L’apocalisse in attesa sotto il permafrost canadese

“Se soltanto sapeste quanto le cose vanno male davvero…” è la citazione attribuita occasionalmente al presidente americano vittima di assassino John Fitzgerald Kennedy, sebbene nessuno su Internet sembri sapere, esattamente, quando egli avrebbe pronunciato tali parole. Forse a seguito della crisi dei missili cubani del 1962, oppure parlando ai numerosi consiglieri che aveva nominato, negli anni successivi, per tentare di risolvere il nodo della guerra in Asia, a seguito del colpo di stato ai danni del presidente sudvietnamita Ngô Đình Diệm. Ma esistono teorie del complotto, come è sempre stato, relative al fatto che i potenti del pianeta posseggano conoscenze negate ai comuni mortali, cognizioni di orribili disastri impellenti che mai vengono rilevate, al fine di prevenire il panico o ancora peggio, la ribellione di un popolo infuriato. Finché molti decenni dopo, viene rivelato con assoluta nonchalanche, ciò che stava, e tutt’ora sta per succedere, assieme ad un’ipertecnologica soluzione che all’epoca, nessuno avrebbe mai potuto concepire. Sto parlando di disastri ambientali come l’inquinamento, il riscaldamento terrestre, la progressiva contaminazione dei mari. Ma il mio discorso, quest’oggi, non è orientato unicamente al comportamento storico statunitense. Bensì a quel paese che vi confina a nord, considerato in genere un faro di responsabilità civile e ragionevolezza, dove tutti chiedono scusa e nessuno, per una ragione o per l’altra, sembra mancare del dono fondamentale dell’empatia. Ma in Canada, nei Territori desolati del Northwest, esiste una cittadina di circa 20.000 abitanti che porta il nome di Yellowknife. La quale, come una particella in bilico sul filo dell’eponimo coltello, giace su vaste caverne impossibili da dimenticare, ciascuna capiente quanto un grattacielo newyorchese e ricolma dagli anni ’60 di uno dei più terribili veleni noti all’umanità. Se questa fosse una storia intrinsecamente connessa alla corsa agli armamenti dell’epoca della guerra fredda, come si potrebbe intuitivamente pensare, ed allo sviluppo di nuove e più terribili armi nucleari, allora staremmo parlando di particelle alfa, beta e gamma, residui radioattivi in grado di dare una morte rapida e misericordiosa, oppure lenta e terribile, a seconda della dose accidentalmente subita. Ma la Miniera Gigante (Giant Mine) contiene, se possibile, qualcosa di persino più devastante. Avete mai sentito di parlare della polvere di triossido d’arsenico? Una sostanza sottile come il borotalco, che può essere altrettanto facilmente dispersa nell’aria o dissolta nell’acqua, del tutto inodore, insapore, incolore. Della quale è sufficiente assumere la dose equivalente ad un’aspirina per andare incontro ad un’immediato arresto sistemico dei propri organi vitali. Mentre dosi ancora minori possono provocare irritazione alla gola e ai polmoni, sfoghi e malattie della pelle ed a lungo termine, il cancro. Ora per comprendere l’effettivo rischio per la salute che tutto ciò rappresenta, sarà opportuno evidenziare tre fattori: primo, una quantità equivalente ad un’autobotte di dimensioni medie, sarebbe dal punto di vista della LD50 (dose letale per il 50% dei soggetti) sufficiente a sterminare l’intera popolazione mondiale. Secondo, sotto la città di Yellownife alberga una stima di 237.000 tonnellate di questa sostanza. Terzo, a meno di complessi e tutt’ora non definiti interventi, tale situazione continuerà a sussistere per altri 10.000 o 100.000 anni, dato che la tossicità dell’arsenico, a differenza della radioattività, non presenta alcun degrado progressivo per l’effetto della mezza vita di uranio, plutonio et similia.
Ma per tornare alla citazione di JFK, non è particolarmente intuitivo comprendere come si possa essere giunti ad una situazione tanto critica, soltanto in funzione della semplice avidità dell’uomo. Tutto inizia, secondo una leggenda degli anni ’30 dello scorso secolo mai effettivamente verificata, quando una giovane donna appartenente alla tribù delle Prime Nazioni dei Dede (popolazioni indigene nordamericane) di nome Mary Osso-di-Pesce rivelò a un sacerdote europeo la presenza di vene d’oro nelle terre ancestrali a occidente della baia di Yellowknife. In alcune versioni della storia, invece, ella aveva parlato con un mercante, in cambio della stufa che aveva sempre desiderato per scaldare la sua casa in inverno. Fatto sta che in quegli anni, la nascente industria mineraria delle terre selvagge canadese non tardò a reagire alla notizia, costruendo la serie d’impianti che negli anni, integrandosi l’uno con l’altro, sarebbero diventati la Giant Mine. Ora abbiamo fin qui parlato di questo terrificante accumulo di veleni, posizionandolo a partire da un’intera generazione dopo questi eventi. Potreste quindi chiedervi che cosa fosse successo, prima di allora: la risposta è che l’arsenico, un prodotto collaterale del processo di raffinazione dell’oro, veniva semplicemente liberato nell’atmosfera, lasciando che ricadesse tranquillamente sulla città e il lago di Slave, uno dei principali bacini d’acqua dolce del Canada e quindi, del mondo intero….

