La nebbia in cui diventano visibili le radiazioni

Uranium Chamber

Verso l’una di notte del 26 aprile 1986, le barre di carburante radioattivo site nel nucleo del reattore di Chernobyl, in Ucraina, iniziano inspiegabilmente a surriscaldarsi. In quello che venne definito inizialmente un “test di sicurezza” il personale della centrale decide quindi di inviare il comando remoto che le avrebbe fatte ritrarre, portandole a raffreddarsi in un apposito alloggiamento pieno d’acqua. Ma qualcosa, appare subito chiaro, non sta andando per il verso giusto: l’uranio contenuto al loro interno aveva infatti già raggiunto una temperatura sufficiente ad indurre la fissione dell’atomo, e trovandosi così racchiuso, iniziò a trasformare il liquido in cui era immerso in idrogeno ed ossigeno. In un moderno impianto di generazione dell’energia nucleare, naturalmente, ciò non avrebbe costituito un gravissimo problema; sistemi meccanici di apertura e valvole di sfogo sarebbero ben presto intervenuti, lasciando defluire il vapore radioattivo in appositi condotti, senza gravi conseguenze per l’ambiente e le persone circostanti. Ma simili norme costruttive, a quell’epoca, non erano state ancora applicate, ed in effetti lo sarebbero state proprio a seguito di quello che stava per succedere di lì a poco: un disastro totalmente senza precedenti. La massa del fluido refrigerante a quel punto aumenta infatti a dismisura, finché non giunge a premere con forza contro le pareti delle tubazioni e del suo serbatoio. Ad un tratto, la resistenza strutturale di simili strutture viene meno, ma niente affatto gradualmente, bensì con un catastrofico disfacimento esplosivo, mentre tonnellate di grafite vaporizzata, cariche di pericolose radiazioni ionizzanti, vengono diffuse negli strati superiori dell’atmosfera, da dove il vento le trasporterà per mezza Europa. Tuttavia, una parte del contenuto del reattore prende una strada totalmente differente. L’uranio delle barre di controllo infatti, essendo un metallo solido e pesante, inizia piuttosto a fondersi, coinvolgendo nel processo anche il cemento, l’acciaio ed il terreno sottostante. Il tutto forma una colata pseudo-lavica che alla sua temperatura di diverse migliaia di gradi inizia a disgregare il pavimento, colando in modo inesorabile verso i piani interrati della centrale. Quindi il blob, liberatosi dell’energia termica in eccedenza, si solidifica di nuovo in una forma simile a una coda di lumaca. O per usare il termine di paragone più comune, il piede corrugato di un titanico elefante. E quella massa ancora giace, lì. Perché la sua eminenza grigiastra, nei fatti, rappresenta quello che