L’uomo che distrusse quasi cento ciminiere

Fred Dibnah

C’è una caratteristica che accomuna tutti gli eroi popolari di ogni tempo e nazionalità, che siano (stati) scienziati, medici, clerici o guerrieri. Indipendentemente dal tipo di campo in cui costoro hanno lasciato il segno, qualunque siano stati gli strumenti della loro opera, sia pure di conquista battagliera, in qualche maniera è necessario che abbiano facilitato il passo del progresso. Percepire la direzione in cui si muove il mondo. Intervenire per contribuire a quella via, con tutte le risorse che può avere un individuo d’eccezione. Gli inglesi sono sempre stati dei maestri nell’individuare tale dote nelle loro personalità coéve: pensate, ad esempio, alla leggenda del bandito Robin Hood, inventore ante-litteram del concetto di previdenza sociale, benché fatta passare per la cruna della spada. Oppure Sir Isaac Newton, scienziato dalla personalità scostante e burbanzosa, nonostante tutto assurto al rango di un’antonomasia nazionale di sapienza. Per non parlare di Isambard Kingdom Brunel (1806-1859) il grande industriale ed ingegnere vittoriano che ebbe a costruire la Great Western Railway, innumerevoli ponti e il tunnel sotto il Tamigi. Così una generazione dopo l’altra, con il proseguire del progresso, ciascun campione della collettività portò alla grande terra verdeggiante il suo contributo, qualche volta intangibile, molte altre costituito con l’ingombro dei mattoni e della calce duratura. Ma si può giungere ad avere troppo, persino di una buona cosa? In linea di principio, no. Nei fatti, eccome!
Gran Bretagna, secondo dopo guerra: un paese entrato a forza nella futuribile modernità, già efficace sfruttatore della risorsa fluida del petrolio, mentre venivano proposti i primi piani della grande centrale a Calder Hall, che a partire dal ’56 sarebbe diventata il primo stabilimento atomico a uso commerciale del pianeta. Una nazione, tuttavia, con uno specifico problema, causato dal piccolo dettaglio del “secolo industriale” già trascorso, gli oltre cento anni di opifici costruiti seguendo il vecchio metodo, senza un criterio paesaggistico coerente. Né limiti di sorta. Che la campagna British fosse, fino a poco tempo fa, letteralmente disseminata di ciminiere, è un fatto largamente noto. Persino loro ce l’hanno ricordato, non senza una punta di sinistro orgoglio, durante l’apertura dei Giochi Olimpici del 2012, sul verso shakespeariano di “Non abbiate paura, l’Isola è piena di rumori…” Seguito dalla crescita spontanea dei camini scenografici, sorti come fiori magici sull’onda del guadagno dei potenti. L’ennesima celebrazione. Mentre resta poco nota, al meno al di fuori dei confini del paese, la vicenda personale dei molti coraggiosi rappresentanti delle generazioni venute dopo, i quali, arrampicandosi senza particolari misure di sicurezza, si occuparono di smantellare tali e tanti torri fumiganti. Un mestiere, questo dello steeplejack (Jack del campanile) generalmente senza onori, né particolari propositi di arricchimento. Dico in genere, perché come in tutti gli ambiti, ci sono le eccezioni. Tra cui questa di Fred Dibnah, il celebre demolitore, inventore e personaggio televisivo originario della città di Bolton (ad oggi 149.000 abitanti ca.) che fece molti mestieri, ma la cui dote più famosa resta quella di raggiungere uno di questi residui fossili del tempo ormai trascorso ed osservarlo molto a fondo. Acquisire le sue caratteristiche, quindi fare quanto necessario per smantellarlo, qualche volta addirittura senza l’assistenza di una squadra. Al tempo non si usavano gli esplosivi, né pesanti sfere incatenate. La sua tecnica preferita, nei fatti conforme a quella dei suoi molti colleghi degli anni ’40 e ’50, consisteva nel rimuovere una sezione dei mattoni alla base della struttura, mentre la puntellava gradualmente con delle assi in legno. Quindi, accendendo un fuoco, costui aspettava la totale combustione delle stesse, con un conseguente contraccolpo sulla ciminiera che sempre bastava, senza falla, a farla ripiegare su se stessa, precipitando rovinosamente al suolo. E non era facile, con tali metodi, evitare danni collaterali agli edifici circostanti, tanto che le capacità tecniche di quest’uomo furono ben presto leggendarie, anche grazie ad alcuni articoli sui giornali locali, ben presto seguiti da un servizio ed una serie di documentari della BBC. Ma persino a margine di un tale approccio alla fama, se il personaggio in questione fosse stato solamente quello di un demolitore di camini, la sua storia non sarebbe forse giunta fino a noi…

