L’ambiziosa evoluzione tecnologica dei cavoletti di Bruxelles

Sfere verdi come la foresta, uova di un caviale dalle profondissime radici, all’interno dello scivolo contorto che le porta a perdersi nel meccanismo della Realtà. Durante il gioco giapponese del pachinko, migliaia di palline metalliche discendono all’interno di un tabellone, popolato di ostacoli e diversi tipi di cellette che incrementano il punteggio finale. Il caratteristico suono tintinnante, accompagnato da particolari musiche ed effetti sonori, costituisce la colonna sonora facilmente riconoscibile delle sale giochi dedicate a questo passatempo, che nonostante le stringenti leggi in materia finisce spesso e irrimediabilmente per sconfinare abusivamente nel gioco d’azzardo. Molte persone con problemi d’autocontrollo, e le loro intere famiglie, sono andate incontro alla rovina finanziaria nel vacuo tentativo di conseguire un qualche tipo di guadagno, e mantenerlo nel tempo, dalle imprevedibili macchinazioni della Dea del Fato. Così come interi imperi agricoli, sono sorti e poi caduti nella polvere, in base alle umane preferenze di ciascuna epoca per quanto concerne la consumazione di una pianta. Brassica oleracea, questo il nome della specie, sebbene in forza delle numerose variazioni coltivate grazie alle diverse cultivar, non molti tra i non iniziati avrebbero l’ispirazione di riuscire a ricondurle tutte al cavolo selvatico da cui proviene. Chiamandola, piuttosto, broccolo, cavolo riccio oppure rapa, gallego e chiaramente cavolfiore, a seconda di quale delle rilevanti parti vegetali, tramite i molti anni di selezione artificiale, sia stata massimizzata nelle dimensioni e l’arbitraria preferenza gastronomica degli umani. Fino al caso assai particolare, del germoglio stesso che diventa il più apprezzato dei tesori, estensivamente replicato in grande numero lungo l’intero estendersi del gambo centrale. Dando luogo alla definizione in lingua inglese di sprout, mentre l’appellativo nel nostro idioma preferisce il più descrittivo termine di cavoletto, per l’aspetto direttamente riconducibile a un qualcosa d’identico, ma più grande. Mere distinzioni semantiche, per quanto concerne un qualcosa che per lungo tempo ha continuato a rotolare nella grande macchina del progresso verso l’ottimo successo, oppure il fallimento dell’imprenditoria pertinente. Finché progressivamente, al trascorrere di un tempo sufficientemente lungo, siamo giunti a questo: la filiera operativa, documentata per il nostro interesse, della compagnia olandese Gebr. Herbert Zeewolde, tra i principali produttori odierni di quel cibo che pur trovandosi convenzionalmente associato ad un contesto belga, riveste in realtà un ruolo di primo piano nelle diete dei paesi dell’intera parte settentrionale d’Europa. Inclusa l’Inghilterra, che ne risulta essere il maggior consumatore al mondo. O almeno risultava esserlo, prima che le restrizioni imposte all’importazione di cibo dal continente aumentassero esponenzialmente, al ripristino di divisioni che si era tanto faticosamente riuscito ad accantonare.
“E dopo tutto… Meno male?” Sembrerebbe quasi di sentir echeggiare nel vento, per il contributo di una gestalt dei bambini di mezzo mondo, notoriamente poco inclini ad apprezzare l’indesiderabile pietanza, mentre ciò dovrebbe in chiari termini costituire un vetusto retaggio di tempi ormai lungamente trascorsi. Laddove l’effettiva realtà apprezzabile dei fatti, com’è possibile ricostruire con lo storico pregresso delle circostanze, è che i gusti cambiano ed assieme ad essi possono cambiare loro stessi, i nostri smeraldini cavoletti di Bruxelles. Grazie all’adozione di particolari accorgimenti nella loro coltivazione, coadiuvati dal superamento della convenzione ormai del tutto superata che l’unico modo per prepararli in modo per così dire “tradizionale” fosse bollirli in ammollo, fino all’acquisizione di un conseguente gusto amaro e caratteristico odore tanto intenso quanto difficile da definire appetitoso. Una diretta risultanza dell’alto contenuto di glucosinato del tipo sinigrina, un composto chimico a base di zolfo che si libera con la cottura troppo lunga. La cui acredine può essere adeguatamente ridotta, e combattuta, mediante l’adozione di una serie di piccoli ma precisi accorgimenti… Alcuni dei quali traggono l’origine dall’immagazzinamento in apposite banche dati, e conseguente utilizzo all’interno dei campi, di particolari ceppi genetici dalla maggiore palatabilità…

Monumentali meccanismi in mezzo ai campi privi di confini individuabili all’interno dell’inquadratura. Mentre abili supervisori si occupano di mantenere operativo il processo. Perché ogni minuto può essere un guadagno, quando giunge l’ora del raccolto. E questo non succede soltanto a Bruxelles.