potrebbe definirsi il singolo oggetto artificiale più pericoloso della Terra,  con un’emanazione di onde disgregatrici che superava, all’epoca immediatamente successiva all’incidente, 10.000 roentgen l’ora, più che sufficienti ad uccidere sul posto una persona adulta nel giro di 300 secondi. O condannarlo a morte nel giro di un paio di giorni dopo un singolo minuto. Persino quarant’anni dopo, oltrepassare la misura di sicurezza del sarcofago ed avvicinarsi a questo folle monumento, restando in sua presenza per qualche minuto, basterebbe a garantire conseguenze gravi. Eppure, non c’è nulla di maggiormente innocuo, all’apparenza, ed immobile e insignificante, di un simile ammasso di pietra metallifera, abbandonato giù nel buio di quei sotterranei in rovina. Le radiazioni sono state definite, con ottime ragioni, “il killer invisibile” perché non lasciano alcun tipo di effetto nello spettro visibile dall’occhio umano, almeno, non lo fanno in condizioni…Normali.
Nel 1894, il fisico scozzese Charles Thomson Rees Wilson si trovava per lavoro in prossimità della cima del Ben Nevis, la singola montagna più alta della Gran Bretagna. La giornata volgeva al termine, ed il cielo era tutt’altro che sereno, al punto che con lo stagliarsi del massiccio contro il Sole, avvenne un fenomeno piuttosto interessante nonché raro, comunemente definito dello “Spettro di Bracken”. In termini più diretti, l’ombra del Nevis venne proiettata contro quella di una nuvola distante, riproducendo la sua sagoma a mezz’aria: “Che bello!” avremmo detto noi. Ma lui, che era uno scienziato, pensò invece qualcosa sulla linea di: “Ciò dimostra chiaramente come sia possibile osservare una cosa inconoscibile, quale la luce dell’astro solare, non direttamente, bensì piuttosto attraverso l’effetto che produce sull’ambiente circostante! Dovrò riprodurre questa progressione in laboratorio…” Wilson era infatti impegnato, in quegli anni, nello studio delle particelle subatomiche, ed in particolare nell’effetto che quest’ultime potevano avere sull’ambiente circostante. Così, di ritorno dalla sua escursione, costruì il prototipo che gli sarebbe valso il premio Nobel, e che qui vediamo riprodotto ed impiegato in video, con un approccio costruttivo più moderno: la camera a nebbia, o cloud chamber. Un dispositivo che consente, introducendo al suo interno una fonte minerale o un gas in corso di decadimento, di visualizzare finalmente nel vapore d’alcol la tempesta letterale di proiettili, protoni, neutroni ed elettroni, che costantemente minaccia l’integrità delle nostre preziose cellule, quelle che ci permettono di camminare, parlare ed osservare il mondo.

