Settembre a Sumatra, stagione dei monsoni e del cielo di sangue

Fummo cauti, da principio. Attenti a quella linea in grado di dividere la ragionevolezza dal pericolo e dall’imprudenza delle idee. Finché un poco alla volta, la nuova normalità finì per prendere il sopravvento. Il che significò, semplicemente, pretendere qualcosa in più. Qualche metro, un paio di chilometri ed infine lo spazio maggiore di un’intera isola ragionevolmente inadatta all’agricoltura. Finché una mattina ci svegliammo, in un mondo diverso: l’alba era diversa, la vita era diversa, addirittura il cielo era di un altro tipo. Rosso, come il fuoco eppure tenebroso, al tempo stesso. A guisa ragionevole di quello che la scienza non avrebbe mai potuto definire, per sua predisposizione, inferno sulla Terra. Benché linee di contatto, a conti fatti, ve ne fossero diverse. Il caldo umido e opprimente, accompagnato da problemi respiratori. L’irritazione degli occhi e della pelle, giunte direttamente a contatto con un “diverso” tipo di smog. Non il prodotto del semplice inquinamento, stavolta, bensì un effetto collaterale di quello che potremmo facilmente identificare come un metodo indiretto, e molto lento, per distruggere la vita di molti innocenti. L’ultimo e potenzialmente risolutivo metodo per il suicidio collettivo dell’umanità.
Come primo impatto, una notizia “curiosa” del tipo che riesce facilmente a rimbalzare sulla piazza del moderno Web, specialmente se accompagnata da immagini capaci di colpire l’immaginazione: quelle riprese da comuni abitanti della regione di Jambi, nella parte orientale della terza isola più grande d’Indonesia, sin dall’epoca del Rinascimento centro di tutti i commerci condotti nei dintorni dello stretto della Malacca. All’interno delle quali è possibile ammirare, se così vogliamo dire, le inusitate condizioni climatiche vissute in questi giorni dagli abitanti. Ma c’è davvero molto poco da stare allegri dinnanzi allo spettacolo di un luogo trasformatasi improvvisamente in provincia distaccata del pianeta Marte, come si evince in maniera evidente dal post su Twitter dell’utente Zuni Shofi Yatun Nisa, il primo a diventare virale online su scala internazionale: “É giorno e non notte. É la Terra, non è lo spazio. Gli umani respirano coi polmoni, non le branchie. Abbiamo bisogno di aria pulita, non ci serve il fumo!”
A chi potrebbe rivolgersi, dunque, un simile grido di allarme, se non ai grandi agricoltori e all’industria dello sfruttamento del territorio, che come ogni anno verso il sopraggiungere dell’autunno ormai da parecchie generazioni, mette in atto un piano particolarmente subdolo e spregiudicato, causa della situazione iterativa del South Asian haze (foschia asiatica meridionale). Che dovrebbe ricordarci in maniera piuttosto diretta l’attuale ed assai più pubblicizzata situazione che vige in Brasile, coi fuochi dell’Amazzonia che ardono da molti mesi, causa stessa implementazione della tecnica di disboscamento comunemente chiamata slash & burn. Con una sola, fondamentale differenza: l’apertura dell’Occhio di Sauron sull’Indonesia e il diffuso colore vermiglio dell’atmosfera risultante, in grado di far porre una lunga serie di domande a chiunque risulti direttamente coinvolto, tra un colpo di tosse e l’altro. Non ultima delle quali, il “perché” di un fenomeno tanto apparentemente assurdo…

Nel crepuscolo della vita per come siamo abituati ad interpretarla, persino un i fari di un’automobile possono trasformarsi nell’astro nascente di una potenziale via di fuga. Purché i confini indistinti del battistrada, ormai praticamente invisibile, riescano a mantenere un’aleatoria parvenza di significato residuo.

