Da dove ha origine la pesca coi cormorani?

Mentre la canoa procede lentamente sulle basse acque del fiume Li, nella regione autonoma del Guangxi, il pescatore rivolge una breve invocazione agli spiriti dei suoi antenati familiari. Quindi estende la sua preghiera, mentalmente, al Buddha e alla dea Longmu, madre dei cinque draghi che dominano su tutte le creature pinnute d’acqua dolce. Con il tramonto ormai inoltrato ed un cupo crepuscolo, che pesa come una cappa sulla sua imbarcazione solitaria. “È il momento” sussurra a quel punto tra se e se, prima di accendere la lanterna montata a prua che, come lui ben sa, avrà l’effetto di attrarre indifferentemente tutte le specie di ciprinidi e le più rare e succulente carpe rimaste nei pressi del caratteristico villaggio di Yangshuo. Per non parlare dell’occasionale serpente. “Un mero spettacolo per turisti” affermerebbe con cinismo qualcuno. Ma per lui, come lo era stato per suo padre e suo nonno prima di allora, tutto questo è la vita, nient’altro che il mestiere della sopravvivenza applicato alle risorse ittiche fluviali.
Così l’uomo si china verso l’agitato e starnazzante carico della propria imbarcazione: cinque grandi uccelli neri, dal collo lungo e ripiegato come quello degli aironi. Ciascuno di essi, legato con un lungo cordino, che gli parte dal collo ed arriva fino alla struttura della canoa. Ma in pochi attimi, il nodo è sciolto. Conoscendo fin troppo bene le regole del gioco, gli splendidi rappresentanti della specie Phalacrocorax carbo, il grande cormorano o cormorano comune, si gettano a quel punto in acqua, con una formidabile economia di movimenti. Chiunque abbia visto uno di questi uccelli nuotare, in effetti, raramente ha pescato tra i suoi ricordi la visione di una qualsivoglia anatra, gabbiano o martin pescatore, pensando piuttosto all’agilità e le spontanee movenze di una lontra o un castoro. Tutto, nella loro famiglia di esseri, è finalizzato a facilitare la pesca subacquea nelle particolari nicchie ecologiche da loro occupate nel sistema della natura: una notevole flessibilità delle articolazioni, ali sottili che offrono poca resistenza all’acqua e una limitata secrezione di olii da parte della ghiandola dell’uropigio, presente in quasi tutti i volatili, appena sufficiente ad impermeabilizzare lo strato inferiore lasciando invece le piume esterne libere di scivolare in maniera perfettamente idrodinamica e senza fatica. Perciò il pescatore di turno, che avrà addestrato i suoi uccelli a partire dal giorno in cui questi ultimi sono venuti al mondo, saprà con assoluta certezza che essi, una volta in acqua, avranno una capacità di manovra superiore a quella di tutte le possibili prede, iniziando a cercarle con tutta la precisione di un missile a ricerca di calore per il combattimento aereo. O se vogliamo usare una similitudine più pertinente, un siluro guidato a distanza. Cosa che puntualmente accade. Così come puntualmente, ad ogni preda catturata, gli uccelli faranno il loro ritorno sulla canoa, affinché il padrone possa prelevare il pesce direttamente dai loro becchi e deporlo nell’apposita cesta in vimini saldamente assicurata allo scafo. Già, ma come è possibile, in effetti, che gli uccelli non trangugino le loro stesse prede? Il tutto assomiglia al paradosso del cane che deve custodire un panino al prosciutto per il suo padrone. Per quanto una bestia possa essere educata e precisa, dinnanzi ad un cibo altamente desiderabile, sarà sempre l’istinto ad avere il sopravvento. Ed è proprio in questo, che ha origine il fondamentale segreto e l’apparente crudeltà della pesca col cormorano: ciascuno degli uccelli incaricati di una simile mansione, al momento in cui si tuffa, mantiene legata al collo la corda che gli impedisce di ingoiare pesci al di sopra di una determinata grandezza. Ovvero quelli, guarda caso, facilmente vendibili presso il mercato di Yangshuo. È soltanto al termine della sessione, che il dominatore del fiume, una volta recuperati i suoi servitori animali, li slega del tutto, ricompensandoli della fatica con un pesce di medie dimensioni ciascuno. Esattamente come vuole la tradizione.
La pesca col cormorano è una prassi a cui diverse popolazioni del mondo sembrano essere arrivate di propria spontanea iniziativa. A tal punto, è efficiente questo volatile nel praticare la sua attività innata, risultando nel contempo un poco agile volatore, e per questo molto più facile da addestrare. Esistono testimonianze scritte di una pesca simile praticata in Perù attorno al V secolo, tuttavia priva di una sua versione contemporanea. Essa fu praticata anche, per un breve periodo, in Grecia e Macedonia in epoca rinascimentale, soprattutto presso il lago Doiran, da dove la prassi venne importata anche in Francia ed Inghilterra. Ma nell’immaginario comune, così come nell’analisi statistica dei successi ottenuti, stiamo parlando di un’attività prettamente appartenente al contesto estremo orientale, che oltre a diversi villaggi disseminati lungo i fiumi dell’entroterra cinese, trova un’importante espressione ancora più a est, presso le isole dell’arcipelago giapponese.

