Sculture animate grazie alla progressione matematica di Fibonacci

Zoetrope Sculpture

C’è un solo modo di contare, il che significa che esistono due modi: convenzionale, interessante. Se si parte dal primo numero della sequenza, il solo ed unico, se si procede via da quello e avanti verso l’infinito in assoluta regolarità, si ottiene un cubo, quindi un poliedro, poi cristalli sempre più complessi e sfaccettati. Sarebbe questo il sentiero inanimato, delle cose minerali o dei computer, che dal calcolo poligonale sanno trarre ambienti, mondi fantastici e ogni tipo di realizzazione visuale, anche vivida, se serve. Basta dare luogo a occulte mescolanze, combinare, ricoprire con le texture e il bump mapping rilevante. Mentre il soffio della vita è differente: essa non conosce l’illusione. Il che non significa che sia incapace di nascondersi: guarda il ragno, la farfalla, guarda il paguro nella sua conchiglia. Tutto fanno, per sparire, eppur quel tutto è strutturato e armonico, come il disegno dell’artista nella sua bottega. Come queste, le ultime sculture di John Edmark, professore di Design all’università di Stanford, che prendono l’ispirazione da quel nuovo metodo produttivo, il sistema che, fra tutti, permette la migliore materializzazione dei poligoni virtuali. La stampante tridimensionale. Si tratta sostanzialmente di forme plastiche, animate grazie ad una luce stroboscopica e il semplice meccanismo dello zootropio, dal greco ζωή – vita, e τρόπος – girare, anche se in tale categoria spiccano tra gli altri, perché seguono una strada differente. Le lucubrazioni, guarda caso, di un filosofo del mondo.
Leonardo Pisano, detto il Fibonacci (1170-1240) era un cultore dei numeri quali pochi ne nascevano, a quei tempi e forse ancora adesso, che risulta ancora stranamente trascurato nella riscoperta letteraria di quell’epoca, assai popolare nei nostri romanzi storici fondati sul mistero. Fu lui per primo, nel suo Liber abbaci a proporre all’intera Europa rinascimentale un differente modo di contare, basato sulle nove cifre che lui definiva indiane, ovvero i nostri attuali numeri arabi, unite a quel concetto che contiene tutti gli altri, il vuoto assoluto dello zephirus, lo zero. Da cui tutto viene ed a cui torna, prima o poi? Ecco, non è facile da definire. Tutto dipende dalla concezione di partenza, l’unica possibile disquisizione: ovvero, se ci fosse quella mano immisurabile, una mente e l’intenzione. Che l’universo sia creato, oppure solamente derivato da un qualcosa di automatico ed ineluttabile, come la caduta giù da un’albero, di un pomo rosso e saporito (diceva bene Newton, yum). Osservazione empirica: ciò che avviene è chiaro all’apparenza. Ma i limitati sensi dell’uomo, fin dall’Epoca Classica, ne rendevano impossibile la vera comprensione. Tale metodo di ricerca basato sul sostegno tecnologico, formalizzatosi in Inghilterra nel 1600, grazie all’opera di alcune grandi menti, era già alla base di un metodo pre-esistente, se non proprio scientifico, quanto meno valido a capire. Ciò è chiaro dalla sequenza in questione, detta dal nome del suo creatore per l’appunto, di Fibonacci. La costituzione di un’ipotesi perfetta: si disponga di una coppia di conigli appena nati. Questa coppia, fertile dopo il primo mese, generi una nuova coppia entro 30 giorni dalla sopraggiunta possibilità. La nuova coppia di candidi batuffoli, a sua volta, si comporti nello stesso modo. Passino gli anni ed ora via, tempo di contare (le coppie): una e poi di nuovo una, perché l’altra non è ancora fertile, quindi 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, 144, 233, 377 […] tendente all’infinito ed oltre. Dal che si trae la conclusione, oltre che del come i roditori siano destinati a controllare il mondo, di una tendenza all’aumento progressivo delle nascite, a partire dalla relativa ragionevolezza delle prime moltiplicazioni. L’aspetto interessante di questa serie è il rapporto ben preciso che la caratterizza, ovvero un ripetuto phi=1,618. Che si può ritrovare nella crescita di molte cose. È particolarmente facile notare tale numero nelle misure di un carciofo e del broccolo romanesco, come pure in ogni sorta di spirale naturale, come quelle delle conchiglie, in piccolo, o dei cicloni tropicali, nel macroscopico più distruttivo. Ma che sussiste talvolta addirittura nei rapporti tra le sostanze chimiche, negli spettrogrammi degli spazi interstellari e perché no, nelle sculture rotative di John Edmark.

