Taglia gli alberi per fare il pieno all’automobile

Woodmobile

Questo è Arvids Aunins e vive in Latvia, tra l’Estonia e la Lituania, in mezzo ai boschi verdeggianti dell’Europa settentrionale. Se l’epoca fosse stata appena un po’ più antica, costui si sarebbe dedicato ad uno dei molti mestieri che traggono un beneficio dagli ambienti sani ed incontaminati, come il contadino, il boscaiolo, il cacciatore. Ma nel terzo millennio, in bilico sull’orlo della crisi, non c’è modo di soprassedere in merito ad alcuni stimoli e bisogni tecnologici, come quello di spostarsi, in lungo e in largo, sopra quattro bei pneumatici stradali. L’automobile, in un certo senso, è il cruccio ed il cavallo del moderno gentleman e al tempo stesso, l’evidenza ciò dimostra, un bene necessario per la semplice sopravvivenza. Il salvagente dalla mera e semplice indigenza di chi non può visitare luoghi, fare cose, vedere gente. Così costui, A.A. della regione dei Balcani, dedica una parte del suo tempo a re-ingegnerizzare quel che si usa da generazioni…E basti per capirlo dopo un momentaneo sguardo, l’ultimo video gentilmente offerto al mondo, in cui converte la sua rugginosa Audi 100, vecchio trionfo di meccanica tedesca, in un veicolo che possa mettersi in moto il grazie all’uso della legna da ardere. Un ciocco dopo l’altro, fino a Timbuktu. Ma prima di partire….
Si tratta di una scena alquanto memorabile o per certi versi surreale. Ecco qui un bizzarro arnese torreggiante, simile ad una doppia stufa in puro acciaio, saldamente incastonata in un carrello da trainare per la strada. Chiaramente, non entrava nel portabagagli. E una serie di tubi alquanto preoccupanti, in plastica e metallo, che da quella avanzano pericolosi verso il muso dell’auto, fino ad andarsi a perdere in un cofano appositamente sagomato. C’è un buco e poi, le viscere meccaniche *il filtro del carburatore. Ma a differenza dei carburanti liquidi sintetici come la purissima benzina, lì si è già compiuta la parte più ardua della metamorfosi. Che ha un nome carico di sottintesi: gassificazione. L’ebulliente procedimento, affine a quello di alchimistiche macchinazioni, che può trasformare legna, torba, carbone ed ogni altro possibile materia biodegradabile in monossido di carbonio, idrogeno e altri tipi di gas. Facendone, in parole povere, un potente carburante biologico, meno il prodotto collaterale di cenere e bitume.
Finito il controllo del complesso meccanismo, il rustico creatore accende la fiamma pilota, un po’ come si usava fare nelle stufe di una volta. Apre le valvole rilevanti, e soprattutto carica un buon quantitativo di ciocchi già tagliati, chiusi in pratiche reti, ciascuno sufficiente per tornare fino a casa dopo il suo giro di prova. La procedura di riscaldamento, per un simile motore, è piuttosto lunga e ammonta, in condizioni ideali, a circa una decina di minuti. Il grosso cilindro principale, definito in gergo “reattore” (perché ospita, per l’appunto, la reazione chimica) dovrà raggiungere la temperatura di 700 gradi ca, sufficienti per indurre l’ossidazione e sufficiente pirolisi del materiale ligneo usato come propellente. Ma non la sua combustione, vista l’introduzione attentamente controllata di una piccola percentuale d’aria, appena sufficiente a consentire il movimento verso l’alto di quel fluido vivificatore. Nonché letale per l’organismo umano, in potenza. Senza entrare nel merito, basti dire che l’impiego di un rivelatore di monossido nell’abitacolo di un’automobile così attrezzata non è solamente consigliato. Bensì, assolutamente necessario, pressappoco quanto la dash-cam (siamo pur sempre in Est-Europa!)