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Braccia robotiche rubate ai banchi di gastronomia

Yaskawa sandwich

Qui nella compagnia produttrice di alcuni dei più diffusi robot industriali per catene di montaggio, ci ripetiamo spesso lo slogan “Più umano dell’umano” e chi potesse essere tentato di attribuire tale abitudine a una visione di troppo del film Blade Runner, o alla scelta particolarmente azzeccata del suo romanzo di origine da discutere dell’ora culturale in sala mensa, purtroppo in tale somma istituzione non ci ha mai mangiato. Così per esclamare “Make me a sandwich, Mememaru” all’accendersi del corpo soprastante: occhi in gradi di focalizzarsi su uno spazio di pochi decimi di centimetro, servomeccanismi agili senza l’impiego di un singolo mitocondrio. Un cuore gelido quanto le fiamme del vulcano plutoniano, astronavi in fiamme sui bastioni della luna Tethis… E tutto questo, nonostante tutto, impiegato quietamente per servire il pranzo giorno dopo giorno, dopo un anno o due dall’emersione delle lacrime piovose. Di un sistema, nuovo. Con strumentazione ed articolazione, superiore. Non un solo braccio definisce infatti un tale chef delle molteplici occasioni, come avveniva per i precedenti schiavi controllati da noi soliti meatbags ma ben due, in un’espressione di bilaterale compiacenza che è alla base di un’alchemica trasformazione. Dal più assoluto nulla: il panino all’uovo. Davvero, viviamo nell’epoca di un secondo Rinascimento alimentare!
Le precise circostanze di una simile visione degna di uno scrittore retro-futurista degli anni ’60-70 non sono, a dire il vero, estremamente chiare: ben conosciamo il modello del robot in questione, un CSDA10F MOTOMAN della Yaskawa Electric, multinazionale giapponese da oltre 10.000 dipendenti, con sede a Kitakyushu, nella prefettura di Fukuoka. E ci è nota la ragione sociale di coloro che si sono applicati nella specifica programmazione di un simile susseguirsi di prosaiche ma complesse movenze culinarie: trattasi della compagnia partner RS TECH, LLC, con sede negli Stati Uniti. Mentre ci è difficile risalire alle precise circostanze di una simile dimostrazione, che dal silenzio e il telo nero sul fondale non parrebbe effettuata nel contesto della solita fiera di settore, assomigliando piuttosto al tipo di video che viene in genere girato per YouTube da tutti quelli che ricevono per posta un nuovo giocattolo tecnologico, tremendamente ansiosi di mostrarlo al mondo. Ma le apparenze possono trarre in inganno. Qui la vera star della situazione non è tanto il versatile dispositivo con 7 assi di movimento x2, più l’elevazione del corpo centrale, comunque in grado di ispirare un senso di assoluta meraviglia, quanto il magistrale lavoro effettuato nella fase di programmazione, che permette all’intera sequenza d’ispirare un senso d’immediata insicurezza a tutti quei giovani che, forti delle lauree faticosamente guadagnate nelle discipline più diverse, di questi tempi pieni d’ottimismo speravano in una brillante carriera nella preparazione di pietanze a basso costo. Non più, non oggi, di sicuro non dopodomani: va detto, ancora il processo potrebbe trovare qualche margine di perfezionamento. È indubbio come ad un preparatore umano, che dovesse impiegare ben quattro minuti per preparare il semplicissimo panino oggetto della messa-in-scena, si ricorderebbe con cupezza l’imminente scadere del suo contratto a termine. Ma come era solito dire Henry Ford delle automobili, con il suo consueto brutalismo sociologico: “Se avessi ascoltato i miei clienti, gli avrei fornito solamente degli equini più veloci.” E già sembra quasi di sentirli, tutti quei cavalli, l’incedere maestoso del progresso, hamburger cucinati subito dietro l’ippodromo, con robotica efficienza, per l’insensibile sollazzo dei posteri affamati. Un domani, killer-bot ribelli svilupperanno l’intelligenza artificiale ribaltando clamorosamente l’equilibrio dei poteri? Può essere, chi lo sa davvero… Ma assai più probabilmente, ben prima di questo, le macchine giungeranno a dominarci con la loro onnipresenza. In un certo senso, è già avvenuto. Quale mai sarebbe la produzione industriale dell’impressionante moderno consorzio umano, senza corrente elettrica, computer, tutti gli altri frutti dell’ingegneria applicata. Siamo quello che mangiamo, però anche ciò che ci permette di spingerci innanzi verso le regioni del domani; prolungando in certi speciali casi, addirittura la durata della nostra vita…

