L’inizio dell’ultimo giorno sulla Terra sarà in linea di massima condizionato, per quanto ci è dato prevedere, dal passaggio dell’alta tensione all’interno di un reticolo dalla forma particolarmente distintiva. Sei dita di colore rosso in cima a una montagna, protese verso il cielo, ed altrettante all’altro lato della depressione. Interconnesse, vicendevolmente, da una zigzagante successione metallica di cavi, che sovrastano un’indiviso ammasso di alberi e zone rilevanti per la fauna in via di estinzione. Uccelli marini, soprattutto, come la piccola urietta marmorizzata, la cui popolazione ormai ridotta in modo significativo non potrà mancare di tirare un sospiro di sollievo, suo e nostro malgrado, alla reciproca e totale devastazione della società industriale che per tanto a lungo e in modo così significativo ha inquinato le incessanti onde susseguitosi ai margini del suo ambiente di caccia elettivo. Purché una di quelle bombe con testata nucleare, quasi per un ripensamento non del tutto fine a stesso, non finisse per cadere proprio qui, alla stazione di Jim Creek nei pressi di Oso, stato del Nord-Ovest di Washington, non troppo distante dallo stretto di Puget e in mezzo alla catena montuosa delle Cascade. Ma cosa sorge esattamente in questo luogo, da poter costituire per ipotetici nemici dell’America un obiettivo prioritario in caso di catastrofica deflagrazione della terza ed ultima guerra mondiale? Cosa è stato installato in forma preliminare già nel 1948, e successivamente perfezionato attraverso livelli successivi d’efficienza, fino a costituire nel giro di 5 anni il più potente esempio di un simile dispositivo a disposizione di un paese interessato a combattere una guerra (auspicabilmente, esclusivamente) fredda? Con una risposta di tipo ingegneristico per qualche tempo custodita ai più alti livelli della costruttrice RCA (Radio Corporation of America) come rigorosamente top secret, questa struttura oggi non più unica come una volta ha ormai da tempo rivelato la propria finalità principale. Quella, per l’appunto, d’inviare dei segnali a bassissima frequenza verso l’intero Oceano Pacifico e la regione dell’Artico, capaci di raggiungere navi militari, forze aeree in volo ed entro certi limiti, persino i sottomarini a qualche metro di profondità nelle acque dichiaratamente ostili. Una condizione di utilizzo meno stringente di quanto si potrebbe essere inclini a pensare, vista la possibilità d’impiegare boe galleggianti legate a un lungo filo, capaci di veicolare il messaggio verso il basso, lontano dal possibile rilevamento ad opera d’impianti sonar nemici. Laddove impossibile risulta, di contro, replicare in qualsivoglia modo agli ordini ricevuti, vista l’impossibilità di trasportare strumenti di portata simile al di fuori del territorio nazionale, visti gli 1,7×2,6 Km dell’impianto in oggetto, ancora oggi tra i più imponenti mai costruiti dall’uomo. Il che risulta essere, d’altronde, perfettamente compatibile con lo scenario ipotetico di un conflitto nucleare, durante cui pochi minuti sono tutto quelli che le superpotenze si aspettano di avere a disposizione, prima di premere il grilletto dell’arma che tengono puntata all’indirizzo della collettività che non ha mai davvero cessato di aspettarsi la fine…
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Il ponte che rischiò di precipitare nel Tamigi il giorno stesso della sua inaugurazione
Canzoni come armi, note più potenti di una catapulta: “Il ponte di Londra è stato distrutto. L’oro è vinto, a noi la gloria. Gli scudi rombano, le trombe squillano. La Valchiria celebra questo trionfo. Le frecce cantano, le armature tintinnano; Odino ha condotto il nostro Olaf alla vittoria!” Olaf il Secondo, s’intende, distruttore vichingo di questa città poco dopo l’anno Mille, che secondo alcuni potrebbe essere stato l’originale protagonista della più adorabile filastrocca su un disastro infrastrutturale, famosa tra i bambini di mezzo mondo. Molti anni prima che venisse, presumibilmente, dedicata all’ignota My Fair Lady (La…Regina? La Vergine Maria? Una personificazione del fiume Lea?). Ed è cosa buona e giusta che nella storia pregressa dell’ingegneria, severi cartelli siano stati eretti presso i più elevati e fragili attraversamenti fluviali: “Divieto categorico di marciare, accesso interdetto alle bande musicali”. Poiché nulla è più terribile che un principio spontaneo di risonanza; ripetuto e rafforzato progressivamente, fino al raggiungimento della catarsi.