Nota: il video in apertura proviene dal canale YouTube di Mike Corey “breakdancer/biologo marino che fa il mestiere del viaggiatore documentarista” una carriera che definirei piuttosto… Eclettica, che ne dite?

La famiglia dei cormorani, anche detti corvi del mare, si trova diffusa in varie forme in tutti paesi temperati del mondo, fatta eccezione per le isole del Pacifico centrale. Possiamo dunque presumere che la loro ascendenza evolutiva abbia incluso, in qualche epoca trascorsa, un antenato dalle marcate velleità migratorie.

C’è uno stereotipo, su cui sono soliti scherzare tutti gli studiosi dei paesi dell’Asia Orientale all’inizio della loro carriera universitaria, per cui tutto sembra provenire in qualche misura “dalla Cina”. Ogni espressione culturale, velleità religiosa, corrente letteraria o artistica, con la stessa sicurezza con cui l’oro delle Americhe si muoveva verso l’Europa delle potenze colonialiste, in un flusso che pareva, piuttosto, irradiarsi in ogni direzione possibile dal grande impero degli Han. Tra cui, immancabilmente, la penisola di Corea, dove attraverso l’integrazione con elementi nativi, qualche mercante o monaco viaggiatore riportava il tesoro al suo tempio di appartenenza, situato in un recondito angolo del grande Giappone. Il che non è sempre vero, ma nei fatti avviene in maniera abbastanza frequente, per cui anche gli storici tendano a fare una ricerca con un chiaro punto di origine, piuttosto che mantenere la mente aperta ad ogni possibile gioco dell’influenza reciproca tra i tre paesi. Per quanto riguarda la pesca coi cormorani, tuttavia, abbiamo almeno una documentazione chiara, il Suí Shū (Libro dei Sui) cronaca ufficiale dell’omonima dinastia imperiale, che si estese dal 581 al 618 d.C. Nella quale si parla di come i pescatori della terra di Wamatai, stimato partner commerciale sin dai tempi della leggendaria regina Himiko, fossero soliti ammaestrare l’uccello noto come ukai (Phalacrocorax capillatus o cormorano giapponese) per farsi aiutare nella pesca, con una metodologia, apparentemente, del tutto ignota all’epoca in Cina. Un altro resoconto significativo per apprezzare la non appartenenza di tale tradizione al corpus originario cinese possiamo trovarla in due racconti di viaggiatori italiani dell’inizio del XIV secolo, Marco Polo e il frate Odorico da Pordenone. I quali, pur avendoci lasciato in entrambi i casi dei ricchi cataloghi di quanto avevano modo di vedere in Cina, con spazio particolare concesso ai fatti più strani ed insoliti, mancano di menzionare in alcun modo questa particolare attività di pesca. Particolarmente significativo, poi, risulta essere il resoconto di Odorico, in cui l’autore cita l’esperienza di essere stato portato dai nativi “di una grande città” (probabilmente Hangzhou) a vedere dei cormorani selvatici che pescavano nel fiume. Presumibilmente, se gli abitanti avessero avuto la capacità di ammaestrarli, egli ce ne avrebbe parlato estensivamente.
C’è una forte probabilità, dunque, che la pratica di mandare sott’acqua i cormorani abbia origine proprio dal Giappone e nello specifico dalla città di Gifu, nella parte centro meridionale dell’isola principale di Honshu, capoluogo dell’omonima prefettura. Dove, come spesso capita in questo paese, la pesca coi cormorani è tenuta in alta considerazione come bene intangibile della cultura locale, e mantenuta in vita con pratica quotidiana da parte di un nutrito staff di praticanti sovvenzionati dallo stato.

