La pilotina elettrica: silenziosa rivoluzione degli approdi portuali?

Lo sciabordio perfettamente udibile dell’acqua che s’infrange contro il molo, più e più volte, mentre il palazzo trapezoidale con il ponte di comando in bella vista sembra muoversi spontaneamente come l’ombra di una meridiana, virando in modo perpendicolare alla torre d’osservazione portuale. Un poco alla volta, il tratto di mare oscurato diviene impossibilmente sottile, poi scompare del tutto, con l’apparizione improvvisa di una forma verde, rossa e azzurra, le antenne a protendersi ordinatamente verso il cielo. Con un sussulto sincronizzato al grido sovrastante dei gabbiani, la piccola imbarcazione ruota agilmente su se stessa ed appoggia meglio la prua contro il bersaglio. Nessun suono, fumo o vibrazione, mentre ricomincia a spingere il possente bastimento con la precisione geometrica che viene dall’esperienza…
Nello svolgimento di un viaggio spaziale tra un pianeta e l’altro o perché no, interstellare, un’interpretazione realistica della fisica newtoniana prevede un dispendio di carburante concentrato principalmente in due momenti: la partenza e l’arrivo. Così che negli effettivi spostamenti effettuati da sonde o velivoli storicamente realizzati, per non parlare delle rappresentazioni plurime opera dei molti sfoghi della fantascienza, esiste quel momento in cui il pilota accende soltanto per qualche minuto i motori principali, “bruciando” carburante in fase di accelerazione o in modo speculare, decelerazione, mentre le piccole alterazioni di rotta vengono effettuate unicamente mediante l’impiego di piccoli ugelli ausiliari. Un qualcosa che possiamo ritrovare, fatte le dovute proporzioni, anche nella navigazione acquatica sulla superficie dei mari di questa Terra. Particolarmente al termine di un lungo viaggio che potrà condurci, dopo aver attraversato buona parte dell’Oceano Pacifico, fino a un punto d’approdo sicuro presso il continente d’Oceania, in quell’isola ecologicamente felice che ospita la città di Auckland, principale porto della Nuova Zelanda. Eppure, ha davvero senso impostare meccanismi di produzione dell’energia principalmente da fonti rinnovabili, quando uno dei principali ingranaggi della propria economia, il commercio marittimo, non può prescindere in alcun modo dal più copioso consumo di carburante diesel? Al fine di accompagnare ciascuna nave container, petroliera o altro mastodonte in acciaio e metalli vari fino al punto prefissato, manovrando quell’enorme stazza tramite l’impiego di strumenti piccoli, ma potenti!
Esatto: la pilotina (o rimorchiatore) quel natante dallo scafo simile alla forma di una vettura per l’autoscontro del luna park, la cui apparente stranezza risponde invece all’esigenza di appoggiarsi alle svettanti murate di vascelli assai più imponenti, agendo in maniera comparabile alle succitate variazioni di velocità stellari da parte degli astronauti in viaggio al di là del grande vuoto interplanetario. Il che storicamente non ha procurato grandi problematiche o dilemmi di natura etica, a meno finché in epoca recente, le importanti considerazioni climatiche e sul mutamento dello status quo ambientale hanno portato all’introduzione di stringenti norme sulle emissioni prodotte da tali fondamentali strumenti, verso l’introduzione di speciali filtri anti-particolato o motorizzazioni ibride, paragonabili a quelle delle locomotive “elettriche” in uso sulla terraferma. Ma che dire di un’azienda come Ports of Auckland, amministratrice degli omonimi due punti di sbarco nella celebre città sull’istmo strategicamente fondamentale dell’Isola del Nord, che da una decade ormai ha promesso di raggiungere, entro il 2040, il difficile obiettivo di un’impronta ecologica pari allo zero? Come cancellare del tutto quel tipo di consumi carboniferi che, a discapito di chiunque, sono stati sempre inevitabili nelle operazioni di carico e scarico di un qualsivoglia porto moderno? Strano, insolito persino sorprendente: nessuno avrebbe mai pensato che la soluzione potesse venire dall’altra parte del globo, ovvero da una particolare azienda situata entro i confini d’Olanda…

In questo video di presentazione della pilotina con motore ibrido Damen 2813 è possibile apprezzare la complessità e precisione della sua cabina di comando, assai probabilmente simile a quella della futura versione totalmente elettrica della stessa idea. L’azienda olandese, del resto, è particolarmente nota per l’attenzione riservata alla modularità.

