Il villaggio sul macigno che resiste alle correnti del progresso yemenita

Un tempo qui scorreva un fiume con un impeto selvaggio, sufficientemente colmo da scavare nella roccia, scolpendo forme frastagliate e disegnando canyon sulla superficie di una piana rigogliosa e piena di vita. Al termine dell’ultima grande glaciazione quindi, i continenti ormai posizionati nell’attuale configurazione, l’intera parte meridionale della penisola arabica divenne caratterizzata dall’attuale condizione climatica, di un paese più arido di molti, maggiormente incline all’effettiva desertificazione degli ambienti. Così l’antico letto del corso d’acqua, poi diventato un torrente, si trasformò infine in un wadi, valle secca per buona parte dell’anno tranne una breve ma intensa stagione delle piogge, non più sufficiente ad alterare ulteriormente il paesaggio. Di un luogo da cui ancora oggi, speroni scoscesi e preminenze emergono come molluschi attaccati al guscio di una colossale tartaruga, del tipo mitologico capace d’ospitare intere comunità umane. Molte parole sono state spese, e ricerche effettuate, su quale possa essere stata l’origine pre-islamica di quella che sarebbe stata identificata in seguito come cultura araba di base, indipendente dai confini tra califfati, emirati e moderne identità nazionali. Fino al raggiungimento di un consenso nei contesti di studio che vedrebbe proprio un particolare territorio dello Yemen meridionale, come possibile fonte originaria di un tale complesso di elementi culturali e schemi comportamentali della società. Ciò anche in forza di una serie di caratteristiche altamente distintive, tra cui trova una collocazione di primo piano l’affascinante architettura vernacolare locale, così straordinariamente rappresentata dal villaggio sopraelevato di Haid al-Jazil, capace di assumere l’aspetto attuale attorno al XVI secolo e lontano dall’autorità dei principali potentati medievali, come molti altri insediamenti della regione di Hadhramaut.
Spesso paragonato nelle trattazioni online a un luogo degno di comparire nel Signore degli Anelli e Guerre Stellari (per non parlare di Dune!), con chiaro riferimento alla sua fantastica collocazione distante da eventuali vermi delle sabbie, così arroccato sopra quella che doveva anticamente costituire un’isola lungo il corso del grande fiume dimenticato, esso compare infatti ulteriormente caratterizzato da una serie di oltre 50 edifici dalla forma squadrata, interconnessi da ponti e separati da stretti e angusti vicoli, del tipo idealmente associabile a innumerevoli scene d’avventura cinematografica ed esplorazione di culture radicalmente distintive, per non dire addirittura aliene. Eppure nella lunga storia della settima arte, il luogo geograficamente ed esteriormente più vicino a questo utilizzato come set fu la ben più grande città di Sana’a, dove venne girato nel 1974 “Il fiore delle Mille e una notte” di Pier Paolo Pasolini, notoriamente un grande estimatore, come ebbe modo di dichiararsi a più riprese, dell’affascinante approccio yemenita alla costruzione di svettanti spazi abitativi. Ovvero i cosiddetti grattacieli del deserto, capaci di raggiungere fino a sette livelli sovrapposti grazie all’uso di una semplice struttura in legno e mattoni di fango, in cui il primo e secondo vengono dedicati alla funzione di magazzino, il terzo e il quarto sono salotti per gli uomini, il quinto e il sesto sale per le donne, e nel settimo risiedono i bambini, oppure le giovani coppie sposate. Una configurazione che senz’altro si trovava alla base, su scala forse più ridotta, del sistema organizzativo di questo villaggio nell’epoca d’oro della sua storia, quando qui vivevano forse centinaia di persone capaci di trarre sostentamento dall’allevamento di animali ed un sofisticato sistema di cisterne per instradare l’acqua giù dalle montagne circostanti. L’arrivo di sistemi sociali maggiormente organizzati, coadiuvata dall’aspirazione verso uno stile di vita più pratico e conveniente, avrebbe portato molti degli abitanti a trasferirsi in luoghi più conformi all’idea contemporanea di vita comunitaria, portando alla progressiva disgregazione di una tale antica magnificenza. Ciò in quanto gli edifici costruiti con materiali simili, per loro intrinseca natura, richiedono manutenzione continuativa nel tempo, pena il progressivo disfacimento delle mura con conseguente ingresso di termiti, capaci di erodere letteralmente le fondamentali infrastrutture lignee contenute all’interno. Un destino oggi toccato, come possiamo facilmente scoprire, ad una buona parte dell’antico Haid al-Jazil, abitato da sole 17 persone secondo il censo del 2004, probabilmente diminuite ancora nel periodo degli ultimi 15 anni…

Visto da vicino, Haid al-Jazil si presenta con tutte le caratteristiche di un luogo abbandonato. Nello Yemen dei mattoni di fango, i possidenti erano infatti soliti ricoprire le pareti esterne dei propri edifici con un intonaco impermeabile d’argilla e paglia, capace di ritardare le infiltrazioni d’acqua. Ma persino tali soluzioni non riescono a durare per sempre.

