L’arte russa di costruire un mini carro armato

MC-1

Viene un momento, nella vita di un appassionato, in cui leggere libri non è più abbastanza. Ed è così che nasce, in genere, il collezionista. Qualcuno che ad un certo punto ha detto: “Per potermi dire veramente soddisfatto, devo possedere quella cosa, mettermela in casa ed ammirarla fino a comprenderne la vera essenza.” Ma non tutto è reperibile e determinate cose, semplicemente non esistono su questa Terra. Non più, almeno. A quel punto, cosa fare? Non sempre il modellismo, in un turbine di plastica e tubetti di colla, può integralmente soddisfare un tale desiderio, di sperimentare la reale sensazione di esserci, aver partecipato a quegli eventi oggetti dello studio e il sentimento. Uno degli approcci possibili al problema, a quel punto, può essere la fantasia, magari coadiuvata da qualche strumento di simulazione (giochi di ruolo, videogame…) Però ecco, ipotizziamo di disporre del know-how, dei materiali e della documentazione necessaria a costruire pressoché qualsiasi cosa che abbia ruote, un motore, la torretta. Che senso avrebbe, a quel punto, accontentarsi…
Se c’è una cosa che ci ha insegnato l’Internet dei nostri giorni, è che il paese più grande del mondo è particolarmente ricco, sopratutto fuori dall’estabilishment urbano, di un particolare tipo d’inventiva personale, che a partire da una sorta di ancestrale arte di arrangiarsi sfocia nella ricchezza intellettuale che permette di approcciarsi ad ogni situazione con fiamma ossidrica, martello, chiodi e qualche dozzina di efficaci chiavi inglesi. Come dimostrato eccezionalmente dall’UFO Garage, l’officina vicino alla capitale di Mosca e protagonista del presente video, in cui si mostra l’arcana e complicata procedura che ha portato i suoi operosi membri, nel giro di un annetto di prove e sperimentazioni, fino a questo punto assolutamente degno di nota: del poter schierare, con entusiasmo incomparabile ed appena una punta di sincero orgoglio, la fedele ricostruzione di un mezzo bellico dall’importanza niente affatto trascurabile: l’MS-1/T-18, ovvero il primo carro armato sovietico della storia. Il cui aspetto buffo e compatto, indubbiamente, ormai tralascia di poter incutere terrore negli schieramenti nemici. Né, probabilmente, gli riuscì di farlo molto spesso ai suoi tempi: questo carro armato, costruito per la prima volta in serie nel 1927 e per un gran totale che ebbe modo di raggiungere, nel 1931, la cifra considerevole di 960 unità, non fu mai un vero fulmine dei campi di battaglia, riuscendo ad essere (potenzialmente) determinante soltanto in una singola campagna, quella per difendere la ferrovia transiberiana durante il conflitto sino-sovietico del 1929. Al successivo scoppio della seconda guerra mondiale, infatti, questi veicoli erano ormai già estremamente obsoleti, e trovarono l’unico impiego di essere integrati in postazioni difensive fisse, o in alternativa come strumenti di addestramento per l’equipaggio dei decisamente più temibili T-34, principali nemici delle forze d’invasione tedesche durante tutto il corso dell’operazione Barbarossa. Eppure, qualche cosa di quell’epoca drammatica sembra quasi ritornare in vita, nel momento in cui il pilota designato mette in moto il ruggente motore, interpretato per l’occasione da un diesel ad uso probabilmente agricolo prodotto dall’azienda giapponese Kubota. Non sarebbe anzi sorprendente, in un ipotetico confronto, ritrovarsi a scoprire come il fenomenale modello 1:1, in grado persino di sgommare con i cingoli in mezzo alla neve, presenti prestazioni largamente superiori a quelle del suo ispiratore d’alta epoca. E niente di strano, aggiungei a questo punto, visto come i materiali impiegati siano decisamente più leggeri e meno resistenti. Viene ampiamente spiegato nel sito in russo del progetto, facile preda degli algoritmi di Google Translate: “Per nostra fortuna, non dovremo affrontare il nemico a bordo dell’MS-1. Così abbiamo deciso, per le sue piastre di armatura, di impiegare del polietilene ad alta densità” In acronimo anglosassone, HDPE – nient’altro che plastica, in effetti. Poco importa. Una volta portato a termine il processo di verniciatura, la differenza con l’originale sparisce letteralmente, come un cacciacarri ISU-122 tra i cespugli della taiga, in attesa dell’avvicinarsi del temuto fronte corazzato di Germania.