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Gli ultimi ribelli della linea tratteggiata

La linea russa

“Ci obbligano ad andare dritti Ivan, ma in verità ti dico: cos’è Dritto e cos’è invece… Ss..stor-to!? [beve un sorso di Vodka dalla bottiglia quasi terminata]. L’altro giorno, camminando per andare fino alla scuola di guida e farmi ridare la patente, ho visto che: i lampioni di Novosibirsk sono sempre ec-ecs-quidisctanti. Tranne UNO!” Sull’esclamazione carica di sentimento, la Tata Nano rugginosa sbanda vistosamente verso il bordo della quintultima strada provinciale dell’Oblast. Sopra il rombo del motore, si ode a malapena l’eco di un belato infastidito, proveniente da una capra, lì sperduta, semi-nascosta dietro a un albero piuttosto amiforme. L’autoradio resta spenta ormai da anni, senza neanche l’ombra di una manopola sopra il suo frontalino scalcagnato. Ivan guida concentrato e cerca di ignorare il passeggero. “Mah [burp] tu lo sciai cosa c’è lì – è il sscegreto della geo-metria. Perché se ti metti al centro della stradt-al centro de-la stra-da, e guardi dritto innanzi a te…” Per sottolineare l’affermazione, l’anziano ubriaco si appoggia sul cruscotto, inclinandosi parzialmente verso il lato guidatore. Ivan agita la mano destra infastidito per scostarlo, mentre il motore va troppo su di giri per un mancato cambio di marcia. “Vedi, lo sai COSA vedi? Triangoli isosceli l’uno sull’altro e sovrapposti, ciasch-iuno confinante all’altro. Scommetto che non ci avevi mai p… Pensato” Ivan se l’immagina con gran facilità: il suo zio scapestrato che pianta i piedi in mezzo a una strada di scorrimento del centro della terza città russa per popolazione, mentre gli automobilisti gli sfrecciano rabbiosamente ai lati. Un braccio orgogliosamente piantato sul fianco sinistro, l’altro teso dritto innanzi a se. Con il pollice alzato alla ricerca del punto di fuga e un occhio semi-chiuso. I lunghi capelli bianchi che svolazzano nel vento del crepuscolo transiberiano…. [Alza di nuovo la bottiglia, resta insoddisfatto. Ne controlla attentamente il fondo, quindi tira giù il finestrino e la lancia di fuori.] “Vedi [hic] quando facevo il macchinista della ferrovia, avevamo un detto: non è l’incidente che ti frega, ma la noia. Siamo tutti gran lavoratori, fino a che non sopraggiunge la routine” Ma tu guarda, adesso parla pure il francese! “Allora, o si dorme, o si conta!” Come, cosa? “Ma le traversine, quesch-to dovrebbe essere ovvio, caro mio. Non avrai bevuto un bicchierino di troppo a pranzo? Cento, 200, tremilacentoventidue, questo qui è il mio record-s.” La bottiglia rimbalza sull’erba senza rompersi, quindi sparisce oltre l’ansa di una curva “Non si arriva a tremilacentoventidue, mio caro Ivan, senza comprendere la geo-metria.” E poi continua… Tu forse non sai, oh giovane senza coscienza artistica ma pur sempre nipote di mio padre, ma io facevo il pittore. Quando avevo la tua età, mi chiamavano “Il Giotto ferroviere”. E so riconoscere la mano di un collega. Nelle vaste distese grigio-verdi della tundra abbandonata, non c’è un senso ulteriore, in ciò che fai, tranne quello che tu porti nel profondo del tuo portafoglio. La coscienza di un lavoratore, che come sicuramente avrai capito, non risiede nel suo fegato. Oppur nell’anima, nella mente carica di elettriche sinapsi interconnesse, ma nel senso di riconoscenza verso la sua società. Che gli concede considerazione, in cambio di opere preziose perché salvifiche nel loro scopo. Di mettere a frutto questa somma geo-metria. Ma tutta questa spiegazione va perduta, come lacrime nel vento del mattino.
“Figliolo, ora guarda!” Dice invece, ad alta voce. “Adesso guarda bene, non distrarti…” Le mani saldamente strette sul volante, lo sguardo torvo dal fastidio, l’autista-suo-malgrado, reclutato per andare alla sessione degli alcolisti anonimi laggiù in città, riduce la pressione sul pedale di accelerazione. Suo zio ha ragione, c’è qualcosa di strano. La corsia di destra sulla carreggiata, che basta a malapena per contenere la sua piccola automobile, si sta stringendo. È come se la strada tendesse a destra, con una piccola ma significativa differenza: in quella parte ulteriore, l’asfalto non ci sta. “Ahahahaha. Ah! Ah! Разметка дороги где-то в России, figliolo. Разметка дороги где-то… Smettila di preoccuparti e segui il flusso.” Strano, lo zio Vyacheslav, per una volta, non sembra perso nel suo mondo. Il tono di voce è ritornato quello di una volta (e anche l’idioma!) Talmente resta colpito, Ivan, che per un attimo si volta verso il suo fastidioso passeggero. Quando torna a guardare dritto innanzi a lui, un enorme autoarticolato oscura il limpido orizzonte, dalla parte sbagliata della strada. La sua griglia cromata protettiva, verticale e quasi goticheggiante, è sovrastata da una splendida vetrata variopinta. C’è quello che sembrerebbe un tappeto persiano, appeso in fondo alla cabina, mentre un alberello deodorante dondola illusorio al centro dell’incredibile miraggio. Sotto a quello, un camionista che fatica a tenere gli occhi aperti, semi-addormentato sul volante. Ma Ivan lo sa bene: è impossibile sterzare in tempo. Per tutti gli orsi candidi sulle conifere innevate…

