L’antica professione della pesca con la lontra in Bangladesh

Uniti ma divisi, nel teatro della foresta di mangrovie più vaste al mondo che chiamiamo Sundarbans: tre diversi personaggi. Il primo nuota, per definizione, sotto il ciglio di quell’acqua opaca per la terra e il fango smosso, andando in cerca del tesoro ittico della giornata. Il secondo viaggia in mezzo agli alberi, strisce mimetiche nel vento, con gli artigli pronti per ghermire chiunque invada il proprio territorio. Il terzo sono io, il terzo siamo noi. Il terzo è il tipico rappresentante (singolare/plurale) delle genti indigene del Bangladesh. Tra quest’ultimo e il secondo, quella tigre delle circostanze, non può esservi un incontro produttivo, poiché siamo rispettivamente assai pericolosi, carnivori aggressivi, costruttori e boscaioli… Tra la lontra ed il secondo, zero incontri, poiché lei sa correre e nascondersi, gettarsi in acqua e scomparire molto prima di finire preda del famelico felino. E invece, l’uomo? C’è un conflitto, un dramma, qualche tipo di racconto? Ebbene, se vogliamo, c’è qualcosa di persino meglio di così; un’antica e importantissima alleanza. Così tanto duratura perché possa teorizzarsi, in questi luoghi, quell’approssimazione funzionale del processo evolutivo della natura, che ha comunemente il nome di addomesticazione. Nato e ancora adesso presentato in modo più che mai evidente, dal ripetersi di un gesto antico: quello del maestro pescatore, circondato da una schiera di assistenti zampettanti, squittenti e quanto mai operosi.
Questo genere di lontre, immagino le conosciate molto bene. Si tratta delle Lutrogale perspicillata o “a pelo liscio” esteriormente molto simili alla specie più diffusa dalle nostre parti, soprattutto nello stato naturale di questi animali, ovvero quello ricoperto e intriso di acqua quando emergono dall’increspata superficie del proprio habitat privilegiato. Per rientrare, almeno in questo caso, nella scatola di legno incorporata nel tipo più classico d’imbarcazione del gruppo etnico e culturale dei Malo jele, popolazione fortemente radicata nell’ambiente estremamente umido delle remote Sundarbans. Intendiamoci, non siamo certamente qui a parlare di un’industria pervasiva secondo gli standard d’osservazione moderni, che possa costituire le ragioni del sostegno di una vera e propria economia. Bensì della pratica lungamente tramandata di un particolare tipo di attività familiare, oggi sfruttata da circa 300 persone a voler essere conservativi, benché fosse in grado di coinvolgerne almeno 10 volte tante all’inizio del secolo scorso; nient’altro che un approccio, se vogliamo, ad un diverso tipo di rapporto proficuo con la natura. Che consiste, come avrete già intuito, nel procurarsi una certa quantità di lontre in età pre-adulta ed addestrarle, al fine di poter contare sulla loro assistenza durante la ricerca e la cattura sistematica del pescato. In un numero tra i tre e i sei animali per ciascun operatore, di un approccio che prevede inoltre la partecipazione di almeno un paio di aiutanti umani, al fine di manovrare la barca e nel contempo i lunghi pali, al termine dei quali sono collocate, rispettivamente le lontre e le reti. Metodologia la cui provenienza da un periodo cronologicamente remoto risulta chiaramente osservabile, nell’estrema efficienza con cui sembra mettere a frutto lo spazio difficile della palude…

Le barche usate in questo tipo di pesca lunghe tra i 6 e i 12 metri sono rigorosamente prive di motore, non soltanto per un’almeno apparente indisponibilità tecnologica e di risorse. Difficilmente, in effetti, l’impiego di un elica rotante potrebbe mancare d’interferire con la precisa danza che conduce il tesoro del pescato all’interno della magnifica rete delle circostanze.