Anche la pesca coi cormorani sul fiume Nagara è un’attività per lo più notturna, in grado di trarre notevoli vantaggi dalla tendenza di tutte le creature naturali a muoversi verso la luce. Fatta eccezione per il cormorano ammaestrato, esploratore delle oscure profondità fluviali.

La pratica della pesca coi cormorani di Gifu, alla stessa maniera di quella cinese di Yangshuo, prevede l’impiego di un costume tradizionale, che tuttavia in questo caso appare ancor più strano e, possibilmente, adattato in epoca moderna ai gusti del turismo locale. I pescatori indossano un gonnellino di paglia e un attillato kimono azzurro o viola, con uno strano copricapo a punta che ricorda vagamente il berretto frigio, celebre nel mondo moderno come capo indossato dai Puffi, beneamati folletti dei cartoni animati. La ubune, barca tradizionale, impiega come strumento d’illuminazione al posto della lanterna un vero e proprio braciere sospeso in un cesto metallico, detto kagari-bi. Piuttosto che essere un’attività solitaria, la pesca viene generalmente condotta da un equipaggi di almeno tre persone, tra cui due rematori e un addetto agli uccelli, che differentemente da quanto avviene in Cina, non slegherà mai i suoi cormorani, tenendoli piuttosto assicurati con una serie di lunghi guinzagli di corda, i tanawa. Ciò è possibilmente dovuto alle acque decisamente più impetuose e potenzialmente mosse del corso d’acqua locale Nagara, rispetto a quelle pacifiche del fiume Li, nella regione autonoma del Guangxi. Ad oggi, una datazione certa della pratica locale non è stata possibile, benché i locali siano pronti a giurare che essa risalga ad almeno “1.600 anni fa” legandola strettamente al culto stesso del dio Ebisu, protettore di tutti coloro che si guadagnano da vivere pescando. Matsuo Bashō, grande poeta del XVII secolo, amava particolarmente questa tradizione, sulla quale scrisse due haiku:

  • Splendido da vedere / ma poco dopo, viene la tristezza / il cormorano è tornato
  • Descriverei di nuovo / il dolce namasu* / del Fiume Nagara
    (*preparato a base di pesce ayu)

Perennemente concentrato nella sua ricerca di semplificazioni al difficile mestiere della sopravvivenza, l’uomo primitivo imparò ad ammaestrare gli animali. Così come l’amico cane, e il tipico convivente felino, la genìa degli scuri volatili che traggono nutrimento dalle acque di questo pianeta ha sempre fatto il possibile per rispondere alle nostre esigenze. Verrebbe da chiedersi quale sia l’utilità di un simile sfruttamento in un’epoca di allevamento intensivo, agricoltura industriale e reti a strascico letteralmente incapaci di fallire. Ma non è forse tanto più preziosa, ed utile, un’attività di pesca così particolare ed antica? Proprio perché (relativamente) inefficiente. E proprio per questo, sostenibile in ogni possibile futura circostanza. Almeno finché, per il gentile intercessione del Buddha in persona, continueranno ad esistere su questa Terra i cormorani.

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