Un viaggio all’interno del computer dai fili di lana

Gobelins tapestry

Nella Manufacture des Gobelins, presso il XIII arrondissement di Parigi, alcune donne lavorano ad un’arte antica, che pur risalendo dal punto di vista concettuale fino all’epoca del Ferro, nel caso specifico costituisce una preziosa eredità del ben più prossimo Barocco. Tutto iniziò nel 1662, quando Luigi XIV di Borbone (modestamente detto Le Roi Soleil) ebbe l’insolita iniziativa di acquistare gli edifici di alcuni tra i suoi molti debitori, ovvero i nobili della famiglia Gobelin di Reims. Un tale onore, come da prassi narrativa delle fiabe leggendarie, fu concesso in conseguenza di un segreto semi-mitico che soltanto loro possedevano, quello usato per produrre il benamato pigmento della cocciniglia scarlatta, creando dalla presenza disgustosa dell’insetto, un colore che risultasse raro, ed altrettanto fondamentale per qualsiasi stoffa degna di un Re. Ma tende rosse, divani rossi, tappezzerie rosse, e poi vestiti, cappelli, mantelli…Rossi… Sai che noia? Ed avvenne così, nel giro di qualche anno, che il sovrano dalle mille e più statue decidesse di richiedere dal suo opificio personale un qualcosa di più variopinto, che fosse al tempo stesso magnifico e prestigioso, nonché collegato ad un particolare “filo” (Ah, ah) ininterrotto col passato: causando la rinascita, in un senso propriamente pre-moderno, della tecnica medievale impiegata per gli arazzi, ovvero il metodo complesso per trasferire l’immagine di un dipinto in una forma che fosse al tempo stesso resistente, facilmente gestibile, estesa e per di più funzionale all’isolamento termico dei saloni di un castello, di un palazzo e perché no, dell’aurea e scintillante reggia di Versailles. Un’idea…
È nella natura di ogni cosa viva, per un ritmo di scansione e risalendo file di scalini differenti, risalire in quella linea graduata che è la crescita, muovendosi da uno stato di relativa mancanza d’importanza (il seme, l’uovo, lo spermatozoo) verso l’imponente presenza di un’alto albero, o di esseri dotato di un numero variabile di ali, pinne o zampe. Mentre, consideriamo per un attimo: noi come creatori, prima ancora che creature, sperimentiamo la pulsione alla ricerca di un processo che è diametralmente opposto, la riduzione, ovvero lo scorporamento. Fin da quando fu scoperto che un incendio è inevitabilmente un male, mentre un piccolo falò può corroborare in modo sensibile i propositi della sopravvivenza. Che una montagna è fissa e inamovibile, mentre le sue singole pietre servono per fare case o cose. Che mantenere una pecora intera non può che essere una spesa ed un impegno superflui, a meno di mettere a frutto il dono soffice del proverbiale vello…È iniziato un processo d’introspezione proiettata alla scoperta non tanto del COSA, quanto del COME, l’assoluto tutto potesse assumere una forma utile allo scopo delineato. Nel frattempo, la scienza nascitura già scopriva come ogni entità fosse formata, nella realtà dei fatti, da un numero spropositato di invisibili particelle, sempre più minute, atomi, poi protoni, quindi neutrini e infine…Il bosone…Di Higgs. E l’arte? Si potrebbe dire che fece lo stesso, con le immagini di sua primaria competenza. È una questione estremamente trascurata, nella mente dei contemporanei non specializzati, il fatto che ogni stoffa sia composta in modo inevitabile da molti fili, fatti passare in modo estremamente preciso l’uno sopra l’altro, e quindi sotto l’altro al tempo stesso, in un intreccio che ha la forma del prodotto tessile desiderato. Ed è così che si allontana, dagli occhi e infine dalla mente, quello schema fondamentale che costituisce essenzialmente l’armatura (termine tecnico) ovvero il modo d’intrecciarsi tra le fibre reciprocamente perpendicolari: la trama, in orizzontale, e l’ordito, in verticale. Ma immaginate solo per un attimo, adesso, di decidere di colorare le due parti del costrutto, reciprocamente, in bianco e in nero. Ciò che avrete dunque modo di conoscere, ad opera completa, sarà l’immagine perfetta di una semplice scacchiera, in cui le molte entità longilinee, apparendo in alternanza, formeranno una matrice di punti. Chiamateli voi pure pixel, se lo preferite.

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La tortura del guanto di formiche brasiliane

Formica proiettile
L’ultimo video promozionale di Hamish & Andy, viaggiatori della tv australiana, dimostra chiaramente l’effetto del “dolore più intenso noto all’uomo”

