L’astrusa singolarità nascosta nello stomaco del pesce dai denti di drago

Lo spiaggiamento di ogni essere marino viene accompagnato da un latente senso di perdita e malinconia, corrispondente all’inesorabile esaurimento sotto i nostri occhi di una vita che proviene dallo stesso nucleo primordiale della natura. Soltanto non succede spesso, come in questo caso, che il pesce sembri boccheggiare non tanto per la carenza di acqua ossigenata nelle branchie, ma piuttosto un chiaro desiderio di riuscire a mordere, e possibilmente fagocitare, la mano che dovesse prendere l’iniziativa di prenderlo e gettarlo nuovamente tra la spuma candida della risacca. Una mera sensazione, possibilmente, motivata dall’impressionante dentatura del qui presente Alepisaurus ferox, più comunemente detto longnose lancetfish o pesce sega a mano, con il possibile attributo descrittivo di “cannibale” che non può dirsi in alcun modo fuori luogo. Vista l’abitudine, acclarata dalla scienza, a nutrirsi con trasporto dei propri stessi simili, costituendo nei fatti uno dei più agguerriti predatori della sua stessa specie. Non che ci troviamo innanzi, sia chiaro, a un vero e proprio mostro privo di pietà: poiché questa è pur sempre una creatura che preferisce infatti banchettare con crostacei ed altri cugini il più possibile distanti, almeno finché la carenza di risorse non li porta a compiere l’infausta scelta gastronomica punibile nel IX cerchio dell’Inferno dantesco, nutrendosi dei suoi stessi figli. Un comportamento di cui conosciamo molto bene le specifiche, considerato l’altro tratto maggiormente distintivo di questo minaccioso essere, riassumibile in parole povere come un’insolita lentezza nella digestione. Per un tratto evolutivo tanto raro quanto poco chiaro alla scienza, che ha permesso ai biologi di accedere ai molti esemplari catturati accidentalmente nelle reti dei pescatori, da un lato all’altro del globo terracqueo, estraendone bocconi tanto integri da sembrare prelevati direttamente dal banco di una pescheria. E poiché l’alepisauro si trova caratterizzato per l’appunto da una distribuzione cosmopolita, oltre a preferenze nutrizionali che lo portano a fagocitare un po’ di tutto a vari livelli di profondità oceanica, tutto ciò è servito a caratterizzarlo come una sorta di capsula temporale o uovo a sorpresa, in grado di preservare per tempi mediamente lunghi ogni possibile malcapitata preda della sua grande fame. Assieme ai vari “tesori” generosamente offerti dalle pessime abitudini degli esseri umani, tra cui pezzi di plastica, frammenti di reti da pesca e qualche volta addirittura il vil denaro, inteso come monetine in quantità paragonabile a un effettivo ittico distributore di perdute verità sommerse. La presenza di grandi quantità d’alghe ragionevolmente integre, di suo conto, parrebbe invece derivare dall’inseguimento di possibili vittime all’interno delle ombrose foreste sommerse. Pratico, nevvero? Senz’altro spaventoso, quando lo si osserva in questo modo sul bagnasciuga (eventualità che tende molto spesso a suscitare l’attenzione della stampa sensazionalistica sul Web) senza scaglie e con una lunghezza complessiva in grado di superare i due metri, la lunga vela dorsale e la coda biforcuta al termine del corpo affusolato. Costruito per rapidi scatti all’indirizzo di una preda impreparata grazie alla prevalenza di fibre muscolari bianche, piuttosto che lunghe peregrinazioni marittime mirate e controllare un territorio definito. Il che tende a renderlo, se possibile, ancor più imprevedibile e pericoloso…

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Incontro alle Hawaii con l’adorabile voracità del pesce porcospino gigante