Tutto ebbe inizio nell’antica Roma, secondo alcuni resoconti che si perdono nella leggenda. Per cui tutto ebbe più formalmente origine, nell’opinione della maggioranza, attorno al XIV secolo nei campi dell’eponima capitale belga, sede attuale del Parlamento Europeo. Ma è altrettanto valido affermare, in forza della percezione maggiormente letterale di questa faccenda, che il sapore che oggi associamo al cavoletto di Bruxelles provenga da una vera e propria rivoluzione ancora in corso, il cui inizio può esser fatto risalire attorno agli anni ’90 del Novecento. Quando il botanico Hans van Doorn, lavorando per la vasta multinazionale farmaceutica Novartis, riuscì a isolare e studiare approfonditamente i particolari componenti chimici dei germogli di B. oleracea, selezionando quelli maggiormente responsabili del particolare gusto e sapore acre odiati da tanti dei nostri genitori e nonni. Aprendo conseguentemente la strada alla creazione di nuove multiple varietà, ciascuna perfezionata da un diverso numero di compagnie nazionali, al punto cardine di un nuovo tipo di cavoletto, non soltanto maggiormente gustoso ma in maniera ancor più redditizia inerentemente semplice da apprezzare, anche per i palati meno abituati al suo sapore naturalmente tendente all’amaro. Il che avrebbe condotto a una riconsiderazione di questo particolare ingrediente e le maniere in cui potesse trovare applicazione nella gastronomia contemporanea, anche grazie alla vera e propria catena di montaggio già in essere da tempo, facilmente adattabile su una scala più grande.
L’effettiva coltivazione dei cavoletti d’altra parte, notoriamente complessa in ambito privato per il tempo piuttosto lungo di 90-180 giorni dalla semina la raccolto, possibilmente culminante in una gelata che si dice massimizzarne il sapore, aveva già finito per trarre duraturo giovamento dall’implementazione di sistemi ed approcci dall’alto grado di efficienza, implementati per massimizzare il guadagno. A partire dalla significativa modifica introdotta negli anni ’60, del passaggio al gruppo di varietà o cultivar del tipo “a raccolto continuo”, capaci di continuare a crescere ogni qualvolta la loro parte superiore viene tagliata, al fine di raccogliere i germogli pronti alla commercializzazione, senza mai interrompere la crescita della pianta sottostante. Ma soprattutto, permettendone la raccolta in maniera maggiormente uniforme, favorendo l’impiego di macchinari automatici dalla rapidità e semplicità d’impiego molto superiori alle precedenti metodologie manuali. Tanto che attualmente, soltanto il 18% dei cavoletti sul mercato vengono ancora processati con l’approccio di una volta, sebbene anch’essi debbano per forza essere separati e selezionati mediante l’impiego di un particolare meccanismo. Il che ci riporta alla tecnologia mostrata in apertura, consistente nella riconoscibile serie di rulli e nastri trasportatori, dotati di conformazione utile a lasciar cadere i germogli troppo piccoli o le foglie ed altri detriti indesiderabili, mentre soltanto la materia prima che risponde agli standard sufficientemente elevati viene fatta avanzare fino all’inserimento in cassette o sacchi per la consegna ai rivenditori.
E un nuovo viaggio di scoperta, verso la soddisfazione delle moltitudini dotate di una mente sufficientemente aperta. Poiché la realtà scarsamente documentata all’interno dei nostri confini, è che come altra pietanza sufficientemente apprezzata nel mondo il cavoletto può giovarsi di una preparazione attentamente calibrata, così da massimizzare le doti più nascoste del suo caratteristico sapore. Particolarmente massimizzato, nell’opinione di molti, dalla cottura alla griglia o al vapore, per quanto queste possano compromettere almeno in parte il contenuto fitochimico ritenuto biologicamente capace di allontanare il cancro. Ma NON il ricco contenuto di vitamine C, K e B, capace di contribuire in modo significativo ad una dieta perfettamente equilibrata. Per non parlare del trascurabile vantaggio di un sapore molto più apprezzabile, particolarmente quando accompagnato da ingredienti cardine come il bacon e le castagne, previa aggiunta irrinunciabile di parmigiano e qualche goccia di succo di limone.

Molti abitanti dell’Europa Occidentale non hanno mai visto la pianta di cavoletto di Bruxelles, benché nei paesi d’origine i germogli vengano venduti spesso completi del gambo, una soluzione che si dice mantenerli freschi più a lungo. Nei casi di particolari cultivar occorrono significative differenza estetiche, tra cui la colorazione rossa intensa della varietà “Red Bull”.

Non è per questo particolarmente facile, nel campo gastronomico come in qualsiasi altro, liberarsi del bagaglio accumulato di una pessima reputazione. Dovuta in parti uguali all’effettiva imperfezione delle caratteristiche pregresse (per lo meno, rispetto all’eccellenza odierna) e una percezione inesatta di quale dovesse essere la modalità opportuna per massimizzare le doti nascoste di una pietanza. Nonostante tutti continuassero a mangiarla, con una sorta di senso d’apprezzamento stoico nei confronti della consapevolezza ereditaria pregressa. Ma non c’è un modo più sicuro, per contribuire all’abbandono progressivo di un alimento, che costringere un’intera generazione a consumarne quantità superiore alla media per la vaga percezione che potesse portar loro un qualche nebuloso vantaggio in termini di salute futura. Il che avrebbe progressivamente relegato il cavoletto di Bruxelles a particolari occasioni e ricorrenze come il Natale, durante cui soprattutto in Inghilterra si è soliti concedersi questo dubbioso “piacere”. Finendo ogni singola volta per notare, tra lo stupore dei presenti, che il sapore è molto meglio rispetto al ricordo che si conservava dall’occasione precedente. Semplicemente perché, grazie all’applicazione della scienza ed il progresso delle cognizioni tecniche acquisite, il sapore è DAVVERO letteralmente molto meglio rispetto al ricordo che si conservava dall’occasione precedente. Permettendo la soddisfazione di un azzardo particolarmente significativo, che difficilmente avrebbe potuto riuscire all’interno di contesti maggiormente delineati dai vezzi così spesso imprevedibili del Dio Denaro. Come una rutilante, rumorosa sala di palline giapponesi, di un colore argenteo letteralmente all’opposto del verde che dà la vita.

Lascia un commento