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Carri armati agili come Leopardi da 60 tonnellate

Leopard Trench

Bernd, il pilota, d’un tratto sembrò scuotersi nel suo sedile sagomato: “Comandante, c’è una buca più avanti.” Momentaneamente perplesso, Webber alzò gli occhi dalla mappa topografica dell’esercitazione. Alla velocità lanciata di 65 Km/h, non c’era davvero molto tempo per pensare strategicamente, prima che gli ostacoli del territorio raggiungessero la parte anteriore dei loro cingoli determinando la riuscita con encomio oppure il fallimento più totale. “Argh, zum teifel!” Fece Erich, l’artigliere: “Finiremo nuovamente rimorchiati!” Fu a quel punto che Webber iniziò ad elaborare da un luogo recondito della propria mente il concetto per lui nuovo, che non soltanto si trovava chiuso in una scatola pesante come una locomotiva, ed analogamente soggetta a leggi della fisica persistenti ed impietose, dalla cui performance tecnologica dipendevano tutti i suoi futuri propositi di carriera, ma che a determinare il suo destino sarebbero stati un gruppo di ragazzi scapestrati, poco meno che ventenni, la cui massima affinità col compimento di un’operazione militare complessa derivava dagli interminabili pomeriggi trascorsi a far la guerra con tastiera e mouse. “Devo, devo, devooo…Freeeenareeeee?” diciannove secondi, diciotto. Dallo schermo ad alto contrasto disposto accanto alla sua posizione, Webber lanciò un rapido sguardo dietro al carro armato. Tra la polvere sollevata in una nube vorticante, si scorgevano i tipici cespugli scarni della campagna circostante Wiesbaden, dove quest’anno il comando aveva deciso di inscenare i grandi giochi di guerra congiunta assieme al reggimento della base americana. Naturalmente, l’esercito alleato non poteva schierare i suoi carri principali da battaglia in pieno territorio tedesco: era ancora fresca nella memoria la comunicazione studiatamente priva d’inflessioni, risalente all’aprile del 2013, tramite cui tutto il personale del gruppo operativo veniva informato che l’ultimo MBT statunitense lasciava finalmente l’Europa, chiudendo anche formalmente un vecchio capitolo di storia che in qualche maniera continuava ininterrotto fin dall’epoca della “liberazione” di Berlino. Quindici secondi, l’aspetto diseguale del suolo iniziava a farsi sentire, trasmettendo vibrazioni da un lato all’altro del veicolo. “Che tipo di buca?” Pronunciò, scandendo molto bene le parole, Meinhard, l’addetto alla carica delle munizioni. Analogamente alla situazione tecnica del già citato M1 Abrams, nel principale mezzo d’assalto dell’esercito tedesco era prevista la presenza di un quarto membro dell’equipaggio, con la mansione principale di spostare le munizioni dal compartimento stagno deputato fino all’apertura superiore del caricatore automatico di bordo, permettendo, se non altro, di tenere il materiale esplosivo attentamente separato e distante dai vulnerabili esseri umani incaricati di portare tale fino a destinazione, ovvero ben incastrato in mezzo alle spesse piastre dell’armatura nemica. Naturalmente, tale spazio nel corso dell’esercitazione era del tutto vuoto. Altrettanto naturalmente, Meinhard non aveva niente da fare, e quindi metteva bocca praticamente su tutto. “Silenzio!” Gridò Webber, appoggiandosi la mano destra sul berretto da ufficiale: “Erich, sei il solito idiota pessimista. Adesso per piacere volta la torretta di esattamente 180 gradi. Si, bravo, così. Bernd, rallenta, devo capire cosa abbiamo davanti. Meinhard, taci.” Era chiaro che voltare le telecamere, a quel punto, avrebbe richiesto un tempo troppo lungo. In un solo fluido movimento, Webber fece forza sulle gambe per alzarsi in piedi nello stretto spazio della cabina, con il risultato di trovarsi a premere direttamente contro il portello superiore. Obbedientemente, servomeccanismi del costo di diverse migliaia di Euro scattarono in posizione, e quella pesante cosa si aprì.
Ventitre secondi all’impatto. Il vento soffiava ferocemente. Ridotta la velocità del 25%, come da procedura concordata dai membri dell’equipaggio in caso di ordine non definito (Vedi quel bernese… Qualche cosa, l’ha imparata) il carro armato aveva adesso dinnanzi a se un ventaglio di svariate possibilità. Poteva fermarsi, tornare indietro, poteva addirittura accelerare. L’esperienza insegnava a quel particolare comandante di ben ventiquattro anni e un lungo corso teorico alle spalle, ad esempio, che il carro Leopard 2 aveva una particolare capacità innata di scavalcare gli ostacoli, grazie alla sua massa superiore spinta innanzi dal potente motore diesel MTU MB 873, quattro tempi, 47,6 litri, 12 cilindri e 1.500 cavalli di potenza. Se fosse stato un’auto sportiva, lanciata al massimo regime consentito dal suo rapporto peso-potenza, all’incontro con una trincea il suo fido veicolo si sarebbe solamente frantumato. Ma un carro armato ha molte frecce al suo arco…