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Shaun e l’arte numismatica dei senzatetto

Hobo Nickel

Se si dovesse descrivere l’impegno creativo di chi fa qualcosa di meritevole dal punto di vista intellettuale, senza basi solide o una sicurezza finanziaria di partenza, il primo campo che verrebbe in mente sarebbe quello delle cosiddette performing arts: suonare musica con l’organetto o con la fisarmonica, naturalmente, richiede un certo studio. Così come praticare la giocolerìa dei birilli turbinanti, benché in entrambi i campi, normalmente, sia possibile mettere in pratica le basi dopo un breve periodo di apprendistato. E chi davvero, tra le genti di passaggio, sa riconoscere la qualità? Ma se vi dicessi che in America, grossomodo dalla metà del diciannovesimo secolo, esiste una pratica d’incidere il metallo, tra le baraccopoli e i rifugi temporanei di cartone?
Il nomade, fin dall’epoca di Gengis Khan, possiede ciò di cui ha bisogno per viaggiare con comodità. Egli ha la sua yurta vasta e piena di tesori, armi e cavalli, vesti nobili ed opere d’arte. Mentre il vagabondo, che non ha fissa dimora per definizione, è anche privo di una vera scelta nel condurre una questione. Senza soldi e senza una famiglia, solo contro il mondo e contro le pulsioni autodistruttive che l’hanno condotto fino a quel punto (praticamente non esistono i barboni ereditari) dovrà sopravvivere in qualche maniera misteriosa. Chiedere l’elemosina è il primo di quei metodi ancestrali, come spostarsi di continuo, dove ancor non ti conoscono, per mendicare un pasto o una serata al caldo di un estraneo focolare, acceso da persone d’animo altruista, se non addirittura: buono. Ma la vita che ti toglie alternative o valide opportunità, nel contempo, può proportene di differenti. Leggete la biografia di un qualsiasi creativo di larga fama ed ottimo buon gusto: quanto spesso, costui, sarà rientrato nello stereotipo che definisce noi “normali”? Quante sofferte conversioni, matrigne malefiche, scorribande e ladrocìni, duelli sanguinosi e conseguenti gravi problemi col papato quelli si, su cui sarebbe meglio non scherzare…Il fatto è che la sofferenza, fra tutti gli stati umani, indubbiamente aiuta l’arte. Produrre un qualcosa d’immanente è il frutto massimo delle proprie ragioni di contesto, moltiplicate per ciò di cui è possibile disporre, nel momento dell’ispirazione. Per questo, sono davvero pochi, i senzatetto che abbiano prodotto un quadro ad olio, una scultura, un lungo e indimenticabile romanzo. Onde produrre cose simili ci vuole la materia prima, oppure, nell’ultimo caso il tempo, che come si usa dire è pari al soldo, ovverosia denaro.
Vile sangue di Mammone, l’abietto demone del desiderio, che fu prima di essere coniato, pezzettino di osso inciso, piccola conchiglia, sassetto bitorzoluto. Il bisogno di facilitare la questione antica del baratto, rendendola più astratta ed efficiente, è un antica problematica della comune società. Finché non giunse la perfetta soluzione: un disco di metallo, attentamente zigrinato, con l’emblema non riproducibile di un…Qualcuno. Generalmente, il re, un dio classico o un qualche loro remoto predecessore/erede. C’è un qualcosa di davvero fastidioso, in tutto questo: gli uomini e le donne condannate dalle sfortunate circostanze a vivere ai margini del mondo, che piuttosto che elevarsi al di sopra di simili questioni, come dovrebbe competergli per predisposizione, ancor maggiormente devono dipendere dal ferro tintinnante. Per mangiare e sopravvivere, finché! Ecco forse la ragione, per cui da sempre un certo senso d’esultante rivincita, questa tecnica per incidere dei piccoli ed affascinanti medaglioni. Chiamata per antonomasia hobo nickel, dall’appellativo statunitense usato al fine di definire, durante la grande depressione, tutte quelle persone che avevano perso la casa, eppure ancora piene di una gran voglia di fare. Lavoravano nei campi, nei cantieri, nelle fattorie o nei porti, ogni luogo, insomma, in cui non fosse necessario un abito pulito ogni mattina e un evidente standing culturale. È importante notare che il termine hobo, per la cultura di quel paese, non è affatto dispregiativo (per quello si usa bum) ma evoca piuttosto una curiosa diramazione del sogno americano, che se ci credi continua pur sempre a regalarti splendide soddisfazioni, nonostante le crudeli avversità. Ma devi crederci!
Fu con questo probabile sentimento nel suo cuore impavido, sotto strati e strati di vestiario newyorkese e con lo scalpello bene stretto fra le mani guantate, che il primo di questi scultori accidentali pensò ben di trasformare Lady Liberty sul trono, ritratta sopra il mezzo dollaro di allora, in una bellezza intenta a usare il candido WC.