Ed in fondo, perché no? Perché non dovrei andare a dare da mangiare alle anatre? Previa presa di coscienza della maniera in cui nel resort di Ko Olina, presso l’isola hawaiana di O’ahu, le anatre presentano un aspetto assai particolare. Basso e largo, chiaramente rettangolare. Gli occhi sporgenti simili a obiettivi di una videocamera, le ali basse mantenute perpendicolari alla superficie della laguna. Una stravagante livrea a puntini che ricorda chiaramente quella di altri uccelli, ben più lontani dal novero di quelli a noi più familiari. E il becco… duro ed affilato, adatto alla consumazione di pietanze particolarmente coriacee. Così come le due spesse labbra, pallide come copertoni di uno spazzaneve utilizzato per tenere libere le strade norvegesi. Questo perché, occorre a un certo punto sottolinearlo, le anatre di Ko Olina non sono affatto degli uccelli, ma particolari appartenenti all’ordine ittico dei tetraodontiformi, famiglia Diodontidae, dalla classica combinazione di termini greci e latini capace di alludere al significato di “[pesce] dai due denti”; una strana priorità d’altronde non ripresa nella logica del nome comune rilevante, assai più descrittivo nel suo complesso: porcupinefish, l’anima del porcospino (o istrice) letteralmente trasferita in un contesto acquatico. Fino all’ottenimento di un pesce piuttosto comune nei mari di mezzo mondo, ma che tuttavia non può evitare di stupirci per l’aspetto stravagante rispetto alle normali cognizioni di cosa dovrebbe essere una creatura che si aggira in mezzo ai flutti, costituendo al tempo stesso sia preda che predatore. Ed il cui processo evolutivo precedente, proprio al fine di resistere alle implicazioni problematiche della seconda condizione, è giunto a dotarla di un’eccezionale dote di sopravvivenza; quella utile non soltanto a sembrare “più grande” ma riuscire in senso letterale a diventarlo, mentre il suo corpo si ricopre di aculei estremamente acuminati e potenzialmente imbevuti di uno dei veleni più terribili di questo mondo. Benché la maggior parte di quest’ultimo risieda dentro gli organi e in particolare nel fegato dell’animale, rendendolo pericoloso in modo particolare nella sua accezione gastronomica di fugu, la pietanza nipponica famosa come straordinaria prelibatezza nipponica, nonché prova di coraggio per la sempre valida opportunità che un taglio inesatto, o inappropriata preparazione, possa condurre ad uno shock respiratorio dalle conseguenze non meno che letali. Il che non rende d’altra parte il pesce meno grazioso quando, senza ricorrere alle proprie notevoli armi d’autodifesa, si avvicina con fare pacifico alla mano che lo nutre, finendo per ricordare vagamente la naturale indole amichevole della carpa koi, benché le sue preferenze in materia d’alimentazione rendano opportuno dargli, come fatto nel presente video, pezzi di carne o pesce sfilettato piuttosto che semplici molliche di pane. In quantità sufficiente per una creatura dalle dimensioni niente affatto trascurabili di fino a 60 cm, ovvero abbastanza da farne il più grande tra i pesci palla del pianeta Terra. Così che una volta assunta la sua forma battagliera, il termine di paragone maggiormente proporzionato risulta essere individuabile nel pallone per giocare a basket. Di un tipo che nessuno, in alcun caso, dovrebbe mai stringere direttamente con le proprie stesse mani…

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Insetto, crostaceo, alieno. Per gli amici, un piccolo armadillo dei mari