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L’auto ragno da guidare sulle Alpi

Swincar

Quando Pascal Rambaud decide che è il momento di venire fuori dal suo elegante garage con vista sulle Alpi del Rodano, collocato presso il piccolo comune francese di Alles, sono davvero in pochi quelli che hanno il privilegio di sentirlo. Questo perché il suo veicolo di preferenza è non soltanto elettrico, ovvero abbastanza silenzioso da sfuggire all’orecchio dei vicini o gli animali selvatici di un simile sito montano, ma anche leggero ed agile, estremamente compatto nei suoi singoli elementi costituenti. Che tuttavia, in una somma prova ingegneristica, non costituiscono un sistema chiuso, bensì adattabile a qualsiasi circostanza. Stiamo parlando della SWINCAR, un fuoristrada dalla concezione totalmente nuova, con un totale di quattro motori, un sedile di guida basculante ed un sistema delle sospensioni in qualche maniera conforme a quella classe di veicoli che sono in grado di auto-livellarsi sopra il suolo, come alcune macchine agricole, prototipi o potenti fuoristrada auto-costruiti. Un’idea non del tutto nuova, benché eseguita sulla base di un principio ecologico piuttosto raro. Perché idealmente, spostarsi da un punto all’altro a bordo di una simile invenzione ridurrà al minimo urti e scossoni, trasformando la più accidentata mulattiera nell’equivalente di una strada perfettamente asfaltata; il che significa, a conti fatti, che in futuro potremmo fare a meno di affidarci a un tale crudo asfalto. È semplice: si guida come i nostri mezzi abituali. È economica: il peso ridotto permette di contenere il consumo energetico di utilizzo. Il difetto principale, allo stato attuale delle cose, potrebbe semmai dirsi la sua autonomia non proprio eccelsa di 3 ore al massimo sul fuori-strada (fonte: Cluster Montagne) comunque più che sufficiente a dar coronamento ad una gradevole escursione in mezzo alla natura, l’utilizzo consigliabile di un simile dispositivo. Del resto difficilmente il veicolo, così basso su strada e con il guidatore esposto a eventuali incidenti, potrebbe essere considerato l’ideale per spostarsi in mezzo al traffico dell’ora di punta, benché dal sito ufficiale della compagnia di Rambaud, la Mecanroc, si riesca a desumere un futuro intento di ottenere l’omologazione. Del resto tutto è possibile ed avete mai visto una Caterham che circola su strada? L’attenzione che attirano tali mezzi inusuali è tale che, normalmente, qualsiasi automobilista non riuscirà a smettere di guardarli. E comunque il casco aiuta. Ciò detto, ritrovarsi nel punto cieco creato da un pilastro della carrozzeria è sempre possibile, dunque tanto meglio rimanere in mezzo alla campagna.
Anche perché soltanto lì, davvero, si potranno sfruttare al massimo le doti di un fenomeno pluri-motorizzato come la SWINCAR. Il video di presentazione del veicolo, proposto con il sottofondo della più generica musica ad uso e abuso aziendale, è un vero susseguirsi di acrobatismi e situazioni al limite della meccanica applicata. Si comincia con la prova semplice di una ripida banchina, discesa da Rambaud con una cautela del tutto comprensibile, benché si noti già qualcosa di speciale nel funzionamento: la sua macchina, infatti, non è dotata di semi-assi con sistema di sospensioni MacPherson in senso tradizionale, bensì di quattro aste indipendenti collegate in modo flessibile alla gondola del pilota, ciascuna dotata, a sua volta, di un sostegno per la ruota ammortizzato. Permettendo all’auto, almeno in condizioni ideali, di sfruttare la forza di gravita per mantenersi in contatto con il suolo equilibrandosi per tutti e sei gli assi di movimento, inclusa la rotazione. Ma il punto principale della questione è che può farlo per ciascuna ruota e in modo totalmente indipendente. Un fatto che trova applicazione nelle successive incredibili prove di guida.