Lungi dal costituire una semplice attrazione turistica o folkloristica come qualcuno potrebbe tendere a pensare, la pesca con la lontra ricorda quella con il cormorano della città giapponese di Gifu nel possedere un profondo significato insito nel cuore della faccenda. Oltre a rappresentare, per gli abitanti dei villaggi isolati che ancora la praticano attivamente, un importante mezzo di sostentamento economico e risorsa per mantenere un tenore di vita dignitoso. Quando utilizzata al meglio dai suoi ultimi praticanti, inoltre, costituisce la più prossima estremità del lungo filo che da sempre lega gli appartenenti alle religioni nazionali dell’Islam e dell’Induismo alla Natura, che ogni cosa sostiene e rende possibile, secondo una serie di concetti ereditati assieme alle idee fondanti della divinità in ciascuna delle due, per il resto distanti, dottrine. Occorre a tal proposito far notare come la lontra, in ogni sua versione geograficamente distante, costituisca un animale dall’indole socievole e giocosa, che facilmente apprende i comportamenti che gli vengono trasmessi e in un certo senso, imposti dall’uomo. Chiamata per questo talvolta, soprattutto nella cultura digitalizzata contemporanea “cane d’acqua”, essa possiede dunque tutte le caratteristiche necessarie per agire come principale aiutante dei pescatori, senza ricorrere ad alcuno dei metodi di addestramento più difficoltosi ed autoritari che vengono invece impiegati per la tigre.
E in effetti tutto, nella prototipica battuta di pesca Malo jele, dimostra una chiarezza d’intenti e metodi che sottintende il più perfetto rapporto simbiotico tra le due specie: a partire dal momento in cui, con il caratteristico richiamo onomatopeico “dhor-dhor-dhor” il coperchio della scatola per il trasporto viene sollevata e le scattanti creature dal peso unitario di 7-11 Kg si lanciano con l’agilità di un delfino, noncuranti del lungo guinzaglio che le assicura saldamente alla struttura dell’imbarcazione. Per il tramite del succitato palo, che gli operatori umani possono manovrare con attenzione, affinché le loro piccole amiche si trovino ai due lati esatti della rete rettangolare dalle fitte maglie, anch’essa gestita con un approccio di natura simile ed attentamente perfezionato. Questo perché lo scopo delle lontre in tale frangente, piuttosto che catturare direttamente i pesci, gamberi e granchi, è quello di spaventare le succitate creature acquatiche spingendole in maniera sistematica nella trappola degli umani, che conseguentemente provvederanno, secondo l’addestramento chiaramente acquisito e talvolta fatto trasmettere dagli esemplari adulti direttamente alla loro prole, a ricompensare le lontre con adeguata e considerevole premura. La classica battuta di pesca con la lontra, che contrariamente a quanto mostrato negli innumerevoli documentari di rito dovrebbe svolgersi in piena notte, può arrivare ai 12 Kg di pesce più altri 7 di gamberi (molto più preziosi) ovvero una quantità comparativamente assai maggiore di qualsiasi altro metodo praticato nelle Sundarbans. A fronte del quale, generalmente parlando, viene conferita in premio agli animaletti una quantità del pescato di circa un Kg. Detto questo e considerate le quantità in gioco, apparirà chiaro come stiamo parlando di un sistema pienamente sostenibile e incapace di arrecare danni di un qualsivoglia tipo all’ambiente, specialmente rispetto alle attività alternative a cui queste popolazioni potrebbero ricorrere per il proprio sostentamento quotidiano (agricoltura, industria, foresteria…)

Come mostrato in questo documentario della BBC, stiamo parlando di una pratica che restituisce i suoi frutti migliori durante i periodi di bassa marea, quando i pesci dispongono di una quantità minore di nascondigli per sfuggire agli artigli e le fauci dei loro temibili e scattanti avversari.

Un mestiere certamente non privo di soddisfazioni, nonché derivante da un’antica e lunga tradizione, benché molto del suo valore intangibile sia stato, nel corso delle ultime generazioni, trasportato via come fango nella corrente dei grandi fiumi Chitra, Madhumati, Nabaganga e Bhairab. Per una ragione fatta risalire da molti dei nativi intervistati ai più tipici problemi del mondo moderno, tra cui l’inquinamento e la riduzione faunistica, almeno apparentemente incolpati di aver posto un freno significativo ai già limitati profitti che si possono trarre da una così complicata attività. Mentre la realtà, ammessa da molti altri, potrebbe anche essere che le nuove generazioni si sono semplicemente stancate, per ovvie ragioni, dal condurre una vita tanto bagnata e terribilmente faticosa. Aggiungete a questo il fatto che i Malo jele siano, nel loro stesso contesto di provenienza, un’etnia spesso bistrattata ed a cui viene vietato di possedere terreni propri, rendendoli prede di tassi dei prestiti ed affitti al di sopra del ragionevole, perché la migliore e più invitante soluzione possibile per loro, nella maggior parte dei casi, sia quella di trasferirsi in un contesto urbano.
Perché l’uomo, come sappiamo fin troppo bene, non ha bisogno di tigri “esterne” per vivere tutta l’ansia di un cervo sperduto tra i più oscuri recessi delle Sundarbans. A meno che un diverso stile di vita, nato dalla condivisione e l’amicizia tra creature di un’altra spontaneità, possa insegnarci il vero e più profondo significato dell’altruismo. Che non è mai sfruttamento, finché potrà scorrere il grande fiume della conoscenza.

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