Non pensate anche voi possa esserci un qualcosa, negli animali dotati di un carapace o esoscheletro, che risulta capace di renderli istantaneamente affascinante? Forse l’aspetto lucido e scintillante, simile ad un’automobile appena uscita dal concessionario, oppure la complessa sovrapposizione di elementi articolati, capace di ricordare una sorta di giocattolo robotico, come un drone costruito da una scienza dimenticata. Specialmente quando le proporzioni sono giuste, sotto ogni punto di vista rilevante, per attirare l’attenzione di chi è in grado di apprezzare un cucciolo diverso dal tipico stereotipo canino o felino. Così quando prendiamo in mano un qualche tipo d’insetto, è istantaneamente meglio che sia grande almeno quanto un piccolo di coniglio, alla maniera dei coleotteri dell’ombrosa giungla sudamericana. Ma eccezioni possono esser fatte, nella costituzione di un’ideale lista di creature degne di essere ammirate, per tutti quei casi in cui qualcosa riesce ad essere piccino E grazioso, al punto da riuscire a guadagnarsi un qualche tipo di ammirevole soprannome: roly poly, doodle bug o porcellino di terra. Quale bambino potrebbe tendere a dimenticare d’altra parte, dopo il trascorrere di settimane o mesi, il suo primo incontro con il piccolo animale appartenente alla famiglia Armadillidiidae, pochi centimetri capaci di riuscire a arrotolarsi su se stessi, formando una sferetta in grado di resistere agli assalti dei predatori! E se vi dicessi che un simile aspetto dell’artropode, nelle giuste condizioni, può riuscire ad incontrare quello cui accennavo nel precedente periodo testuale della trattazione? Un qualcosa di corazzato e (relativamente) imponente al tempo stesso, per fino a 50 cm acclarati e forse ancor più di quelli, che parrebbe uscito direttamente da una linea d’action figures create per accompagnare l’uscita di un film di fantascienza. Misure raggiungibili, grazie all’evoluzione, soltanto grazie al sussistere di condizioni assai particolari, ovvero quelle vigenti in media verso i 310-2140 metri di profondità, dove un tempo si credeva nessun tipo di essere vivente potesse riuscire a sopravvivere in alcun modo. Almeno finché nel 1891, continuano l’opera del naturalista contemporaneo di Darwin, Charles Wyville Thomson, il francese Alphonse Milne-Edwards non ricevette e descrisse approfonditamente il primo esemplare raccolto di Bathynomus giganteus, quello che oggi viene comunemente definito come isopode gigante. Dimostrando non soltanto la possibilità per organismi complessi di resistere alla notevole pressione e relativa carenza di cibo di tali oscuri recessi; ma poter vantare nonostante tutto una morfologia direttamente riconducibile a specie ben più familiari e vicine alla nostra umana civilizzazione di superficie.
Il preciso aspetto dell’isopode, piuttosto uniforme all’interno di questo intero ordine d’animali, prevede un piano fisico innegabilmente funzionale, con sette paia d’arti, cinque appendici toraciche respiratorie, uno scheletro segmentato simile ad un’armatura vagamente medievaleggiante. Abbastanza da riuscire a costituire una costante istantaneamente riconoscibile all’interno dei rispettivi ambienti d’appartenenza, non rientrando almeno formalmente nella classe degli insetti, neanche quando si prende in considerazione il succitato abitante dei giardinetti. Una questione maggiormente applicabile nel caso sottomarino includendo come aspetto comparativo le rispettive categorie dei decapodi, ovvero granchi, gamberi e aragoste, con cui condivide talune caratteristiche senz’altro degne di essere notate. Prima tra tutte, la capacità di sollevarsi nella colonna marittima e iniziare a nuotare con una sorprendente agilità, grazie all’utilizzo dei larghi uropodi laterali situati sotto la propria coda, ogni qualvolta devono spostarsi rapidamente, come per fuggire ad un pericolo istantaneamente percepito. Benché la loro scorza coriacea, per non parlare della remota collocazione dell’habitat di appartenenza, basti a metterli al sicuro da molti potenziali nemici fatta eccezione per i pesci più intraprendenti, tra cui determinate specie di squalo. Non che una qualsiasi delle 20 specie di isopodi giganti successivamente scoperte e categorizzate possa in alcun modo definirsi come una preda particolarmente facile, vista la loro predisposizione assolutamente carnivora e il comportamento qualche volta eccezionalmente aggressivo, vedi la celebre sequenza trasmessa nel palinsesto della serie di documentari statunitensi Shark Week, durante cui un esemplare mordeva ed iniziava a divorare vivo uno squalo del fango (fam. Squalidae) rimasto suo malgrado bloccato all’interno di una trappola sottomarina. Qualcosa di fin troppo cupo, per tentare di descriverlo a parole…

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La foresta sommersa che alimenta la speranza di un futuro migliore