Immaginate, se volete. Di avere a pochi metri da casa vostra, sotto l’albero di pere, un intero nido di imenotteri simili a questiil cui pungiglione ospita, in qualche maniera inimmaginabile, il principio stesso della polvere da sparo. O almeno così vorrebbero dare ad intenderci, visto come le chiamano per analogia, in ambienti un po’ troppo civilizzati: formiche proiettile. Ipotizzate, dunque, di vedere tali insetti tutti i giorni della vostra vita, fin da piccoli, con sincero e imprescindibile terrore. E di evitarle ancora, ormai cresciuti, nel tragitto verso l’università e il lavoro. Da persone adulte, infine, fantasticate di scrutarle con rabbia, dietro finestrini chiusi molto saldamente, accompagnando i vostri figli a scuola con la macchina. Anch’essi spaventati, esattamente quanto voi, i vostri genitori e i vostri nonni e… Ad un certo punto, che fareste? Non le mettereste tutte dentro a un tubo di bambù? Non le addormentereste attentamente con il succo verde della pianta dell’anacardio, per poi incastrarle, una ad una, nella tessitura fitta e salda di una coppia di guanti da forno fatti con il vimini (che strano)? Naturalmente, avendo cura che il pungiglione sia rivolto verso l’interno! Per poi darglieli in regalo al vostro figliolo, nel dì allegro di una festa lungamente attesa…
Non ci sono parole per descrivere il dolore assoluto. Tanto che in campo medico, come ausilio alla diagnosi, si chiede al paziente di assegnargli una cifra indicativa, normalmente variabile tra l’uno e il dieci. Dove alla base della scala c’è un leggero fastidio, mentre all’apice, teoricamente, la via diretta verso una generosa dose di morfina o altra sostanza, possibilmente altrettanto valida nell’ottenere una pace torpida e immediata. Sarebbe questo il caso di chi sanguina copiosamente, per l’effetto di un attacco portato avanti con le terribili armi da fuoco, tormento della nostra civiltà. O che piuttosto langue, senza danni visibili o vere conseguenze, a seguito del morso di anche una singola formica tocandira. Gemendo per 24 ore, tra lenzuola altrettanto umide di cupa sofferenza…È soprattutto nell’attimo di passaggio tra la notte e il giorno che si sperimentano visioni mistiche particolari: ancora intorpiditi dalle lunghe ore di sonno, i neuroni umani a reagire bruscamente. Si risvegliano di scatto e all’improvviso, il campo elettrico cerebrale s’interseca e contorce, creando l’immagine di noi stessi, oltre i limiti del mondo. Diversi. L’eccessiva lucidità, per quanto apparentemente desiderabile, costituisce un’arma a doppio taglio. L’essere umano, sperduto nel vuoto cosmico dimenticato, si trasforma. Uno sciamano sperimenta la presenza del grande spirito. Altri coraggiosi, parlano coi morti. Ivi albergano mostri, santi e figure leggendarie. Per la maggior parte della gente, invece, c’è solo un astratto senso di totale smarrimento. Perché quel periodo sublime è  in realtà frutto di una transitoria e piccola morte, l’annientamento della consueta ragionevolezza, frettolosamente ricreata, mille volte in quel fatidico secondo. Uno scalino obbligatorio, che sa di lunga eternità. Finché ad un tratto, per fortuna, la mente viene tratta in salvo, dal martellante suono della sveglia o della pura volontà. Il fatto che ciò avvenga in qualche misura tutti i giorni, per l’effetto del comune addormentarsi, è una grande fortuna dell’uomo moderno e sano di mente, che fugge dal dolore come cosa totalmente inutile o persino deleteria. Un’opinione, questa, del tutto arbitraria e condizionata dalle circostanze. Di chi vive troppo lontano dalla tocandira, che condensa mille notti, come questa, in una sola indenticabile esperienza.
Gli “indiani” Sateré-Mawé della Foresta Amazzonica, popolo di guerrieri e cacciatori, conservano gelosamente l’usanza di un rito d’iniziazione impressionante. Che consiste nel sottoporre i propri giovani a un supplizio reiterato: la terribile, indescrivibile tortura del guanto saaripé. C’è molta tecnica ed arte nella sua preparazione…

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Rio Hamza, il fiume segreto che scorre sotto l’Amazzonia

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Il nostro pianeta non è un mondo statico e ospitale, scenografia immobile delle creazioni umane. La sottile crosta terrestre, strato solido profondo appena qualche decina di chilometri, poggia instabile su sfere sovrapposte di magma liquido e minerali fusi. Passeggeri nostro malgrado della perenne deriva dei continenti, risentiamo inevitabilmente di catastrofi geologiche come terremoti e eruzioni, fenomeni tanto gravi noi esseri viventi quanto insignificanti da un ipotetico e oggettivo punto di vista cosmico. Ed è così che le aperture verso il mondo sotterraneo, dischiuse attraverso i secoli dalle forze inerziali delle zolle emerse, diventano vulcani o sorgenti di magma, luoghi inospitali e terribili. Ma talvolta capita che dal profondo della Terra non scaturiscano fuoco e fiamme, bensì le acque nutrienti e preziose di bacini acquiferi, doni naturali in grado di creare fiumi immensi e nutrire intere civiltà. Qualcosa di simile avvenne, milioni di anni fa, nell’America meridionale: il suo frutto, chiamato un tempo Apurimac (l’oracolo) è oggi noto come Rio delle Amazzoni. Con i suoi 6937 Km di lunghezza, un volume d’acqua impressionante e innumerevoli affluenti, questo fiume è tuttora il più grande e significativo tra quelli visti da occhio umano. Tuttavia di recente, grazie al lavoro di un team multiculturale di scienziati, il suo primato sarebbe in pericolo. Perché è stata ipotizzata l’esistenza di un fratello segreto, a 4 chilometri di profondità direttamente sotto di lui, altrettanto lungo, più antico e di gran lunga più imponente. Si tratterebbe di un fiume sotterraneo le cui sponde arriverebbero a distare tra loro anche 400 Km: il colossale e misterioso Rio Hamza.

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