Le particolari metodologie per organizzarsi la vita all’interno di un luogo simile dunque, per quanto difficilmente immaginabili, ci vengono almeno in parte elencate dall’abitante del luogo Abu Baker Ahmad Bamousa Al Amoudi in una sua intervista rilasciata nel 2018, ripresa da diverse testate online rendendo difficile ricostruire l’originaria provenienza del pezzo. Lui che, volendo dar seguito a una richiesta esplicita del padre, decise di non lasciare la casa di famiglia fino alla fine dei suoi giorni, coinvolgendo nella propria scelta anche la moglie e gli otto figli, che potrebbero anche essere (ad un’ipotesi relativamente probabile) le ultime anime vive rimaste all’interno del villaggio ormai cadente di Haid al-Jazil. Senza alcuna struttura commerciale, né dottori e tanto meno l’accesso facile a una scuola, tempo fa raggiunta ogni giorno dai membri più giovani della famiglia mediante l’uso di un furgone. Finché il costo non sarebbe diventato eccessivo per il capo famiglia, dato il calo degli introiti della fattoria situata nelle profondità della valle sottostante, portando all’abbandono del progetto educativo per le sei giovani donne della famiglia; d’altra parte, non era culturalmente accettabile che camminassero fino a destinazione. Ciononostante, Al Amoudi appare straordinariamente fiero del suo piccolo palazzo, mantenuto in condizioni ideali e tanto diverse da quelle delle residenze più vicine, i cui tetti erano un tempo luoghi di ritrovo e confronto per le diverse famiglie, in un’epoca di cui egli parla con nostalgia evidente. Non tutti i cambiamenti, d’altra parte, sono stati in senso peggiorativo, vista la maniera in cui in epoca recente, come conseguenza dell’iscrizione a patrimonio dell’UNESCO di svariati siti nella regione di Hadhramaut ed in modo particolare, lo stesso wadi dove si trova il villaggio del macigno (più tecnicamente, uno sperone di roccia?) le autorità locali hanno incoraggiato lo stanziamento di fondi pubblici e la costituzione d’organizzazioni dedicate alla conservazione delle antiche mura storiche del paese. Vedi la Dawan Architecture Foundation, che raccogliendo fondi si è occupata di fornire l’elettricità ed acqua corrente a diversi luoghi inclusa la casa di Al Amoudi, mediante un perfezionamento degli stessi antichi sistemi idraulici un tempo utilizzati per l’approvvigionamento ed irrigazione dei campi, allungati fino ad arrampicarsi, come una grondaia o gigantesco millepiedi, sulla parte posteriore degli edifici. Un investimento ulteriormente motivato dalla costruzione di un non meglio definito (né facilmente definibile) resort turistico sopra le pareti della valle indicizzato sul portale Tripadvisor, la cui principale attrattiva sembrerebbe essere una vista inconfondibile sull’antico centro abitato.
Naturalmente, le condizioni di vita nelle antiche comunità yemenite non sono facili. Per l’assenza di strade, servizi e infrastrutture, nonostante si stia cercando negli ultimi anni di recuperare almeno in parte le antiche metodologie architettoniche, mettendole al servizio di una produzione maggiormente distintiva anche a livello internazionale. Ciò in quanto, dal punto di vista operativo, l’architettura classica yemenita presenta alcuni particolari vantaggi tra cui il superiore spessore dei muri, che partendo più larghi al piano terra si restringono verso la sommità, favorendo in modo significativo l’isolamento termico, senza dover ricorrere costantemente al costoso condizionamento dell’aria degli edifici in cemento. Del tipo oggi utilizzato nella maggior parte dei centri urbani più vicini, come la città portuale di Mukalla, un importante centro commerciale e d’interscambio per l’intera regione dello Yemen meridionale.

La temperatura nel fondo delle wadi risulta essere generalmente molto elevata, rendendo difficile l’insediamento da parte degli umani. Ecco la ragione per cui tanti villaggi yemeniti sono costruiti sulle pendici stesse, rocce, macigni o altri rilievi di varia natura.

L’abbandono progressivo dei vecchi luoghi abitativi costituisce perciò oggi un problema in molti paesi del mondo, particolarmente quelli dove il cambio generazionale di una popolazione mediamente in là con gli anni sta infine raggiungendo il punto di svolta, mentre i discendenti di quest’ultima vengono rapiti dal fascino innegabile di una vita connotata dalle pratiche comodità moderne. E ciò senza neppure considerare l’importante aspetto della sicurezza in luoghi parzialmente disabitati, di cui parlava lo stesso Al Amoudi citando il cancello montato recentemente all’ingresso del villaggio, a causa di alcuni furti subìti da vicini o membri della sua famiglia notevolmente allargata. Mantenere gli antichi stili di vita, d’altronde, è una scelta che non può prescindere da un alto grado d’impegno personale. Il che tende a suscitare, tra coloro che non hanno i mezzi, un senso latente d’invidia e conseguente instradamento al ladrocinio.
Sia quello che sia, di luoghi come questo ne esistono ormai molto pochi al conteggio attuale. Ed è ragionevolmente apprezzabile, nonché prevedibile, la maniera in cui nessuna imitazione immaginifica sul grande schermo, per quanto dettagliata e complessa, sia riuscita ad imitare l’effettiva unicità di questo luogo. Sebbene il mero progredire degli anni, con l’erosione che da esso deriva, stia facendo il possibile per correggere una tale deviazione dall’iter dell’epoca contemporanea. Anche per il comprensibile poco interesse da parte dei paesi vicini o distanti, data l’instabilità politica della regione e il rischio che si corre per eventuali visite turistiche dal cosiddetto mondo Occidentale. Chi aiuterà, a questo punto, lo Yemen a tornare un polo di riferimento per la storia e l’approfondimento della cultura Araba in quanto tale? Forse l’unica scelta per scoprirlo è quella d’aspettare sufficientemente a lungo. Nella speranza che non sia la semplice acqua piovana ed il vento, ad occuparsi del resto.

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