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L’obiettivo fuori-fuoco che rimpicciolisce le cascate del Niagara

Niagara tilt shift

Un mondo dall’aspetto simile all’ambiente in cui viviamo, ma stranamente divergente nei dettagli di contesto: tutto è rapido, iper-attivo. I colori sono ancor più luminosi. E ciò che dovrebbe essere lontano, sembra invece assai vicino, perché visto dall’alto, e stranamente indistinto, in modo da dare risalto al resto della scena. Come nella tecnica fotografica del bokeh (dal termine giapponese boke confusione) in cui la profondità di campo viene artificialmente ridotta, attraverso la riduzione del rapporto tra lunghezza focale e foro d’accesso per la luce, verso il sensore o la pellicola dello strumento in uso. Valore che viene definito talvolta il numero f e che viene sempre condizionato, in fotografia, dalla distanza e dimensione del soggetto. Pensateci: quanto è tipica l’immagine di un piccolo animale, magari un uccello o un insetto, preso in primo piano con potenti cannocchiali, come sospeso nel colore verde indistinto dell’ambiente circostante…Mentre ottenere un’effetto simile nella foto di una quercia, o ancora peggio, una montagna, richiederebbe una macchina fotografica a misura di Titani.
Ed ecco ciò a cui stiamo assistendo con la fantasia, almeno in quello che parrebbe derivare dalla tecnica usata nel presente video del canale LittleBigWorld: ingigantiti fino all’altezza di 60, 70 metri, dominiamo il ruggente ferro di cavallo in fluido divenire, punto leggendario in cui il vasto fiume Niagara si getta lugiù dal dislivello che divide l’Ontario dagli Stati Uniti. Splendenti nei loro impermeabili rossastri, le turbe dei turisti che si affrettano a salire sulle imbarcazioni Hornblower e Lady of the Mists, due delle tante che permettono di vivere da vicino l’impatto di tonnellate cubiche d’acqua al minuto. Mentre noi, con la testa tra le nubi, delicatamente ci chiniamo ad osservare. Se soltanto avessimo un bicchiere, per saggiare il gusto rinfrescante di ciò che da un millennio erode il suolo dell’Onguiaahra, santuario del Dio Tuono…Sarà buono, certamente. Addirittura, inebriante. Utile a ricordarci che in effetti, ancor non comprendiamo quello che stiamo vedendo. Realisticamente, ci sono solo due maniere in cui una simile scena può essere stata ripresa: l’elicottero, oppure il drone telecomandato. Eppure, con l’aumentare della distanza dal soggetto ripreso, l’ottica ci insegna che il punto di messa a fuoco diventa necessariamente più inclusivo, tanto da poter contenere due isolati di un paesaggio cittadino, oppure lo spazio che separa una parete del Grand Canyon da quella antistante (tanto per restare in tema di meraviglie naturali). Mentre qui, nemmeno due filari degli alberi posti a cornice paiono altrettanto definiti. Esattamente come se si stesse osservando un modellino.
La fonte di una tale meraviglia visuale, come molti già sapranno, è frutto di quella serie di tecniche che oggi vengono chiamate, per antonomasia, tilt/shift (inclinazione/spostamento) benché tali termini, in origine, fossero riferiti ad un approccio fotografico dall’impiego assai più vasto e variegato. La cui origine va rintracciata nella Regola di Scheimpflug, secondo cui, nell’ottica: “É matematico che il piano focale, dell’obiettivo e del soggetto si incontrino sulla stessa stessa retta.” Il che significa che modificando l’inclinazione della lente al termine dell’obiettivo, tramite l’impiego di apposite soluzion ingegneristiche, si può ottenere un piano di messa a fuoco non più parallelo al soggetto ripreso, bensì obliquo. Perché farlo? Possono esserci diverse ragioni. La prima e maggiormente significativa, risalente all’invenzione di questa tecnologia, era motivata dal bisogno di riprendere soggetti estremamente grandi ed inamovibili, come strutture architettoniche. Il che presentava (e presenta) dei problemi, il primo dei quali è come far entrare l’intero edificio nella foto senza inclinare la fotocamera, dando quindi l’origine ad un fastidioso cambio della prospettiva; ovvero, dei palazzi rastremati verso l’alto, come piramidi dei nostri tempi. L’altro è quello di trovarsi di fronte ad un qualcosa che si sviluppa in senso trasversale rispetto alla propria posizione, estendendosi in maniera tale da costringerci a mettere a fuoco la facciata, OPPURE tutto il resto. Perché anche l’estensione della messa a fuoco di cui sopra, dovuta alla distanza del soggetto, ha dei naturali limiti, oltre i quali serve ricorrere all’aiuto della tecnologia…