Era il volgere del millennio successivo, dunque, quando lo stesso tipo di disastro stava per ripetersi, ed all’umanità in attesa venne ricordato per vie indirette la maniera in cui nessun moderno materiali, tecnica simulativa informatizzata o avanzato accorgimento tecnologico potessero effettivamente risultare sufficienti a sovvertire i rischi resi impliciti dalla natura. Il giorno: 10 giugno dell’anno 2000, quando l’ultima ed ennesima meraviglia della città di Londra venne aperta per la prima volta al pubblico, senza ricorrere al passaggio obbligato di un solenne Atto del Parlamento. Ma col benestare e il beneplacito di Elisabetta II, che aveva dato la sua ufficiale benedizione a quell’ineccepibile, elegante striscia sospesa tra cielo ed acqua, qualche ora prima che un quantità stimata di 90.000 persone si affrettassero ad attraversarla, in una folla (e follia) gremita che non pareva avesse una fine. Sto parlando, se non fosse ancora chiaro, del pedonale Millennium Bridge opera dell’archistar e designer locale Norman Foster, già autore di moderni patrimoni dell’umanità come il Viadotto di Millau e la Hearst Tower di New York, nonché disegnatore in epoca più recente dell’improbabile cerchio californiano dell’Apple Park, a Cupertino. Il cui nome certamente tutt’altro che originale (si stima che almeno una dozzina di strutture omonime di rilievo siano state inaugurate nel corso di quegli anni fatidici sul calendario) non poteva certo corrispondere allo stile realizzativo, in realtà elegante al punto da sembrare, secondo le parole usate nella stessa proposta in fase di appalto, una “lama di luce” sospesa in modo quasi mistico tra le sponde corrispondenti al museo Tate Modern e la grande piazza sovrastata dalla cupola della Cattedrale di San Paul, con appena un paio di piloni di sostegno e lunghi cavi in posizione ingegnosamente ribassata, usati per tenere sollevati i suoi 325 metri d’estensione mantenendo al massimo la visibilità del notevole panorama. Ciò che tutti ben sappiamo, tuttavia, è che andare contro la convenzione implica un certo livello di pericolo inerente. E qualche volta, basta un passo falso sulla strada della storia, per sfiorare l’epica e indimenticabile realizzazione di un disastro.
Era un giorno di sole accecante, quello, in grado d’attirare vaste fasce di popolazione interessata e curiosi. Al punto che si stima che verso la metà del pomeriggio, fino a 5.000 persone giunsero a trovarsi contemporaneamente sopra la notevole struttura costruita secondo i migliori metodi dalla ditta ingegneristica Arup. E fu allora che i supervisori incaricati, iniziarono a notare qualcosa di assolutamente terrificante. Poiché la gremita moltitudine, senza quasi rendersene conto, oscillava ritmicamente al suono di una musica del tutto immaginaria. Mentre il ponte stesso, sotto i loro piedi danzanti, pareva udire e seguire le stesse note! Così tremando in modo progressivamente più notevole, pareva avvicinarsi all’ora del suo totale e irrimediabile annientamento. Con fretta innegabilmente giustificata, il sito venne quindi sgomberato e chiuso al pubblico fino a data da destinarsi. Era nato, in quel preciso attimo e per molti secoli a venire, il mito londinese del Wibbly-wobbly Bridge.