Strano e orribile a dirsi, ma il caso dell’arsenico di Giant Mine non è l’unico al mondo. Anche la miniera d’oro della città americana di Bagdad, in Arizona, sta sperimentando un problema simile, sebbene su scala notevolmente ridotta a causa del volume minore del minerale processato in-situ.

Le conseguenze di una simile sciagurata attività non tardarono ad arrivare. Mentre col procedere degli anni la Miniera Gigante passava, progressivamente, sotto il controllo dell’una o dell’altra azienda (qui si succedettero nel corso delle generazioni la Falconbridge, la Royal Oak, la Miramar e la Con Mine) i metodi d’estrazione non mutavano attraverso gli anni, continuando uno sfruttamento del processo denominato roasting, che consisteva nell’individuare ed estrarre le piccole quantità d’oro presente nelle rocce di arsenopirite, cuocendole letteralmente a  temperature straordinariamente elevate. Dagli alti camini della struttura, quindi, il veleno si diffondeva liberamente tutto attorno, mentre tra la popolazione di Yellowknife aumentavano “misteriosamente” i disturbi respiratori e le ulcere della pelle. Ma la tragica verità è che dovette morire qualcuno perché il governo, finalmente presa coscienza del problema, costringesse i minatori a cambiare la loro metodologia. E quel qualcuno sarebbe stato un bambino, appartenente alla stessa etnia dei Dede di Mary Osso-di-Pesce, forse persino un suo discendente, che nel 1951 pensò purtroppo di mangiare della neve per gioco, a circa due chilometri dalla terribile miniera. Forse l’aveva già fatto, forse era addirittura una pratica diffusa tra i suoi coetanei. Fatto sta che quella volta, nella candida sostanza che aveva ingerito era presente una dose d’arsenico sufficiente a porre fine alla sua giovane vita. Entro il decennio successivo quindi, sotto le ferme pressioni dell’amministrazione locale, le società di gestione della miniera installarono una serie di ciminiere e camini, interconnessi tra loro da un complesso sistema di tubi concepito per veicolare il polverone malefico di nuovo sotto terra, dove sarebbe rimasto intrappolato in una serie di apposite caverne artificiali. Immediatamente i casi di avvelenamento lieve cessarono, mentre la città di Yellownife e il Canada intero, momentaneamente, tiravano un sospiro di sollievo.
Per quanto possa riservare illusorie serenità ed orribili ansie impellenti, tuttavia, soltanto una cosa può essere detta della ruota del tempo: essa non cessa mai di girare. Così i proprietari della miniera d’oro, una volta esaurito il minerale facilmente estraibile con conseguente guadagno nell’immediato, acconsentirono nel 2004 a chiudere l’impianto, cessando finalmente quel processo che continuava a pompare la morte nebulizzata sotto il solido coperchio della montagna. Ma come fin troppo spesso avviene, riuscirono a farlo prima che il governo, nelle persone dei delegati liberamente eletti dal popolo canadese, promulgasse una legge che li legava a doppio filo ai danni causati, costringendoli in qualche modo a porvi un tardivo rimedio. Non che questo fosse, incidentalmente, possibile nel corso di una singola vita. Fatto sta che le società si dissolsero, i ricchi pensionati migrarono all’estero, e gli enti ambientali del più esteso paese nordamericano si ritrovarono a gestire uno dei più vasti potenziali disastri nell’intera storia dell’umanità. Per una spesa (stimata) di circa 900 milioni di dollari appena…