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Come fare la seta in casa

Silkworms

Se un cataclisma improvviso ed inspiegabile dovesse privare il mondo dell’energia elettrica, quante persone imparerebbero a costruire una candela? Se dovessimo uccidere personalmente ciascun pollo e maiale destinato ai nostri piatti e poi giù in gola, diventeremmo tutti vegetariani? Questo è il tenore e la classe di domande cui si sta proponendo di rispondere Andy George, creatore e protagonista della serie per YouTube How To Make Everything, in cui sta affrontando da qualche mese, l’una dopo l’altra, le numerose difficoltà da cui ci esonera la civiltà moderna. Che tuttavia i nostri antenati superavano brillantemente, come noi potremmo fare con l’ultimo livello di un modesto browser game. Elementi, componenti, inscindibili sezionamenti. Chiedi a qualcuno di assemblare uno dei suoi oggetti di uso comune, a partire dall’essenza della cosa già smontata, e costui ti guarderà stupito, poi con calma verrà a capo del problema. Ma come disse lo scienziato e divulgatore Carl Sagan: “Per fare una torta di mele partendo da zero, devi prima creare l’universo.” E quel vasto luogo, di dolci a base di frutta ne ha moltissimi, ciascuno insignificante, perso nelle moltitudini insensate. Mentre tutta un’altra storia è ciò che fai da te, reinterpretando sulla base della conoscenza la materia prima, o ancora meglio, ciò che ne costituisce fonte inesauribile, fin dall’origine dei tempi. In taluni casi, un tale approccio può portare anche a dei validi presupposti di risparmio (se non addirittura, guadagno sulla vendita del surplus produttivo). Cose come questa, casi come il qui presente. Di un nostro contemporaneo a cui non manca nulla, tranne il desiderio di mettersi in mostra; con un nuovo abito elegante maschile, giacca, camicia, pantaloni e tutto il resto, che però non compri dal sarto o al centro commerciale, ma piuttosto è il frutto del tuo stesso saper fare, saper comprendere e determinare. Il quale giammai potrebbe essere stato “completo” senza l’inclusione di una splendida cravatta progettuale, che poi nei fatti è stata trasformata in cravattino, intessuta con l’impiego di una delle stoffe più apprezzate al mondo: la preziosa seta organica, direttamente dal bozzolo dell’insetto domestico per eccellenza, il Bombyx morianche detto baco da seta o silkworm. L’episodio è particolarmente affascinante perché, anche se tutti sappiamo più o meno come nascono un metro quadro o due di seta, lo spiegano anche a scuola, difficilmente avremmo poi pensato di metterci a iniziare quel processo in prima persona, anche perché, quale sarebbe la ragione? Di sicuro senza macchine o telai, in assenza di un training approfondito e molti anni di pratica, sarebbe impossibile arrivare ad un qualcosa che possa paragonarsi al prodotto “completo”… Beh, ecco, la verità è l’esatto contrario. Il punto è che qui stiamo parlando, nonostante le apparenze, di un processo che fu praticato fin dall’epoca Neolitica, ben prima della lavorazione dei metalli. Nonostante l’aspetto tecnologico di ciò che ne deriva, non vi è nulla di più inaccessibile o complesso della mungitura di una mucca, o la tosatura di una pecora. Semmai potrebbe dirsi che richiede un grado assai minore d’empatia, vista la fine che fanno le decine, centinaia di bruchi che lavorano ogni giorno in una magnanerie, l’opificio della seta in senso tradizionale.
Ma prima di raggiungere quell’esito crudele, come in tutte le cose, sarà il caso d’iniziare dal precipuo seme, o nello specifico, le centinaia di uova che il buon Andy si era procurato, da una qualche deriva bio-naturalistica del nostro sempre familiare ed utile mondo dell’E-Commerce. In parole povere: embrioni da Internet, lasciate schiudere nel giro di 14 giorni, quindi nutriti con un’abbondante dose di foglie di gelso tritate, l’unico cibo che queste creature mangiano con gioia. Il bruco di questa creatura, sostanzialmente una falena benché ormai lontana da quest’ultima, almeno quanto il cane casalingo dal comune lupo, mangia e cresce quindi per un tempo di 6-8 settimane, cambiando la sua “pelle” (in realtà un esoscheletro vestigiale) per ben quattro volte. Al termine delle quali, come richiamato da un istinto primordiale, inizia a muoversi nel suo recinto, ricercando il ramo, o piccola preminenza sporgente, che il sericoltore responsabile dovrà aver posto a sua disposizione. Per scalarlo e appendersi, come un mini-pipistrello corazzato, ad aspettare il seguito di questa storia…

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L’allucinazione del supermercato dove tutto è cane