Dei porti di Auckland e i loro copiosi investimenti nel campo dell’innovazione abbiamo parlato già in precedenza su questo blog, affrontando l’argomento degli interessanti automatismi implementati nello spostamento dei container che giungono sui loro moli, tramite la soluzione di grandi gru a ponte con sistemi di guida interamente robotizzati. Ciò detto, l’importante progetto lanciato in questi giorni per la consegna entro il 2020 della prima pilotina elettrica in servizio attivo, con la collaborazione del rinomato produttore marittimo olandese Damen, promette di apportare cambiamenti ancor più significativi e positivi nelle aspettative possibili sull’economia e l’efficienza di lavoro, riducendo nel contempo al minimo uno dei principali effetti negativi di questo tipo d’istituzioni sul contenuto malsano della nostra atmosfera. Il nome del natante, al momento, risulta essere soltanto RSD-E Tug 2513, dal numero di serie di una delle linee più moderne e funzionali di pilotine prodotte dal marchio, già rinomata per la rara capacità di spingere i soggetti con la prua quasi sempre in avanti, le doti idrodinamiche garantite da una progettazione innovativa dello scafo nonché la notevole ottimizzazione dei consumi anche nell’allestimento convenzionale con due motori MTU 16V ad alimentazione diesel da 4480 BKW di potenza, traducibile in una capacità di traino o spinta di circa 80 tonnellate. Caratteristica primaria quest’ultima, che la Ports of Auckland ha chiesto di mantenere invariata anche nel nuovo apparecchio fornito di batterie per una capienza complessiva di 2,800 kWh, capace di garantirne il funzionamento in condizioni normali per un periodo di fino a quattro ore. Prima che il pilota debba dirigersi fino all’apposita stazione di ricarica, anch’essa parte dell’appalto inviato in Olanda, che permetterà di ricaricarla rapidamente entro il trascorrere di due ore e mezza. Il tutto ad un costo niente affatto trascurabile: è stato stimato infatti che l’intero processo di ricerca & sviluppo seguito dall’effettiva messa in opera del battello dovrebbe raggiungere una cifra attorno ai 18-20 milioni di dollari, ovvero esattamente il doppio del prezzo d’ordine per una pilotina di tipo convenzionale o ibrido. Benché il successivo costo operativo, data l’enorme riduzione dei consumi e manutenzione, dovrebbe permettere di recuperare tale cifra nel giro di appena una decina d’anni, a meno d’imprevisti sul sentiero del suo impiego futuro. Per fronteggiare i quali, ad ogni modo, la pilotina sarà anche dotata di due generatori diesel da 1.000 kW ciascuno capaci di sviluppare una potenza di traino di 40 tonnellate, i quali dovranno tuttavia trovare l’impiego solamente in caso d’emergenza oppure, possiamo soltanto presumerlo, nel momento in cui una spinta ulteriore ed imprevista dovesse risultare l’unica risorsa in grado di risolvere una manovra particolarmente impegnativa.

Fiore all’occhiello ecologico dell’intera linea 2513 fino a questo momento, la pilotina Bis Viridis (“Due Volte Verde” in latino) vanta la certificazione IMO TIER III, minimo livello di emissioni raggiungibili mediante l’impiego di propulsori ibridi con generatori diesel costantemente accesi.

Detto questo, la pilotina totalmente elettrica della Damen non è esattamente il primo approccio globale a questa nuova importante tematica delle operazioni portuali. Già l’anno scorso si era parlato effettivamente nelle fiere di settore dell’ultima proposta della compagnia turca Navtek, attualmente in collaborazione con il porto di Istanbul per l’imminente schieramento della ZeeTug NV-712, un mezzo spinto da batterie della Corvus Energy per un totale di 1,484 kWh. Il che lascia intendere, ad ogni modo, le dimensioni complessive decisamente inferiori al progetto di Nuova Zelanda e Olanda, con una lunghezza complessiva di 18,7 metri contro i 24 della RSD-E Tug nonché l’assenza, niente meno che cruciale, dei due propulsori ad elica con moto azimutale, ovvero capaci di ruotare a 360 gradi al fine di garantire qualsiasi tipologia di manovra. Il che delinea, a conti fatti, una pilotina dall’impiego molto più specifico e limitato, e proprio per questo meno adattabile alla quantità di situazioni possibili nei porti oceanici di questo vasto mondo.
Qualunque sia la strada scelta fatta per il futuro di tutti, ad ogni modo, lo scenario sta iniziando giusto adesso a farsi veramente interessante. L’epoca del consumo senza limiti delle risorse costituite dai resti fossili di questo pianeta, del resto, sta andando incontro a un rapido esaurimento. E i nuovi approcci tecnologici alle soluzioni quotidiane per l’industria e i commerci potrebbero, entro pochissime generazioni, fare la differenza tra la sopravvivenza, oppure l’autodistruzione economica della nostra stessa società globalizzata. Mentre i gabbiani tra le nubi totalmente inconsapevoli, continuano a gridare con la stessa forza, anche dopo l’avvenuto spegnimento dell’ultimo cacofonico motore portuale.

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