La furia del serpente d’acciaio che si abbatte sul ponte della portaerei
La scena mostrata, piuttosto famosa in particolari recessi di Internet, è di quelle che fanno trattenere il fiato per svariati secondi, poco prima di tirare un fragoroso (e prematuro!) sospiro di sollievo. Si tratta della registrazione militare in bianco e nero, che sembra quasi risalire alle grandi guerre del passato ma risulta in effetti datata al 3/18/2016, di un aereo AWACS per la guerra elettronica E-2 Hawkeye in corso di atterraggio sulla portaerei USS Dwight D. Eisenhower alias Possente Ike. Siamo durante le esercitazioni per la certificazione dei piloti e tutto sembrerebbe rientrare nella routine, se non che riesce facile notare come al momento del contatto con il ponte di volo, per qualche ragione, il velivolo non sembri ridurre abbastanza la sua velocità. Così che lentamente, inesorabilmente, continua a procedere fino al bordo anteriore del vascello. Ma si capisce fin troppo presto che non si tratta della manovra definita in gergo bolter, in cui un atterraggio viene annullato all’ultimo momento per girare attorno e fare un secondo tentativo quando, terminato lo spazio disponibile, sparisce al di sotto dello spazio prospettico per prima la fusoliera, prontamente seguìta dalle ali ed infine la coda dell’aereo: “Orribile!” Facciamo in tempo a pensare, dando già per spacciati i cinque membri dell’equipaggio del pesante bimotore a turboelica, destinato ad inabissarsi tra le onde dell’Atlantico in attesa. Quando in un attimo di trionfo inatteso, l’aereo riemerge nel centro esatto dell’inquadratura: poiché gioia e giubilo, la prontezza del pilota, il suo puntuale addestramento, la rapidità dei motori nell’erogare una spinta sufficiente, gli hanno permesso di reagire abbastanza in fretta e salvare il mezzo da un terribile destino. Una chiara e gloriosa dimostrazione, quindi, della formidabile efficienza dimostrata in ogni aspetto della macchina bellica statunitense? Da un certo punto di vista. Eppure non del tutto. Quando si considera perché, in effetti, il disastro stesse per accedere e le conseguenze inaspettate di una simile, rara, contingenza, che non traspaiono in alcun modo nella testimonianza pubblicata orgogliosamente online.
“Oh, snap!” Afferma una famosa esclamazione anglofona, spontanea e infantile, intesa a sostituire un’imprecazione con l’utilizzo della più innocente onomatopea da cartone animato. Ma snap è anche il verbo multiuso che indica tra le altre cose, nel dizionario, la rottura improvvisa di un qualcosa di resistente, flessibile ed oblungo, oppure il colpo violento ed intenzionale di una frusta. Vedi ad esempio, uno dei cavi di arresto presenti sul ponte delle moderne portaerei. Disposti parallelamente e nel senso trasversale in gruppi di tre o quattro, come nel caso della Ike, al fine d’intervenire sul tragitto di un pesante bolide di metallo intento a rientrare previo completamento della sua missione. Salvo imprevisti o incidenti la cui portata, a seconda dei casi, può anche risultare drammaticamente grave. E di espletivi alquanto coloriti devono averne risuonati parecchi in quel dannato giorno, dal ponte fino all’isola di comando della portaerei. Quando tutti gli sguardi andarono a concentrarsi istantaneamente verso la fonte dell’istantaneo e fragoroso rumore, comprendendo istantaneamente la portata terribile del disastro. Otto persone colpite dalle due metà del cavo spezzato giacevano a terra con vari livelli di gravi ferite, ossa rotte ed in un caso almeno un trauma cranico di grave entità. Sembrava, a tutti gli effetti, che la nave avesse appena subìto un attacco nemico…
L’importante missione dei furetti nei tubi
Su Internet è particolarmente facile esprimere un giudizio prima di avere sufficienti dati a disposizione, condannando qualcuno per un gesto apparentemente crudele che presenta in realtà uno scopo nobile, persino benefico nei confronti della piccola “vittima” designata. Del resto farebbe anche una certa impressione, all’inizio di questo video prodotto da Barcroft Media, vedere James McKay che solleva uno dei suoi animaletti addestrati, facendolo oscillare su e giù mentre lo tiene per la parte anteriore del corpo, per poi prenderne il fondoschiena e sollevarlo all’altezza della testa, piegando di fatto quella flessibile spina dorsale a 90 gradi. Se non fosse per la qualifica ed il lavoro di costui: fondatore e istruttore capo della Scuola per Furetti Nazionale, una prestigiosa istituzione nel paese di Oxford, Cambridge e la regina Elisabetta. La storia degli inglesi con questo simpatico animale, discendenza addomesticata della puzzola selvatica così come il cane lo è del lupo, è comunque piuttosto antica, risalendo quasi all’epoca nebulosa in cui, secondo gli studi archeologici, l’uomo primitivo scelse di ricorrere all’aiuto di uno dei più scaltri, svelti e potenzialmente mansueti carnivori delle boscose lande della Preistoria. Letterali millenni trascorsi a catturare conigli, estirpare topi e spaventare la volpe all’interno della sua tana, aspettandosi in cambio… Che cosa? Qualche dono di tipo alimentare, rigorosamente a base di carne (queste creature non digeriscono facilmente frutta o verdura) una cuccia sicura e l’affetto del proprio padrone umano, manifestato spesso attraverso manipolazioni soltanto in apparenza “violente”, come quelle dimostrate nello spezzone soprastante, in realtà assai gradite come approccio anti-stress per il vorace mammifero strisciante. Finché raggiunta l’epoca odierna, il ventaglio di possibilità d’impiego si è ampliato, piuttosto che diminuire.