Dog Market

Quanto sto per raccontare è assolutamente accaduto, anche se non si conoscono il luogo ed il momento esatto della vicenda, il nome delle persone o tecnologie coinvolte, il tipo di strumenti utilizzati, la causa scatenante, il destino vissuto dal prodotto finale. Negli anni ’80, l’esercito degli Stati Uniti si trovò innanzi ad un dilemma: come sfruttare le nuove tecnologie informatiche per aumentare non soltanto la letale precisione delle proprie armi, ma anche per accrescere il potenziale di sopravvivenza di chi pilotava i carri armati? La risposta, a quanto pare, fu ben presto chiara ed immediata: tramite l’intelligenza artificiale. Poiché era possibile, almeno in via teorica, addestrare un computer per assistere gli equipaggi in quello che è sempre stato il singolo compito più importante nei contesti bellici, ovvero avvistare il nemico, prima che lui potesse far lo stesso a noi. Possibile, sia chiaro, ma non semplice. In quanto noi non umani ben difficilmente potremmo affermare di comprendere alla perfezione ciò che ci consente d’individuare la forma e/o l’essenza delle cose, come enunciato nella frase: “Quella che noi chiamiamo una rosa, con qualsiasi altro nome, profumerebbe altrettanto dolcemente” e l’evidenza, parimenti a ciò che scrisse Shakespeare del più amato fiore, non determina la pura verità. Così avvenne, all’interno di una qualche cupa installazione di ricerca militare, che alcune le menti più brillanti del Pentagono fossero instradate alla progettazione di un computer differente da qualsiasi altro mai creato prima. Che fosse in grado di interpretare le immagini, ma non in modo matematico (la conta dei pixel o dei colori, l’individuazione delle auguste geometrie) quanto sulla base di una semplice domanda monotipica: “Dietro a quel particolare albero, c’è per caso un carro sovietico, in agguato?” Ah, magnifico, persino carico di un vago senso d’ironia. Pare quasi di vedere gli scienziati ed ingegneri in camice bianco, con il loro album fotografico di 100 panorami, alcuni con sorpresa cingolata, altri privi di elementi minacciosi di alcun tipo. Intenti ad inserirli, in rapida sequenza, nella fessura orizzontale di uno scanner primitivo. All’altro capo del quale non c’era una singola entità artificiale, ma diverse interconnesse, secondo il metodo e la prassi che si usa ancora oggi, per (tentare di) riconoscere calligrafie, parole pronunciate ad alta voce, i volti delle persone presenti in una scena. Li chiamano network neurali. E pur essendo *ancòra notevolmente meno efficaci di un vero cervello umano, non sono in alcun modo meno misteriosi, o difficili da dominare. Pensate di essere, per un momento, un singolo neurone sospeso nella guaina mielinica di un cranio, dotato delle cognizioni necessarie a riconoscere soltanto il blu. Trovandovi di fronte ad un qualcosa di verde, non potrete far altro che passarlo al vostro vicino, il quale forse noterà l’assenza del giallo, oppure quella del rosso e così via, fino a trovare la risposta. Ma un carro armato è molto più complesso di così, perché può trovarsi in mille angolazioni differenti, essere coperto parzialmente dal paesaggio…Passarono i giorni, le settimane. A fronte di un frenetico processo di addestramento, si giunse infine al punto in cui, senza timor d’errori, il sistema riconosceva e contrassegnava tra le 100 foto quelle da considerare “pericolose” senza il minimo margine d’errore. Il numero dei successi continuava ad aumentare. La missione era…Riuscita? Furono chiamati il capo-progetto, il generale d’armata, forse addirittura il presidente degli Stati Uniti. Per inserire dinnanzi a loro, non senza un certo grado di aspettativa e pathos, una nuova serie di foto nel computer, nuovamente suddivise tra bucolici contesti e luoghi prossimi all’agguato veicolare. Ebbene, a quanto pare, il computer stavolta fallì nell’identificare il dovuto, con una percentuale di successi molto inferiore a quanto mai fosse successo in precedenza. Furono effettuati degli studi, nuovi saggi e dimostrazioni. Finché non si giunse all’orrida realtà: che nelle fondamentali 100 foto utilizzate inizialmente, c’era un tratto distintivo ben più evidente dell’eventuale presenza del nemico. Perché tutte quelle senza carro armato, erano state effettuate in una giornata di sole piuttosto intenso. Mentre le altre, con il cielo parzialmente coperto. Ciò che il computer stava identificando, dunque, era semplicemente la luce ambientale della scena! Non è terribile, tutto ciò? Personalmente, trovo che sia una progressione dalle analogie profondamente nichiliste. Ecco una macchina creata per “comprendere” di avere uno scopo, ma la quale non è in grado di capire quale questo, in effetti, sia. E s’impegna quotidianamente, per l’intero segmento del suo attimo di gloria, nel perseguire un obiettivo che non si dimostra quello designato dai creatori. Prima di essere per sempre spenta, poi dimenticata.

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