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La leggenda dei tremendi ponti siberiani

Siberian Bridges

Sarebbe particolarmente difficile, ritengo, negare il fascino estemporaneo che possiede per la nostra natura umana, il tema del viaggio. Quello spostarsi talvolta alla ricerca di un qualcosa, di eterno e imponderabile, che costituisce forse la natura e il senso stesso dell’esistenza. Ed è chiara e impressa nella mente quell’immagine, quasi allegorica nel suo puro ed assoluto simbolismo, della striscia percorribile, che corre a perdersi verso il punto di fuga all’orizzonte: asfalto, aiuole, aria di campagna. Tutto è splendido, nella presunta prefigurazione di una sconfinata pianura, dove esistono soltanto i punti d’interesse. Ma non c’è in effetti niente di più irrealistico, a questo mondo, che dare per scontata la continuativa persistenza di un contesto ideale. Quando il pianeta, frutto di sconvolgimenti vulcanici e derive pressoché spropositate, poggia sopra un mare di magma che frammenta, crepa e spacca il suolo. E sopra un tale susseguirsi di vertiginosi dislivelli, cosa fare…Se non costruire, tra l’alba e il tramonto dell’anélito e il bisogno, una struttura che è fondamentale alla sopravvivenza quanto l’edificio del granaio, il canale d’irrigazione, l’acquedotto della civitas; ovvero quella cosa, il ponte. Ed è lì, che si palesa la fondamentale distinzione della qualità.
Perché se pure tutti i ponti sono simili, almeno in potenza e nello scopo alla base della loro stessa messa in opera, è la condizione di contesto che immancabilmente può variare: e tutto pare accettabile, persino ragionevole, purché basti a continuare quel meraviglioso spostamento lungo l’asse orizzontale. Finché BAM, non giungi qui, per l’appunto, alla BAM – quel tratto di collegamento prevalentemente ferroviario, ma affiancato da una sorta di primitivo servizio per veicoli stradali, che prende il nome esteso di Baikal-Amur, dal nome rispettivamente del lago più profondo del mondo, presso la cui punta superiore il tratto ha la sua origine, e da quello del fiume Amur che sfocia nell’Oceano Pacifico, vicino al confine della Manciuria. 4.324 Km a partire dall’oblast di Irkutsk, confinante con la Mongolia e fino alla remota Sovetskaya Gavan, città portuale posta innanzi alle isole Sakhalin. La doppia strada, alternativamente ferrata, asfaltata o fangosa, misura dunque poco più della metà della mitica Transiberiana, ma con una significativa differenza: quei circa 4.200, tra attraversamenti pseudo-architettonici di fiumi, laghi, dirupi e fosse, in diversi stati di abbandono, principalmente a causa del poco utilizzo e delle condizioni climatiche spesso particolarmente proibitive. Perché quando fa freddo in Siberia, come probabilmente è cosa molto nota, non fanno “appena” zero o -10 gradi Celsius, ma un qualcosa di variabile tra i -20 e -30, sufficienti a mantenere uno strato quasi perenne di permafrost ghiacciato estremamente spesso, che nei suoi occasionali eventi di disgelo si spacca triturando, letteralmente, tutto quanto ciò che è stato costruito dalla mano degli umani. A ciò va pure aggiunto come la BAM, nonostante i grandi piani del premier Leonid Brezhnev (controllo del paese: 1964-1982) che l’aveva definito “il progetto d’ingegneria del secolo”, non venne completata nei tempi e modalità previste, con una progressiva quanto inesorabile caduta nel disuso, scivolando dalle 180 milioni di tonnellate annuali di merci previste in origine a solamente 8 per il binario occidentale, 5,5 per quello orientale. Per non parlare poi della rete stradale ombra, quel percorso parallelo costruito all’epoca per l’impiego da parte della forza lavoro e successivamente riconvertito ad arteria permanente, usata per collegare tra loro gli innumerevoli villaggi, paesi e cittadine sorte quasi spontaneamente lungo il suo tracciato a partire dal 1972, l’anno in cui circa 50.000 entusiastici giovani russi, definiti “gli eroici BAMovcy” partirono per le regioni più remote della taiga siberiana, convinti dalla propaganda di partito a legare il proprio nome e la propria opera alla costruzione di quella che sarebbe diventata un’importante risorsa strategica per i commerci verso il grande Oriente. Forse non sapendo, e come avrebbero potuto? Che molti di loro si sarebbero poi stabiliti in questi luoghi, per non farne ritorno mai più.

