“Francamente, non capisco proprio quale sia il vantaggio.” eRosy Lyft III si trovava sul tetto del suo appartamento galleggiante da 128 mq fornito dal governo, assieme al marito Ulfriczoltan Jr. Seychelles, di ritorno dalla sua spedizione presso l’antica area commerciale della città, situata ai confini estremi del golfo di California (grossomodo corrispondente alla zona nord di San Francisco, prima che la principale città della Costa Ovest facesse la fine di Atlantide a causa del maggior territorio della storia). “Come hai detto che si chiamava, quel posto? IKEA?” Voltandosi momentaneamente per aprire il portellone posteriore della sua auto-drone a sei rotori, Ulfric sorrise sotto i baffi annuendo, prima di recitare lo slogan che aveva ritrovato nei suoi libri di storia del marketing, risalenti a prima dell’adozione su larga scala delle fonti energetiche con celle d’idrogeno autorigenerative: “La Casa è il Posto più Importante del Mondo, mia cara. Non possiamo lesinare sull’arredamento.” Lei fece compiere un rapido giro di esasperazione esplorativo alle due pupille: certo, dopo tutto era anche questo che amava del suo consorte. In un anacronistico impeto di momentaneo sforzo fisico, la coppia prese quindi a scaricare gli scatoloni ordinatamente inseriti nell’aeromobile, in tutto soltanto tre. “Voglio dire, potevi ordinare tutto da Internet, come facciano sempre. Il tavolo e le sedie da pranzo sarebbero arrivate già montate, e…” Fu allora che mentre si voltava sbuffando, la moglie notò l’appuntita espressione di lui, furbesca al punto da sembrare quasi volpina, mentre con un saltello tornava a lato dell’automobile volante, soltanto per spalancare la portiera destra. Una sagoma si erse in piedi, con la statura approssimativa di un umano alto 1 metro e 75, creatura che avrebbe pienamente ricordato se non fosse per la pelle argentea, gli occhi simili a telecamere e la quasi totale assenza di lineamenti. L’androide indossava una maglietta gialla con strisce blu scuro e risvolti del colletto della stessa tonalità, sopra un paio di blue-jeans del tutto privi di strappi, come si usava circa un paio di secoli fa. Le sue braccia, con mani simili a tenaglie, ruotavano in senso longitudinale per tutti e 360 i possibili gradi. Le gambe si flettevano avanti e indietro in maniera ritmica, come quelle di un personaggio di Betty Boop. Con voce metallica quasi musicale, quindi, pronunciò le seguenti parole: “IKEA-bot 58.362 al vostro servizio, signori. Dove posso portare ed ASS-EM-BLARE gli acquisti effettuati?”
Si tratterà di un’evoluzione semplice, nonché naturale. Una volta inventata l’intelligenza artificiale, e sia chiaro che ad ogni momento che passa ci andiamo più vicini, l’umanità si rivolgerà ai suoi primi fratelli artificiali per farsi aiutare nella mansione più difficile che abbia mai dovuto affrontare nel corso della sua intera storia: assemblare i mobili pre-confezionati del più famoso produttore svedese, ormai da tempo sinonimo di un arredamento funzionale, esteticamente gradevole e poco costoso. O almeno, è così che sembra da un certo punto di vista, in una società moderna che tende costantemente a drammatizzare. Perché fa ridere, perché nessuno ci crede veramente, ma anche perché suscita un vago pensiero sulla falsariga del “Chi me l’ha fatto fare!” Schiavizzando se stessi e sfidando la propria essenza di consumisti, alla ricerca di un solido senso di soddisfazione, ci s’interroga dunque sull’esistenza ed il mondo stesso delle idee. Tutto quello che possiamo fare, verso l’arrivo di un nuovo livello di civilizzazione casalinga, è porre le basi. Un po’ come si sono approcciati al problema gli addetti di un gruppo di ricerca della prestigiosa Scuola d’Ingegneria della Nanyang Technological University (NTU) il politecnico di Singapore. Nella fattispecie, Francisco Suárez-Ruiz, Xian Zhou e Quang-Cuong Pham, autori dello studio intitolato “Possono i robot montare una sedia dell’IKEA?” Pubblicato con grande fanfara mediatica sul numero di metà aprile di Science Robotics, importante rivista del settore. Capace di colpire la fantasia del pubblico, come spesso capita, non tanto per il contenuto testuale, quanto per il materiale multimediale di accompagnamento, ossia