Quando si considera il potenziale dei territori inesplorati, non è sempre facile valutarne i pregi meno evidenti, intesi come possibili sentieri per l’accesso verso un più elevato livello di appagamento. Inteso come un recupero funzionale, dei rischi corsi e delle risorse impiegate, da una collettività non sempre consapevole delle più vantaggiose implicazioni degli eventi. Nel momento in cui la vasta exclave dell’Alaska venne incorporata negli Stati Uniti nel 1912, ad esempio, come manovra incentivata dalle ricchezze accumulate durante la corsa all’oro nello Yukon verso la seconda metà del secolo precedente, tutti gli occhi erano rivolti verso l’entroterra e alle svettanti montagne ricolme dei loro tesori nascosti. Mentre nessuno pareva aver analizzato un secondario aspetto, non necessariamente meno importante: i 106.000 chilometri di coste, artiche e sub-artiche, tali da coprire uno spazio estremamente significativo nel Pacifico settentrionale, con una spropositata quantità di condizioni climatiche e ambientali. E il risultato di poter vantare, all’interno di questi spazi, la biodiversità più eccezionale, inclusa la presenza di circa 500 varietà di alghe commestibili e praticamente a portata a mano. Ora se torniamo indietro, a un paio di decadi o poco più, appare particolarmente complicato immaginare un’industria di acquacoltura agricola al di fuori dei paesi dell’Estremo Oriente, come il Giappone, dove la consumazione di questa tipologia di cibi vanta una lunga e articolata storia tradizionale. Analizzando tuttavia l’attuale stato e tematiche al centro dell’industria alimentare globalizzata, fortemente osteggiata dal progressivo esaurimento degli spazi utili a fornirci un valido sostentamento, ogni spunto precedentemente tralasciato sembrerebbe assumere proporzioni di tipologia inesplorata. E di fronte alla grande fame che potremmo giungere a conoscere fin troppo presto, la scelta potrebbe essere anche più facile del previsto; non potendo esistere, a conti fatti, nessun tipo d’alternativa.
Regina tra le alghe in grado di possedere un qualche tipo di valore gastronomico, proprio per questo, è stata ormai da tempo individuata l’intera famiglia delle Laminariaceae, cui appartiene anche la largamente nota ed apprezzata alga konbu (Saccharina japonica) così chiamata per la capacità innata di metabolizzare e rendere commestibili anche agli umani zuccheri complessi, normalmente nocivi per la nostra salute. Così come avviene fin da tempo immemore all’interno dei contesti nordamericani, mediante l’opera instancabile delle specie locali, tra cui S. latissima ed Alaria Marginata. Letterali grovigli verdeggianti in grado di crescere spontaneamente senza l’uso di alcun tipo di fertilizzante, in corrispondenza di zone dal fondale basso e come base di un complesso ecosistema popolato da pesci, crostacei e molluschi dalle molte genìe distinte. Dal che scaturisce l’iniziativa di talune compagnie locali, storicamente collocabile a partire dagli anni ’90, per la coltivazione sistematica all’interno di ambienti controllati, finalizzata a massimizzare non soltanto la quantità di prodotto ma anche ridurre il più possibile l’impatto ambientale, un’operazione certamente possibile in funzione degli ampi spazi geografici precedentemente menzionati. Il che parrebbe aver generato, a partire da quel momento, una fervida e vantaggiosa competizione tra diverse realtà aziendali, tra cui il New York Times cita ad esempio la Barnacle Foods di Lia Heifez, specializzata nella preparazione e commercializzazione della bull kelp (Nereocystis luetkeana) dall’aspetto di un lungo ciuffo al termine del suo gambo coriaceo, già consumata in tempi storici dalle comunità indigene del territorio. Mentre qualcosa di simile avviene all’altro lato del continente nello stato del Connecticut e fino al tratto costiero coperto dal New Hampshire, con i fiorenti e redditizi collettivi capaci d’inquadrare figure simili a quella di Bren Smith, l’ex-pescatore di merluzzi che avendo perso tutto a causa di un uragano, ha deciso di adattare il suo ambito lavorativo ed imprenditoriale a quella che lui chiama la “rugola dei mari”. Un alimento particolarmente funzionale, particolarmente per coloro che organizzano la propria dieta in base al rifiuto di determinate pietanze reputate, per così dire, eccessivamente “aggressive”…

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