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Quanti cavalli di potenza ha una lattina?

Stirling Can

Le alte ciminiere delle fabbriche di Londra, un ricordo ormai lontano, sorsero nel giro di appena due generazioni. Da quelle alte strutture sgorgò presto il fumo nero dell’inquinamento, ovvero scorie derivanti dalla combustione del carbone, la polvere nerastra che anneriva i sentimenti ed i polmoni. Eppure nel contempo, nelle occulte, incomprensibili fornaci, prendeva forma il nocciolo della questione. La preziosa gemma del progresso, dalle molte e assai proficue derivazioni, che venivano applicate di volta in volta a produzioni differenti: tessuti, metallo lavorato, sostanze chimiche, cemento. Persino gli alimenti, nonostante i presupposti. Più il cielo andava perdendo la sua naturale lucentezza, maggiormente dilagava il metodo di trar profitto dalle cose. Mentre l’umanità scopriva, in fin dei conti, cosa volesse dire veramente, imbrigliare la natura ai suoi bisogni. L’energia non è di per se buona ne cattiva, ma segue un sentiero che trova composizione da questi due estremi, li rimescola e ne trae un lavoro. Che in quanto tale, non può non comportare un sacrificio. L’energia può tuttavia essere, se prodotta dalle cose di poco valore, divertente. Il che significa finalizzata all’assoluto nulla, procurata sulla base di una metodologia che non sarà efficiente. Né pratica. Né scalabile. Né ragionevolmente opportuna. Ma può far girare il fondo di un barattolo di vernice, opportunamente installato su di un mozzo rotativo, al ritmo notevole di 860 rpm! Con un suono di stantuffo reiterato, rilassante e regolare, tale da rivaleggiare il canto di un astruso pappagallo d’alluminio. Ci sono modi peggiori, ritengo, di passare la giornata…
Tutto trovò inizio assai probabilmente in piena estate, quando il consumo di bibite analcoliche (checché ne dicano Babbo Natale e gli orsi) tende a ritrovarsi estremamente incrementato. Così entrano preponderanti nelle nostre case tutti quei brillanti recipienti, tratti da un sottile strato di alluminio ribattuto in forma di cilindro. Con il suo contenuto di Pep! Co/Co! Spr…Ed altrettanti famosi nomi, ciascuno il frutto egualmente complesso di un processo di lavorazione che trovò la sua origine nel 1767, quando Joseph Priestley, ecclesiastico, filosofo e scienziato dello Yorkshire, scoprì il segreto per dissolvere l’anidride carbonica nelle sostanze dissetanti, creando così la prima acqua frizzante della storia. Proprio così: anche per quella, dobbiamo ringraziare gli Industriali. Del resto, già diceva il quell’insigne predecessore, Isaac Newton: “Nessuna forza può cessare di esistere, senza lasciare traccia. Tutte quante devono riuscire a trasformarsi!” (Uno dei fondamenti della termodinamica, aha!) Resta dunque indubbio, che nel contenuto della bibita, tutto quello zucchero, e/o sciroppo e gli altri contenuti cristallini, finiscano per essere diffusi con il sangue, irrorando ogni membrana cellulare che gli capiti dinnanzi. Le calorie, in parole povere, si notano nell’incremento di peso di chi espleta un consumo reiterato del sovrano succo con le bollicine. Ma che dire dell’ingegno costruttivo e l’inventiva, che attraverso i secoli, ci ha permesso di creare una filiera tanto pratica, da permetterci di prendere quell’alluminio dopo l’uso… E poi gettarlo, come niente fosse, nella spazzatura?! L’industria, in quanto tale, si basa su un rapporto delicato tra le forze in gioco. Pur non essendo, essa stessa, una Forza soggetta a leggi chiaramente definite. A meno che tra noi e il cestino, all’improvviso, non si frapponga il naturale desiderio d’inventare, ma purtroppo… Ehi, aspetta un attimo! Lo senti? Questo è il suono del premiato “Congegno per indurre un moto rotativo in un volano tramite l’impiego di una fiamma viva” già costruito in innumerevoli forme, negli anni più recenti, grazie all’applicazione di un metodo immediato, quanto estremamente funzionale. La versione qui orgogliosamente dimostrata, in particolare, è il frutto del lavoro dell’utente Approtechie, che dopo averlo caricato come “suo primo video di YouTube” ne ha ottenuto oltre un milione di visualizzazioni del profilo. Ma ce ne sono molti, molti altri…

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