soprattutto un video di circa 20 minuti, accorciato e montato per la stampa, nel corso del quale un paio di braccia prive di corpo, ma dotate di telecamera, osservano attentamente i singoli pezzi necessari per l’assemblaggio di una sedia modello Stefan, disposti alla rinfusa attorno a loro. Per poi mettersi, industriosamente, a costruirla. Ora, come molti di voi potrebbero già sapere, il montaggio di questo particolare oggetto può rientrare nella categoria delle cose semplici soltanto all’apparenza, in funzione dei suoi pochi pezzi e il numero non troppo elevato di viti. Ma alla stessa maniera degli altri prodotti di arredo del colosso scandinavo, è pur sempre necessario un certo grado di precisione, tale da indurre, nei poco orientati alla metà manuale del mondo, un senso latente e duraturo di scoramento. Aggiungete pure a questo il fatto che in genere, quando ci si approccia alle “semplici” Stefan, si è già trascorsa un’intera giornata a sgobbare dietro a ben più ostici divani, librerie ed altro, ponendoci nella condizione fisica meno ideale per affrontare una simile sfida.
al che deriva che, immaginare un futuro in cui i robot potranno risolvere tale questione per noi, riporta con la mente alle fantasticherie di un ventennio fa, quando si pensava che nel 2000 gli esseri artificiali avrebbero pulito casa per noi e risolto le altre faccende quotidiane (un traguardo a cui forse soltanto adesso, ci stiamo avvicinando). Eppure, mi sembra già di sentirlo, che cosa c’è di speciale alla fine? Tutti hanno bene impressa nella mente la scena della tipica catena di montaggio, ad esempio del settore automobilistico, in cui una serie infinita di braccia articolate s’industriano nello svolgere mansioni assolutamente predeterminate. Potrebbe non risultare subito chiara, dunque, quale sia la differenza con una versione più piccola, e adibita ad uso privato, di quella che bene o male sembrerebbe esattamente la stessa cosa. Soltanto che in effetti, non è così: la principale differenza va rintracciata nel contesto, assai più simile a quello del cosiddetto “mondo reale”….
Nella casa di un distopico futuro, in cui ogni gesto fosse cadenzato e instradato dalla tecnologia, sarebbe facile immaginare un protocollo preciso per l’apertura delle scatole, ed un punto esatto in cui collocare tutto, fino all’ultima vite. A quel punto, un paio di braccia come quelle ricordate poco più sopra potrebbe eseguire una pedissequa programmazione, assemblando la sedia con un margine d’errore pressoché irrisorio. Ma non è questo quanto stavamo immaginando in apertura e soprattutto, non è ciò che possono fare i robot della NTU. L’idea è in effetti affine a quella dei moderni droni telecomandati: dotare il dispositivo di un certo grado di autonomia e pensiero, relativi all’elaborazione di un metodo, limitando la gestualità precalcolata a comandi come “raccogli la zampa / inserisci il paletto / avvita la parte nel punto X o Y”. Il che, dal punto di vista della robotica, è una sorta di Santo Graal ricercato da tempo, considerato un passaggio pressoché obbligato verso la creazione dell’omuncolo tecnologico contemporaneo. Considerate, a tal proposito, l’alta quantità di considerazioni istintive che fanno parte della procedura necessaria per portare a termine la procedura fin qui menzionata, ovvero le istruzioni tutt’altro che strutturate necessarie a costruire la sedia Stefan. Prima di tutto, il robot (o per essere più specifici, il paio di braccia robotiche) dovrà prendere nota della posizione esatta in cui si trova ciascun singolo componente. Compito assolto, a quanto si può desumere dai riassunti pubblici dell’articolo (il resto è protetto da un invalicabile paywall) da una telecamera 3D, oggetto che possiamo presumere simile, se non addirittura corrispondente, a quel caposaldo d’innumerevoli progetti del DIY, sia condotti da privati che grandi istituzioni: il Microsoft Kinect. Il proiettore di una matrice d’infrarossi, utile a tutto tranne che i videogiochi per cui era stato progettato, in grado di realizzare una mappatura precisa di tutto quello che si trova di fronte, permettendogli d’interpretare i gesti umani o, ancor meglio, calibrarne di propri verso la ricerca di un precisa finalità.