Dal punto di vista scientifico, dunque, non hanno tardato a susseguirsi le varie interpretazioni offerte da figure accademiche alla stampa, di cui quelle principali sembrano essere principalmente due: in primo luogo, potrebbe trattarsi di una versione deviata dello scattering (sparpagliamento) di Rayleigh, situazione atmosferica che prende il nome dal fisico britannico e premio Nobel dei primi del ‘900, in forza della quale le particelle fotoniche provenienti dall’astro solare impattano contro l’invisibile pulviscolo atmosferico, potendo soltanto in parte raggiungere le nostre teste. Ed i bulbi oculari all’interno, che in funzione di ciò possono percepire, unicamente, un colore azzurro che poi sarebbe quello maggiormente comune del nostro cielo. Salvo occorrenza di situazioni variabilmente anomale, come quella delle albe e i tramonti durante i quali la nostra stella, posta di traverso rispetto alla curvatura del terzo globo che vi ruota attorno, permette a una diversa lunghezza d’onda di penetrarvi, affascinando i meteorologi superstiziosi con la romantica variazione cromatica del “Rosso di sera…” Sul che si fonda, dunque, l’ipotesi citata dalla BBC del prof. Koh Tieh Yong dell’Università di Singapore, secondo cui particelle molto piccole, inferiori 0,05 micrometri, sarebbero presenti all’interno del fumo proveniente dai roghi delle foreste di Sumatra, generando le condizioni ideali per una sorta di “tramonto permanente” in grado d’inquietare gli animi ed affascinare gli sguardi. Di natura lievemente diversa, invece, risulta essere la spiegazione ufficiale dell’agenzia meteorologica indonesiana BMKG, che attribuisce l’inusitata situazione a un diverso tipo di scattering, quello dell’equazione proposta da Lorenz–Mie–Debye o come viene più frequentemente chiamato, semplicemente di Mie, dovuto a particelle dalle dimensioni decisamente maggiori (±10 micrometri) capaci di far passare verso terra soltanto le onde più lunghe, e quindi maggiormente pervasive, dello spettro cromatico contenuto all’interno della radiazione solare. Quelle tendenti, per l’appunto, verso un colore direttamente assimilabile a quello di una ciliegia avvelenata.
Qualunque sia la parte della situazione vigente responsabile per la sua anomalia cromatica, ad ogni modo, appare evidente come la situazione sia ormai insostenibile. Al di là di considerazioni a lungo termine per il futuro di questo pianeta e i danni nei confronti della vegetazione responsabile della produzione di ossigeno, per i succitati effetti drammatici sulla salute della popolazione stessa, in una stagione che ha raggiunto i massimi livelli di pericolosità dall’epocale foschia da incendi del 2015, capace di bloccare una parte considerevole dei voli civili ed accelerare la morte, secondo le stime più pessimistiche di una cifra spropositata come 90.000/100.000 persone, in forza di problematiche respiratorie ed altre simili infezioni, attraverso l’intero territorio d’Indonesia, Malesia, Filippine, Thailandia, Vietnam e Brunei. Mentre per via di una stagione dei monsoni annuale particolarmente ventosa di questo 2019, già le correnti atmosferiche iniziano a trascinare il fumo irrespirabile verso grandi centri abitati come la città di Singapore, che ancora una volta si prepara ad accettare le gravi conseguenze di un simile dramma sull’industria del turismo, assolutamente fondamentale per l’economia locale.

Di sicuro, riuscire spegnere un incendio può dare un temporaneo senso di sollievo. Ma cosa è possibile fare, quando il cielo stesso si tinge del colore di una letterale provincia dell’Inferno, trasferita istantaneamente di fronte agli sguardi atterriti di una popolazione, per sua sfortuna, priva di risorse tecnologiche effettivamente risolutive?

Per il problema del South Asian haze, di cui l’occorrenza indonesiana risulta annualmente la più grave e pervasiva, sono state tentate diverse possibili soluzioni, inclusa quella di provocare le piogge purificatrici mediante l’impiego di sostanze cristallizzanti (in genere cloruro d’argento). L’unica realmente efficace, tuttavia, sembra essere quella d’impedire l’insorgere degli incendi alla radice, attraverso l’impiego di una normativa di legge particolarmente stringente e fatta rispettare col pugno di ferro, da una classe politica tradizionalmente, ed aggiungerei purtroppo, non così stranamente, del tutto disinteressata nei confronti di un problema che potrebbe avere conseguenze gravissime nel futuro prossimo, ancor prima del sopraggiungere dei nostri sfortunatissimi pronipoti.
Perché abbiamo ormai oltrepassato da molto tempo l’epoca delle simpatie o della fiducia, nel confronto dell’una e dell’altra figura pubblica, capace di polarizzare le opinioni di un grande pubblico tristemente disinformato in materia. Mentre i primi segni dell’Apocalisse incipiente (riuscite ad immaginarne di migliori?) gravano sulle nostre teste assordate dal caos mediatico di chi tenta d’affrontare l’argomento. Cercando di diffondere la “malattia virale” più importante di tutte: l’obiettività da parte di chi osserva ed ascolta le notizie. Che negli ultimi tempi, sarebbe assai difficile dubitarlo, deve aver goduto di una propagazione notevole per quell’ampia fascia del popolo indonesiano che, come Zuni Shofi, ha dovuto faticare a ricordare il colore originale del cielo. Un qualcosa di ben più orribile dal punto di vista spirituale ed istintivo, di quanto le ragioni della scienza possano tentare di razionalizzare.

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