Il fantasma che doveva proteggere la portaerei

“Tango delta, capitano: qui la vedetta di babordo. Missile in arrivo, ripeto, missile del tipo Exocet in arrivo.” Nel momento stesso in cui pronunciava quella frase, i sistemi anti-arma automatici si attivarono automaticamente, con un sibilo roboante. La mitragliatrice CIWS, vomitando una raffica da 1200, 1300 colpi nel giro di 30 secondi, trasformò il dardo a pochi metri dalla superficie del mare in un’impressionante palla di fuoco, metà della quale si trovava al di sotto dell’orizzonte. Nessun problema su questo fronte: l’ammiraglia della flotta avrebbe potuto intercettare decine di attacchi simili. Ma per farlo, avrebbe dovuto smettere di avanzare. Troppo rischioso portarsi a tiro di ulteriori assalti. Mentre la flotta nemica, sfruttando la situazione, si sarebbe posizionato in maniera dominante. Passarono alcuni minuti, mentre sul ponte si elaborava il piano di contrattacco, quindi vennero inviati alcuni segnali tramite l’impiego di semplici bandiere. Non puoi intercettare quello che non occupa le onde elettromagnetiche. Fu allora che il giovane marinaio vide ciò di cui, fino a quel momento, aveva soltanto sentito parlare con tono reverente da alcuni suoi commilitoni. La nave da trasporto per operazioni speciali Currant, lunghezza all’incirca 120 metri, sollevò la parte frontale della sua prua. Per lasciar uscire un carico nascosto. D’istinto, poteva sembrare un’enorme scarafaggio nero di metallo opaco. Se non fosse stato per la sua forma geometrica trapezoidale, vagamente simile ad un origami della prima corazzata della storia, la CSS Virginia delle forze Confederate costruita nella seconda metà del XIX secolo, per combattere nella guerra civile americana. Completamente vuota nella parte inferiore, ed in qualche maniera “sospesa” al di sopra di una coppia di galleggianti a forma di siluro. Proprio per questo, le onde sembravano attraversarla come fosse stata una proiezione, dimostrando la più perfetta stabilità. Senza alcun suono udibile, essa fluttuava sul mare, ad una velocità sostenuta di appena 14 nodi (26,3 km/h). “Ma cosa…” Mentre la forma si separava dalla nave madre, un secondo ed un terzo missile comparvero al di sopra delle onde, in un turbinìo di spruzzi e vapore creato dal proprio stesso sistema di propulsione. “Tango delta…” Esordì la vedetta, ma ben presto si rese conto che era già troppo tardi: la mitragliatrice ad alto potenziale della portaerei aveva già fatto fuoco contro il primo proiettile, mentre il secondo si avvicinava minacciosamente alla nave Currant. 3, 2…1, contò nella sua mentre l’arma della nave da trasporto, con un calibro minore, danneggiava il missile, deviandone all’ultimo secondo la traiettoria. Sbandando i finali 200 metri, quindi, quest’ultimo cadde in mare, a poca distanza dallo scafo esplodendo con un boato impressionante. Nel frattempo, il vascello surreale proseguiva verso la direzione di lancio, apparentemente per nulla impressionato. In prossimità del profilo delle onde, iniziava ad essere possibile intravedere le antenne e l’alberatura del gruppo di fuoco sovietico, pronto per il più importante ingaggio dal momento della sua costituzione. La distanza con la nave-insetto continuava a diminuire, quando una terza salva venne lanciata all’indirizzo degli americani. Questa volta, dopo aver dato ancora una volta l’allarme, come da procedura, l’addetto all’avvistamento udì il rombo di un’esplosione proveniente dalla direzione della poppa: probabilmente uno degli incrociatori di scorta