Una volta identificato ciascun singolo componente della sedia, quindi, l’essere ingegnerizzato dovrà calcolare l’adattamento di ciascuna esatta movenza, necessaria a sollevare, posizionare ed abbinarle l’un l’altra, secondo un piano operativo che non può essere, viste le circostanze, nulla più che un semplice canovaccio. Esso stesso dovrà quindi decidere le forze idonee per portare a termine ciascuna fase, nonché l’esatta maniera in cui posizionare i suoi arti evitando che s’intralcino l’un l’altro. E poi, c’è l’inevitabile fallibilità. Pensate soltanto alla quantità di modi in cui il semplice gesto di avvitare può andare storto, con la punta dell’attrezzo che scivola fuori dalla testa bersaglio, finendo per battere senza risultati contro le pareti dell’alloggiamento. Una mansione per la quale i creatori hanno pensato, per il momento, di affidarsi al tocco, creando un sistema capace di capire a tastoni se ciascun paletto si trova in posizione corretta, prima di dichiarare i montanti stabili e passare alla spalliera. Ah, se soltanto anche noi, avessimo avuto una simile dote innata, nel momento in cui allestivamo la nostra tortuosa e complicatissima sala da pranzo! È importante, ad ogni modo, contestualizzare l’intera faccenda: I robot della NTU non costituiscono il primo esempio di un simile progetto, con uno studio piuttosto simile del prestigioso MIT statunitense (Massachusetts Institute of Technology) in cui Ross A. Knepper et al. s’industriavano nel definire una coppia di automi semoventi, definiti IkeaBot, capaci di affrontare in qualche maniera la sfida della sedia Stefan. Ma la finalità di dimostrazione tecnologica, in quel caso, era nettamente diversa e presumibilmente dotata di un grado inferiore di autonomia.
Siamo di fronte, dunque, ad un qualcosa che potrebbe presto o tardi venire commercializzato, entrando a far parte in maniera indissolubile delle nostre esperienze di arredo tramite mobili moderno? Probabilmente, quasi certamente, direi di no. La portata delle singole componenti costitutive è semplicemente troppo sofisticata per questo, soprattutto quando esiste la semplice alternativa di pagare i fattorini della consegna per occuparsi anche del montaggio. L’essere umano, dopo tutto, resta la macchina più sofisticata di questo pianeta. Almeno, per il momento.
Sarebbe tuttavia possibile rivolgere i propri pensieri ad un domani in cui le catene di montaggio industriali potranno beneficiare di attrezzi molto più autonomi e persino, perché no, dotati d’iniziativa. Nella ricerca, sempre più prossima a realizzarsi, di un futuro in cui nessuno avrà più bisogno di lavorare. Il che, da un punto di vista utopico, avrebbe dovuto semplificare notevolmente la vita degli esseri di questa Terra. Peccato che il transito delle generazioni, per un motivo o per l’altro, abbia dimostrato l’esatto contrario. Sono questi, i più grandi interrogativi dell’esistenza: come può verificarsi il progresso, se non cambiano prima le regole dell’economia? Un robot perfettamente indistinguibile dall’uomo, dovrebbe avere i suoi stessi diritti? Ma sopratutto: dove diamine è andata a nascondersi la vite 16-b sul tappeto peloso VINDUM, di cui ho bisogno per poter dichiarare conclusa la più lunga (e gioiosa) giornata della mia vita?