Nel breve servizio dell’inglese itinerante Tom Scott, la questione della Giant Mine viene analizzata nei suoi fattori principali, mostrando anche l’aspetto di una delle caverne di smaltimento successivamente all’installazione di un prototipo dell’impianto refrigerante. Il suo commento, come spesso avviene, pone in evidenza l’importanza di una pubblica responsabilità ecologica e civile.

Ma il problema principale, sia chiaro, non è neppure di natura prettamente pecuniaria. Perché nessuno sa effettivamente, se il piano ufficiale adottato dal governo canadese funzionerà. Un progetto che prevede, per la Miniera Gigante, l’installazione di un gigantesco impianto di refrigerazione, in parte di tipo convenzionale attivo ed in parte analogo a quello usato negli stadi da hockey, funzionante grazie al principio dei sifoni termici. In altre parole, una volta portata sufficientemente vicina al congelamento la maggior parte della letale polvere d’arsenico, verranno installati una quantità sufficiente di tubi verticali pieni di diossido di carbonio, una sostanza che si trova allo stato gassoso più leggero dell’aria sottoterra, mentre raffreddandosi per l’effetto della gelida atmosfera dei Territori, ridiventa liquida e cade giù. Tutto questo in un ciclo continuo ed eternamente ripetuto, in grado di garantire un sensibile abbassamento della temperatura. Se, ed è davvero un grosso “se” tutto dovesse realmente realizzarsi sulla base dei piani. E nella piena consapevolezza che qualora, nei prossimi 100, 1.000, o 1 milione di anni l’impianto dovesse subire un guasto, la polvere d’arsenico tornerà di nuovo libera di far danni. Esistono scenari ipotetici, più volte analizzati e ribaditi, in cui un’eventuale straripamento del vicino ruscello di Baker potrebbe penetrare nella miniera, trasportando il veleno fino al lago di Slave e da lì al fiume Mackenzie, il più lungo dell’intera nazione canadese. Caso in cui assai probabilmente, le vittime a lungo termine, incluse quelle affette dai tumori maligni, risulterebbero davvero ingenti. Detto ciò, tutto quello che è possibile fare al momento è continuare nell’operazione di recupero, sperando che il metodo si riveli efficiente. O che qualcuno trovi, per il bene di tutti, un’approccio tecnologico davvero risolutivo. Perché il tempo, come sua massima prerogativa, continua impietosamente a marciare verso l’ora terribile della condanna.
Avidità, brama, desiderio di successo e ricchezze. Molte ingiustizie sono state commesse nel corso delle alterne vicende coloniali, per la mera acquisizione di un vasto beneficio personale. Ma ancor peggiore di esse, a pieno titolo, risultano essere quelli che definiamo coerentemente dei semplici “errori”. Poiché potrebbero costituire la fine di tutti nessuno escluso, inclusi colui o di coloro che maggiormente hanno beneficiato della propria fondamentale iniquità. Il che significa, in altri termini, che nessuno può davvero conoscere il futuro dei luoghi remoti. Neppure chi li governa. Soltanto accettarlo e sopravvivere. Oppure, suo malgrado, perire.

Lascia un commento