era stato colpito. Auspicabilmente, ricevendo soltanto dei danni leggeri? A questo punto incredulo, l’uomo impugnò il cannocchiale per scrutare l’avanzata del battello nero. Che in quel momento, era arrivato a stagliarsi esattamente dinnanzi all’ombra indistinta di quello che aveva tutto l’aspetto di un cacciatorpediniere. “Ora gli spara, ora gli spara…” Pensò lui soffrendo per la propria impotenza, giusto quando la lancia d’assalto Sea Shadow (lunghezza 50 metri) sembrò modificare lievemente la propria forma. Da sotto la sua parte sollevata, era spuntato quello che aveva tutto l’aspetto di un lanciasiluri. Nel tempo di un battito d’ali della gloriosa aquila di mare, quindi, il carico bellico era stato lanciato, mentre lo scarafaggio di mare stava assumendo una posizione perpendincolare nel corso della sua virata. Assai incredibilmente, nessuno sembrava averlo notato, tranne lui.
Lo scenario ipotetico c’era, il metodo per tentare di contrastarlo, anche. Nelle simulazioni effettuate dalla Marina statunitense attorno al 1984, sarebbe andata più o meno così: due gruppi d’assalto che s’incontrano in alto mare, poco prima, o subito dopo il completo esaurimento dei rispettivi arsenali nucleari. I rispettivi comandanti altrettanto consapevoli che a quel punto, era altamente probabile che rappresentassero la metà effettiva o più dell’intero potenziale marittimo residuo per ciascuna superpotenza. Per dare inizio ad uno scambio di materiale esplosivo finalizzato all’annientamento completo di tutto quello che avrebbe fatto accendere una benché minima luce sul radar. E che dire, invece, degli invisibili? Certo, nella guerra moderna i sistemi d’individuazione elettronica avevano reso possibile gestire una situazione d’ingaggio a distanze notevolmente superiori. Creando anche, tuttavia, nuovi paradgmi di vulnerabilità. Diversamente a quanto avvenuto all’epoca di Abraham Lincoln infatti, difficilmente il nemico di turno si sarebbe preoccupato disporre di vedette sull’intero arco visuale del proprio fronte di navigazione. Così una battello impossibile da individuare sarebbe stato, a tutti gli effetti, invulnerabile a qualsiasi tipologia d’arma. La Sea Shadow (IX-529) era quella nave. Mantenuta segreta per un periodo di 10 anni, come potenziale margine di vantaggio nel caso di un subitaneo riscaldamento della situazione internazionale coi russi, essa non costituiva altro che l’applicazione in campo navale dell’allora recente scoperta della Lockheed Martin: che un computer, dietro accurata programmazione, poteva determinare la via di rifrazione che sarebbe stata percorsa dalle onde radar inviate all’indirizzo di un particolare oggetto. Che di conseguenza, assorbite o deviate piuttosto che rimandate indietro, avrebbero fallito miseramente nel segnalarne la presenza. Naturalmente, allora eravamo a ridosso degli anni ’70, e risultava per questo impossibile effettuare dei calcoli in merito a forme particolarmente complesse o curve. Per questo, la prima arma prodotta dal sistema ECHO 1, il cacciabombardiere da attacco al suolo F-117 Nighthawk, tutto sembrava essere tranne che aerodinamico, con chiare ripercussioni sul fronte prestazionale. Ma che dire del mare? Dove simili considerazioni avevano davvero poca importanza, soprattutto mediante l’adozione di un approccio strutturale SWATH (Small Waterplane Area Twin Hull) ovvero di un catamarano con galleggianti al di sotto del pelo dell’acqua, in grado di mantenere il corpo principale del battello sollevato dalla resistenza del mare. Già, che dire…