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Penne dai pennelli, di lucertole ed uccelli

Paper Goldfinch

Carta che muggisce, carta che ruggisce, che squittisce. Carta che grugnisce, poi nitrisce. Che ulula e che trimbula, che tubula, persino. Carta che miagola ed abbaia, fino alla vecchiaia. Quanti anni a ripiegarla e colorarla ed incollarla e così via… È un viaggio continuo pieno di scoperte, che si concretizzano nelle infinite forme della splendida Natura. Vista non soltanto, chiara e limpida per ciò che davvero rappresenta, ma reinterpretata dalla mano degli artisti, che sono assai distratti e molto spesso inventano, cambiano le regole del gioco. Così è rana l’origami, d’astrazione giapponese, geometrico ed impressionista per quanto sia possibile pur mantenendo il senso ultimo dell’animale. A definirlo è in fondo il gesto, di saltare, grazie a un piccolo colpetto che vien dato sul di dietro, se ti va. Ma è rana pure quella disegnata, con tutti i bitorzoli nei punti giusti, verde o rossa e nera, così lucida che viene da leccarla. Ed è rana soprattutto, più delle altre addirittura, quella tridimensionale, ricavata dalla carta! E come lei, l’uccello.
Johan Scherft, artista olandese, percorre dalla metà degli anni ’90 due sentieri paralleli: la pittura della tradizione e quella dei pepakura, le figurine da intagliare, ripiegare ed incollare poco a poco, finché possa emergere, da tanto minuzioso sferruzzare, l’oggetto designato dal pensiero. Che pure se in effetti è inanimato, qualche volta sembra cosa quasi viva, pronta per saltare giù dal trespolo e venirti a far pio-pio. Il suo qui presente cardellino marrone, rosso e bianco, se lo guardi da lontano oppure come stiamo facendo noi, attraverso la lente a bassa risoluzione di un video di You-Tube, può trarre in inganno. Così messo su di un bastoncino, con le ali maestosamente aperte, tanto dettagliate nel profilo di ciascuna penna, non suscita l’ombra del minimo dubbio: questo piccolo animale ha ricevuto l’incantesimo dell’immobilizzazione. Oppure, è impagliato? Possibile, che sia tanto leggiadro, addirittura nel trapasso…Cos’è in fondo l’apparenza, se non una metafora impossibile da superare. Finché non tocchi ed anche allora, una creazione come questa suscita un potente sentimento. Perché è diafana, leggera. Il vento ne farebbe foglia da portare via; quando invece, quello vero di uccellino, quella forza la incanala e sfrutta per trovare la sua via. Poi se torna, prima vola via.
Pepakura è l’unione tra le due parole inglesi paper (carta) e craft (creazione) contratta secondo le regole della lingua giapponese. Ci sono diverse teorie sull’origine dell’arte dei siffatti modellini di carta, che pur venendo oggi identificata per convenzione con un termine d’influenza estremo orientale, potrebbe essere nata in Occidente, pressapoco durante la seconda guerra mondiale. In quell’epoca di fervida produzione industriale, infatti, i materiali erano tanto regolati dai diversi stati europei, che l’unico rimasto, per far divertire i bambini, era la carta. E iniziarono così ad essere stampati, sulle riviste soprattutto d’Inghilterra, piccoli modellini di quegli stessi mezzi, aeroplani e carri armati, che tanto patriotticamente andavano a far fuoco sulle linee dell’eroico fronte di battaglia. Il Giappone invece, all’altro lato del globo, che alla carta aveva sempre dato un’importanza rituale e religiosa, non seppe o volle concepire questa associazione; i suoi origami di quest’epoca di cambiamenti, sempre più complessi e modulari, ricercavano piuttosto una bellezza astratta che li rende ancora attuali, matematicamente affascinanti senza l’uso delle forbici o la colla.
Questo non significa, comunque, che l’unico soggetto adatto al foglio bianco ritagliato sia un veicolo costruito dalle mani umane, per combattere una guerra. Benché certamente, quest’ultimo risulti maggiormente facile da fare, vista la forma spigolosa, le superfici chiare e nette, laddove un animale, invece, è curvilineo ed organico, ricoperto di peli,piume o scaglie. Ci sono, del resto, soluzioni valide a tale quesito: pensiamo ai videogiochi della fine degli anni ’90. Quando il calcolo dei processori, per la prima volta, fu in grado di gestire ambienti tridimensionali, con dei limiti che oggi ci appaiono bizzarri. Cubi e piramidi, grezzi triangoli, dovevano allora diventare navi spaziali, orchi ed elfi, coraggiosi cavalieri! E il sistema era pur quello, di un virtuale, imprescindibile pennello…

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Bello, il comodino. Mettici un draghino!