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Il volo di quattro automobili da oltre due tonnelate

Humvee Drop

Non sono in molti i civili, soprattutto al di fuori dagli Stati Uniti, ad essersi messi al volante di un simile mastodonte: l’Hummer Vehicle o Humvee, tanto per usare la terminologia di quel mondo da cui è stato inizialmente progettato, con il preciso scopo di pattugliare i territori ostili o far muovere una squadra di fanteria da un capo all’altro del teatro operativo. Tutti coloro che hanno avuto una simile (s)fortuna, tuttavia, concorderanno indubbiamente in merito alla poca praticità del mezzo. Dico, avete mai provato ad avventurarvi in mezzo al traffico cittadino con un veicolo da 1,8 metri di larghezza (nella versione H3)? Per non parlare della sua versione per l’esercito, che ne misura ben 2,2. Sebbene ci sia un’indubbio effetto psicologico su chi ti guida a fianco, con conseguente guadagno quasi automatico dell’assoluta precedenza, nella maggior parte dei casi ciò significa trovarsi ad occupare ALMENO un’intera singola corsia, trovandosi precluso l’accesso a innumerevoli strade, persino tra quelle di scorrimento. E non affrontiamo poi, neanche per scherzo, la problematica inerente del parcheggio. Per queste ed altre valide ragioni, dunque, l’Hummer sia militare che civile andrebbe fatto precipitare da un aereo in corsa. Non (sol)tanto per farlo sparire dalla faccia della Terra, quanto allo scopo di accorciare i tempi del pendolarismo, ritrovarsi a percorrere il tragitto solamente in un particolare senso, con aumento esponenziale dei tempi medi di sopravvivenza per gli specchietti retrovisori sulla stessa carreggiata del fuoristrada preferito del buon vecchio Arnold (alias Mr. Terminator). Non per niente li chiamano “Heavy” Airdrops.
In un punto imprecisato del globo terrestre, ma assai probabilmente nel corso di un’operazione simulata sopra il territorio degli Stati Uniti, romba un tuono nella notte, anzi quattro: i potenti motori turbofan del Boeing C-17, uno degli aerei da trasporto di maggior successo nella storia dell’ingegneria aeronautica. Lanciato a circa un terzo della sua velocità massima (l’aereo può raggiungere gli 817 Km/h) sfrecciando clamorosamente all’altitudine relativamente contenuta di 600-800 piedi, il suo possente portellone posteriore si apre in modo cadenzato, lasciando penetrare un flusso d’aria di ritorno in grado di voltare facilmente un guanto. Il rumore si fa quasi assordante. Eppure, la sua stiva non è vuota, anzi, tutt’altro: seduti ai margini lungo una doppia fila di postazioni, vi sono circa 50 paracadutisti in uniforme, le ginocchia cautamente ripiegate e con i piedi in posizione diagonale. Questo, perché sanno fin troppo bene ciò che sta per verificarsi: quattro giganti in pallet, con gli pneumatici ben protetti dall’impatto con il suolo, già fremono dal desiderio di saltare. Saranno pronti ad aspettarli, perfettamente integri, là sotto.
La sequenza quasi surreale di questo rilascio del carico, perfettamente in linea con la scena culmine di un film di fantascienza o d’azione, rientra nei fatti nella prassi militare del LAPES, Low Altitude Parachute Extraction System, una tecnologia famosamente sfruttata per la prima volta nel 1968, per portare rifornimenti alle truppe alleate durante l’assedio della base militare Khe Sanh, nel contesto della lunga e sanguinosa guerra del Vietnam. Consiste di un approccio particolarmente funzionale ad uno degli anatemi peggiori per un pilota: lo spostamento, anche soltanto momentaneo, del carico di bordo, che potrebbe facilmente portare il velivolo in stallo. Proprio una problematica di questo tipo, dovuta all’inappropriato posizionamento dello stesso, fu ad esempio la causa dell’impressionante e ben documentato schianto nel 2013 di un 747 da trasporto a Bagram, poco dopo il decollo e presso una superstrada vicina all’aeroporto. Come liberarsi del peso di quattro autoveicoli per un totale di quasi 10 tonnellate, senza andare incontro a un fallimento catastrofico dell’assetto di volo? L’obiettivo è chiaro: occorre farlo molto, molto velocemente.

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