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Accelerando sui tornanti dove nascono leggende

BMW Turnpike

Bruciare gomma alla maniera giapponese non è facile, né alla portata di chiunque voglia riprovare quell’odore, quel sapore, quel sentore nero, come il fumo e duro, quanto il suolo abbruciacchiato di passione per il fluido delle ruote cotte sull’asfalto. Occorre, innanzitutto, costruire l’automobile. Non bastano i pedali, a quanto pare, per salire in cima a una montagna millenaria, venerata da generazioni come un demone del territorio, la massiccia manifestazione del Karasu-Tengu, l’uomo corvo che vivrebbe, secondo chi l’ha visto, fra gli alberi della foresta in cima a tanta mitica imponenza. E chi l’ha visto mai… Altre cose che non bastano: quattro ruote motrici, l’ABS, il controllo di trazione e di stabilità, il cambio automatico, il navigatore. Però certamente, aiutano. Mica tutti siamo come Seiji Ara, che esattamente alla vigilia di Natale ha aperto i giochi con la sua Studie BMW Z4 (si, le auto elaborate di quei luoghi possono vantare anche un prenome) e si è lanciato a perdifiato, cadendo vertiginosamente vero l’alto, su, a destra e a manca per i tornanti che intagliano le montagne della prefettura di Kanagawa, laggiù nel medio Kanto, tra le ridenti cittadine di Odawara e Yugawara, gli antichi centri di un potente clan di samurai. Hôjô, era il nome di quella famiglia, che fu soprattutto l’Inviolabile, per secoli di guerre e traversie. Durante l’epoca Ashikaga, nel XII secolo d.C, furono loro, con un piccolo aiuto del vento divino kamikaze, a respingere le orde mongole di Kublai Khan. Durante l’inarrestabile avanzata del re dei demoni Oda Nobunaga (1534-1582) seguito dalle orde armate di barbarici fucili, furono per lungo tempo solamente loro, a resistergli nella persona di Hôjô Ujimasa, gran difensore di castelli con bastioni sovrapposti. C’è poi tanto da meravigliarsi? Guardatelo, codesto luogo. È una fortezza naturale. Basterebbe un cancello invalicabile, posto nel punto d’ingresso più strategico, per bloccare la venuta di un’armata intera. Ma non di un solo capo ronin col suo seguito di guerrieri a quattro ruote, purché paghi il pedaggio…
Guarda caso, la barriera ancora adesso c’è. Piuttosto che un valico di pietra e legno massiccio, tuttavia, ha preso una forma maggiormente adatta ai nostri tempi: un’asta di metallo, che si solleva a comando, previo deposito dell’obolo richiesto. Oh, passaggio a livello, che gli anglofoni chiamano turnpike! (Un termine che a me ricorda, più che altro, il concetto di tornello) Chissà come sarà avvenuto, che questo nome in stile americano fosse stato attribuito a questa strada giapponese, 16 chilometri di leggenda motoristica dei samurai… Invariabile negli anni, così come l’altra parte di quel duplice appellativo, invece, è stata a più riprese connotata da un diverso sponsor. Ebbene si, anche questo può succedere, chi l’avrebbe mai detto: nel 2007, dopo un’offerta generosa fatta alla regione, la Toyo, degli pneumatici, ha ribattezzato questo luogo, da Hakone, a Toyo Tires Turnpike. E poi di nuovo, a luglio di quest’anno, la stessa cosa ha fatto la produttrice d’automobili Mazda, con un prevedibile ritorno d’immagine tra i corridori sfegatati, gli inguaribili burloni della strada. Stiamo parlando, in fondo, di un luogo che è l’equivalente asiatico del Nürburgring, la mecca dell’automobilismo europeo, quel complesso di circuiti che si snoda tra le città di Adenau, Nürburg e Müllenbach nell’Eifel tedesco. Intere generazioni di autoveicoli, negli anni, sono state temprate e messe alla prova in questi luoghi, portando a una visione differente di quel che sia desiderabile, ed opportuno, in un ottimo veicolo per l’uso quotidiano…Non sempre poi così a ragione, sospensioni morbide, ahimé.

