’eliminazione delle principali arterie stradali di scorrimento. Una prova d’importante civiltà, effettivamente possibile soltanto in ambiti urbani dalle proporzioni così relativamente contenute. E il nome Witcar? Lungi dallo sparire totalmente, avrebbe fatto la sua ricomparsa nel 2007 grazie all’ormai più che ottantenne Schimmelpennink, direttore di una nuova ditta di car-sharing con Smart Fortwo ed altri comparabili modelli di city-car. La cui utilità, e diffusione, risultano paragonabili a quelli di enti simili diffusi nell’attuale consorzio globalizzato, in un’epoca in cui nulla sembra avere impatti significativi, purché continui a sussistere la (problematica) alternativa. Poco importa, dopo tutto. Le leggi presto o tardi arriveranno. Oppure i carburanti fossili diventeranno, semplicemente, troppo costosi per proseguire. L’epoca dei fumi neri e delle polveri sottili ha i giorni (settimane? Anni? Secoli?) contati. E allora forse guarderemo indietro, per tentare di riprogettare il nostro domani.

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