Paper Mache Dragon

Chi non ha mai sognato di possedere il simbolo lucertiforme, e ala-di-pipistrello del Demonio non ha spazio, oppure manca di obiettività. Più ci riempiamo casa di scaffali, tavolini, mensole o termosifoni, meno è facile capire cosa è il caso di appoggiarci sopra. Chi usa chincaglierie moderne, orologini digitali. Altri acquistano anticaglie nei mercati delle pulci. Qualcuno, più semplicemente, compra i pupazzi per bambini dell’Ikea, tipo GOSIG RÅTTA il roditore. Ma c’è un limite alla gioia e la passione che può darti, osservare, giorno dopo giorno, lo stesso topo grigio di peluche, che ti fissa di rimando coi suoi piccoli occhi di plastica semi-trasparente. Persino JÄTTESTOR, l’elefante alto 60 cm, dopo un po’ ti stanca, perché manca di mordente ed a soltanto due paciocche zanne ben torniti, benché sia tenero al tuo tocco un po’ annoiato. Il fatto è che oggi siamo abituati a vivere in confini definiti: l’ordine urbano delle cose, il tranquillo ambiente di lavoro, un letto morbido la sera ed al risveglio, molto spesso, una tazzina di caffé. Ma lo sai da dove viene, spesse volte, quel caffé? Milioni di zibetti, giù nella foresta sudamericana, mangiano le bacche dell’albero di Kopi. Poi qualcuno, tutti i giorni, va a raccogliere ciò che esce dal di dietro dei preziosi beniamini. E custodendolo con cura, lo impacchetta in ricche confezioni, per spedirle su un aereo fino a noi. Assolutamente, davvero delizioso.
Siamo circondati dal mistero, anche se lo dimentichiamo per nostro istintivo desiderio. E sarebbe quindi bello, buono e giusto, averne un vivido memento dentro casa. L’incubo di spine, denti e diafane membrane alari, che ti fissa e fa la guardia, contro l’incedere del tempo e dell’oblio. Ci sono infiniti soprammobili, a questo mondo, e l’infinito chiaramente include pure il drago. Ma chi li ha visti, questi oggetti, ben capisce: che ne esistono di due versioni. Una è graziosa, ha il nome da vichingo come il topo e l’elefante, ma il suo cuore è morbido, i denti senza punte acuminate (affinché non cavino, quel che invece va protetto e conservato, per stereotipo pediatrico diffuso) L’altra è gotica, adatto a chi ama le cose gotiche, il metallo nella musica oppur la plastica brunita. Ma sai cosa ti dico? Di quella roba, ce n’è pure troppa in giro! La lucertola sputafuoco è diverse cose, e molto naturalmente, pure un mostro da evitare per istinto, la cui foggia ispira un certo grado di terrore. Perché a questo lui serviva, quando venne per la prima volta disegnato, nei bestiari ed incunaboli e sui tovaglioli da taverna). Ma ciò tralascia troppo spesso l’altro aspetto, la bellezza. Un vero drago è affascinante. Un drago vero è fantasioso e addirittura comico, per certi versi. Possibilmente, se lo guardi, non scordi tanto presto. Ma soprattutto: ciascun mostro meritevole, più o meno medievale, è un frutto assai diverso, a seconda dell’albero da cui cade, sul suolo di un giorno fantastico e operoso.
E l’artista Dan Reeder della città di Seattle, nello stato di Washington che lui chiama scherzosamente washingmachine, quell’arbusto l’ha coltivato molto (molto) a lungo. Il secondo termine di accrescimento sarà presto aggiunto alla puntuale biografia, chiara come il numero degli anni, 62. Che parla di come, fin da quando ne aveva 22, lui abbia coltivato questa prolifica passione per la carta. Di giornale, di riviste, di vecchi cataloghi di centri commerciali. Ma non per scriverci, semplicemente. Bensì appallottolarla, sopra un tavolo protetto dagli schizzi, assieme a colla candida e vinilica, per dire alla francese: Papier-mâché, la “carta ciancicata” o in termini d’italica persuasione, ben-Pesta. Questo materiale antico, che fra tutti quelli usati per scolpire in tre dimensioni è al tempo stesso il più accessibile, nonché versatile da usare.

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