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Scacco matto col bulldozer della SWAT

The Rook

Sei tonnellate di potenza che sembrano uscite da un film di Batman, anzi, Robocop. Persino lo stile dialettico è conforme. Se non c’è mai stata, come alcuni dicono, una guerra combattuta con dei mezzi superiori al “minimo necessario” per sconfiggere il nemico di turno, è pure vero che il mantenimento dell’ordine civile non deve seguir le regole del convenzionale conflitto armato. Ma elevarsi, piuttosto, al di sopra delle aspettative, onde preservare per quanto possibile il benessere, l’integrità e la sicurezza di chi rischia di essere coinvolto nel fuoco incrociato, tutte persone prive di armi, addestramento, di preparazione fisica o mentale alle impreviste conseguenze. Non tutto è lecito, dal punto di vista della polizia, meno che mai l’impiego di una forza eccessiva. Occorre, tuttavia, porsi una domanda di supporto alla questione: dove Nessuno è sacrificabile, Nulla è sacrificabile? Può darsi, dipende. Da chi arriva nel bel mezzo di una situazione di stallo armato, variabilmente disperata, e da ciò di cui dispone per salvarla, assieme alla giornata!
Se The Rock è il nome di uno statuario ed imponente lottatore di wrestling, quel Dwayne Johnson che sa fare anche l’attore, oltre che il nomignolo della prigione ormai dismessa di Alcatraz, e addirittura di un grosso sasso smosso sul terreno, “The Rook” è invece almeno un paio di diverse cose, niente affatto contrapposte: la piccola torre degli scacchi, che avanzando di un numero imprecisato di caselle, porta l’assedio alla Real famiglia di quei pezzettini d’ebano torniti; oppure l’ultima invenzione diavolesca dell’ingegneria statunitense applicata, che parimenti lo conduce verso il criminale o il terrorista. Rispondendo a situazioni impossibili da gestire con mezzi più convenzionali. Sembra stranamente simile a un giocattolo spropositato.  Eppur dovrà davvero funzionare, per chiarissima evidenza. Si tratta, essenzialmente, di un piccolo veicolo da cantiere prodotto della sempiterna Caterpillar (CAT) dell’Illinois, quell’azienda ormai sinonimo di tale classe di dispositivi, così sapientemente riconvertito dalla Ring Power Corporation della Florida, il rivenditore con l’Idea. E la capacità, soprattutto, di capire l’andamento del mercato pubblico e privato. Si è fatto un gran parlare negli Stati Uniti, ultimamente, della pratica dell’esercito nazionale, che sta rivendendo i suoi mezzi pseudo-decommissionati a numerosi dipartimenti della polizia locale. Non è del tutto chiaro che può farsene uno sceriffo di paese di quindici lanciarazzi, un autoblindo e tre mitragliatrici M60 (lotti, questi, veramente messi a sua disposizione) quando già le armi d’assalto pesante, come i fucili a ripetizione M-16, si sono estremamente inappropriati in situazioni tipiche con potenziali vittime del fuoco amico. Certo, una maggiore capacità belligerante, posta nelle mani giuste, può far molto per salvaguardare l’ordine. Almeno su scala ridotta. Poiché si ritiene, e questo ancora in parte è vero, che il criminale comune non abbia lo stesso accesso a tecnologie d’armamento superiore. Però nei casi in cui costui, malauguratamente, dovesse già disporne, cosa fare? Schierare in campo i residuati della terza armata? Oppure scegliere un approccio differente, di contrapporre la furbizia alla  brutalità, con soluzioni tecniche speciali…

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