L’adozione di un profilo operativo diurno e non più completamente segreto a partire dal 1993 permise alla marina di ridurre in maniera significativa i costi relativi alla Sea Shadow. Non che questo, in ultima analisi, sarebbe bastato a salvarla.

Fino a quel momento è inutile dirlo, niente di simile era mai stato costruito e mancavano quindi i termini di riferimento per elaborare i dettagli di una nave effettivamente in grado di entrare in servizio. Fu così deciso, in gran segreto, di costruire un prototipo con l’assistenza della DARPA e la Lockheed presso lo stabilimento di Redwood City, California. Il problema, tuttavia, era come fare perché i satelliti russi non potessero immediatamente fornirne notizia al nemico. Fortunatamente, la marina disponeva della soluzione ideale: la Hughes Mining Barge. Un impressionante battello dalla stazza di 5800 tonnellate, che era stato già riconvertito frettolosamente nel 1974, con lo scopo di assolvere a una funzione estremamente specifica: recuperare un sottomarino sovietico naufragato esattamente 6 anni prima a largo dell’isola di Ohahu, nelle Hawaii. Operazione che andò soltanto parzialmente a buon fine, causa l’accidentale spezzarsi dello scafo in questione durante l’operazione di ripescaggio, mandando molte delle informazioni più preziose ricavabili dal suo contenuto a perdersi nell’oblio dei granchi e i pesci abissali delle profondità. Mastodonte in grado di immergersi parzialmente grazie ad un sistema ad aria compressa, con la finalità di “raccogliere” letteralmente una nave o sottomarino, e quindi drenare via l’acqua onde effettuare le osservazioni o riparazioni del caso. Ma che ora sarebbe stata impiegata, invece, per costruirne e vararne una.
Invisibile fin dal primissimo momento, quindi, la Sea Shadow fu ultimata dopo un periodo tutt’ora ignoto, per iniziare quindi ad infestare i mari notturni nei dintorni di Redwood. Attraverso una lunga serie di test, condotti esclusivamente in notturna, evitando possibilmente la luna piena. E chissà quanti pescatori tardivi, o bagnanti asociali nelle notti d’estate, avranno avuto occasione di scorgere coi propri occhi lo strano vascello, elaborando quindi le loro strampalate teorie. Attorno alla metà degli anni ’80, iniziò a circolare la voce che dentro il bacino di carenaggio galleggiante della Hughes fosse presente il solito UFO d’ordinanza, forse un collega oceanico di quelli già individuati con assoluta certezza al di sotto del deserto del Nevada, nell’Area 51 (e non è certo un caso che anche lì, ci fosse lo zampino della Skunk Works, divisione segreta della Lockheed). Ma gli anni passano e cambiano le circostanze: nel 1989 cade il muro di Berlino. Quindi, a seguito della dissoluzione del patto di Varsavia e la fine dell’egemonia sovietica, mantenere segreto un progetto che era già costato allo stato 150 milioni di dollari apparve quanto mai superfluo. E così nel 1993, con grande fanfara mediatica, la nave ormai vecchia di 10 anni fu mostrata orgogliosamente alla stampa, che iniziò a farne un qualcosa di molto più straordinario di quanto fosse effettivamente mai stata. Si disse che la Sea Shadow poteva portare un completo arsenale nucleare in luoghi dove i sommergibili non potevano arrivare, che fosse la nave più veloce mai creata (uno strano fraintendimento spesso attribuito anche in campo aereo al Nighthawk) che nessuna arma avrebbe mai potuto penetrare la sua armatura. Un lungo articolo della rivista Popular Mechanics, che gli dedicò anche la sua copertina di luglio di quell’anno, si occupò quindi di schiarire le idee: eravamo di fronte a nient’altro che una proof-of-concept, ovvero la dimostrazione di un qualcosa che poteva funzionare su carta ma che, per un motivo o per l’altro, non aveva mai raggiunto lo stato operativo. Anche se i progressi tecnici realizzati grazie alla sua costruzione, invece, l’avevano fatto: in primo luogo la forma trapezoidale in grado di deviare le onde radar, già allora impiegata per i cacciatorpedinieri della classe Arleigh Burke ed oggi considerata uno standard del settore, ma soprattutto la configurazione SWATH, ideale per le navi di sorveglianza subacquea TAGOS ma anche per tutti i vascelli di ricerca scientifica oceanica, per cui stabilità e silenziosità risultano niente meno che fondamentali. Il fatto che la Sea Shadow non sarebbe mai stata impiegata in battaglia tuttavia apparve particolarmente chiaro, quando una versione lievemente modificata venne impiegata come vascello al servizio del cattivo del film con Pierce Brosnan, 007 – Il domani non muore mai (1997). Avete mai sentito di un effettivo mezzo americano impiegato dallo schieramento sbagliato in un film d’azione contemporaneo?

La Sea Shadow all’interno del suo “hangar”, la Hughes. Era in effetti diffuso il fraintendimento secondo cui tutto quello che mancava alla nave per poter spiccare il volo, fosse un pratico paio d’ali. Purtroppo l’ingegneria non è mai così semplice…

Terminata la sua utilità potenziale, la Sea Shadow venne mantenuta fino al 2006 presso la stazione navale di San Diego, per poi trovare posto tra le altre navi della “flotta di riserva” di Suisun Bay. Considerata una spesa superflua a quel punto, verso la fine di quello stesso anno fu tentato di donarla a diversi musei, a patto che il ricevente prendesse in carico anche la titanica e ben meno affascinante Hughes Mining Barge. Considerata la storia operativa inesistente, e conseguente poca rilevanza storica, nonché le considerevoli spese di spostamento, non fu così possibile trovargli una collocazione. Quindi la coppia di navi fu messa all’asta al miglior offerente, con il cavillo che la nave stealth fosse immediatamente smantellata a spese del compratore, al fine di evitare eventuali passaggi di mani ulteriori verso paesi stranieri. Ad acquistare il pacchetto fu quindi la Bay Ship and Yacht, una compagnia californiana che non tardò nell’assolvere la sua parte di doveri. Per poi riconvertire, con successo imprenditoriale immediato, la Hughes in un bacino di carenaggio mobile, sul quale il sistema di zavorra ad aria compressa fu sostituito con delle più convenzionali ed affidabili pompe da sentina.
Trasformata in metallo di recupero, la prima e più importante “nave da guerra invisibile” fu quindi trasformata in automobili e porte blindate. Il fatto che ad occuparsi dell’ultimo tratto della filiera, in massima parte, sarebbero state le aziende di paesi emergenti come la Cina, non fu che la ciliegina finale sull’impossibile torta. La diffidenza tra le superpotenze era ormai finita. Iniziava un’epoca di commerci ed interscambi culturali proficui. Già, ma fino a quando?

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