La scena è di quelle capaci di tormentare il sonno di chiunque si occupi di ristrutturazioni, specialmente in case dall’importanza storica pregressa. L’elettricista che, giunto sulla scena del cantiere, sfodera il suo flessibile passacavi per tentare di far raggiungere alla linea l’altro capo di una canalina pre-esistente. Poiché non sarebbe affatto possibile, né in alcun modo proficuo, pensare di rompere il pavimento, il muro o altre parti del prezioso patrimonio architettonico circostante. Così giunto a metà dell’opera, costui che si alza, con una scrollata di spalle: “Impossibile. Ci sono troppe curve a 90°. Non può… Passare…”. Al che si ode nell’incubo la colonna sonora del film Ghostbusters, con il suo ritornello che fa: “Chi chiamerai, chi chiamerai?” Un quesito difficile. A meno di vivere, per l’appunto, presso la city di Londra & dintorni, dove risulta possibile segnalare la propria esigenza all’istituto di studio superiore dall’odore muschiato, l’unico luogo in cui il furetto viene visto come una risorsa, ancora prima che un amico e compagno di giochi per tutti gli amanti degli animali. A venirvi a trovare sarà dunque, idealmente, lo stesso McKay con uno dei suoi striscianti tesorini, scelto tra quelli che si sono dimostrati capaci di completare il “percorso”. Un arzigogolato susseguirsi di gomiti, tratti longilinei, saliti e discese creato in PVC nel giardino della scuola, dedicato ad accrescere uno degli istinti più atavici del Mustela putorius furo, il cui nome scientifico significa in italiano, per l’appunto, “faina puzzolente ladra”. Che nonostante le apparenze non è un trinomio denigratorio, bensì una precisa descrizione delle propensioni innate di una simile creatura, la cui tendenza a prelevare piccoli oggetti (chiavi di casa, monete, telefoni cellulari…) per trasportarli all’interno della sua tana è fin troppo nota, così come l’indole naturalmente curiosa ed inquisitiva. Ragione per cui, una volta messo l’appuntito musetto all’ingresso di un tunnel appena poco più largo di lui, si può essere certi di una cosa soltanto: che il furetto farà di tutto per percorrerlo fino all’estremità opposta. Senza nessun tipo di carico oppure, ed è questo il bello, avendo ricevuto l’orpello di un piccolo gilet di trascinamento, al quale sarà stato legato, con sublime aspettativa, un lungo filo utile a tirare il cavo. E c’è di sicuro una ragione se il Telegraph, già nel 2010, definiva i furetti come il ponte metaforico che dovrà colmare il digital divide, lo scarto tra i servizi digitali disponibili in città e nelle zone rurali, in massima parte non ancora raggiunte dalla banda larga cablata, ovvero le fibre ottiche di ultima generazione. Finché la gente non si troverà a udire quel lieve scalpitìo, di affilati artigli all’interno del condotto, mentre il padrone all’altro capo del passaggio fa il possibile per attirare l’attenzione del suo fidato beniamino. Con risultati, il più delle volte, niente meno che eccelsi…