Orientandomi soltanto tramite la luce tenue della Luna, conduco la mia barca appesantita dalle foche uccise in mezzo ai vortici costieri che proteggono l’ingresso della zona sicura. Scorgendo in lontananza un promontorio, consulto il mio repertorio mentale alla ricerca del preciso punto in cui potrei trovarmi, se proseguo con la stessa rotta che ho impostato prima di sera. Ma qualcosa non mi convince, a causa della foschia che oscura una parte del paesaggio costiero. Allora estraggo dalla borsa un oggetto oblungo e piatto, dai contorni bitorzoluti. Stringendolo con presa esperta, tocco prima un lato, quindi l’altro ed elaboro una soluzione maggiormente accurata. Confrontando grazie ai nuovi dati le cognizioni acquisite, muovo il remo posteriore di due quarti verso destra. Un sorriso si disegna sul mio viso. Potendo fare affidamento sulla protezione della Vecchia Donna Arnakuagsak, prima dell’alba avrei fatto il mio glorioso ritorno con la cacciagione sull’uscio di casa.
L’ufficiale danese Gustav Frederik Holm era il tipo di esploratore capace di apprezzare i meriti di una cultura indigena, al punto da massimizzare le opportunità di accrescimento della conoscenza cartografica ed al tempo stesso antropologica di alcune delle più significative spedizioni della fine del XIX secolo. Come quando, partendo nel 1883 verso la fine del mondo navigabile, a Nanortalik in Groenlandia, decise in seguito di lasciarsi alle spalle i resilienti vascelli ausiliari di marina scorgendo l’opportunità di spingersi con i suoi uomini là dove l’unico accesso possibile per gli europei, fino a quel momento, era stato guadagnato via terra. Ciò grazie all’utilizzo delle formidabili umiaq, un tipo di canoe prive di chiglia, comunemente utilizzate dai nativi per la caccia alla balena o in abbinamento ai più piccoli ed agili kayak riservati agli uomini, essendo nel contesto quotidiano strettamente associate al mondo femminile. Battelli che potevano facilmente barcamenarsi tra i ghiacci, e se necessario essere sollevati da un gruppo ridotto di persone, onde venire trasportati oltre una barriera invalicabile e di nuovo nelle acque salmastre del profondo Nord. Era ormai l’estate del 1884 quando gli esperti sette membri che avrebbero costituito la punta della cosiddetta Konebådsekspedition poterono in tal modo raggiungere l’accogliente fiordo nella regione di Tasilaq, all’epoca nota come Ammassalik o “Isola dei mallotti” con riferimento a un pesce commestibile della famiglia degli Osmeridi. Dove incontrarono un’affiatata comunità del popolo dei Tunumiit o Inuit Orientali, il cui limitato contatto antecedente con gli europei aveva costituito meramente un’esperienza occasionale, per i membri delle spedizioni commerciali indirizzate lungo le coste meridionali. Trascorrendo in questo luogo alcune settimane, commerciando e tentando di acquisire un’idioma vicendevolmente comprensibile, i danesi si resero a quel punto conto che la stagione calda in Groenlandia sarebbe durata molto meno del previsto. Ed invero ritornare indietro, in quel preciso momento climatico, avrebbe comportato rischi troppo significativi. Così decisero di rimanere tra gli Inuit per l’intero estendersi dei mesi invernali. Un lungo e proficuo periodo, destinato a spalancare letteralmente un portale della conoscenza verso le caratteristiche di questo popolo remoto, precedentemente sconosciuto agli abitanti del Vecchio Mondo. Fu in un momento imprecisato antecedente alla sua ripartenza, dunque, che Holm venne avvicinato da un vecchio pescatore. Il quale gli propose uno scambio con alcuni cimeli di famiglia, chiaramente intagliati nel legno che l’oceano trasportava in modo occasionale fino a questa landa totalmente priva di arbusti…
legno
Zimoun e l’indeterminazione acustica di una sinfonia di oggetti del quotidiano
Non è particolarmente insolito decidere di mantenere al centro dei propri pensieri condizioni o circostanze memorabili della propria infanzia. Incluso il soprannome scelto, in questo caso dai coetanei con cui trascorreva liete giornate a Berna, Svizzera, per colui che in seguito sarebbe diventato il più encomiabile, citato demiurgo delle sinfonie corali prodotte dalla chincaglieria del mondo. Non possiamo dire di conoscere d’altronde quale sia il significato di quel termine, Zimoun, mentre molto più condivisibile risulta essere l’altro residuo di quell’epoca, così frequentemente citato da costui in occasione delle plurime interviste rilasciate nel corso degli ultimi vent’anni: la grande stufa che lo affascinò all’interno della casa dei suoi genitori. Oggetto oblungo di metallo lucido, il cui rombo sostenuto, ed il ticchettio prodotto al cambio di temperatura, diventarono per lui l’equivalenza di un potente sentimento, ovvero la profonda risultanza di trovarsi avvolto da uno spazio, la sua musica, l’odore e l’imponenza dei mutamenti. Così che, crescendo, pur senza posizionarsi come il ricevente di un’educazione artistica formale, egli avrebbe elaborato nella propria mente un metodo per scorporare e interpretare il mondo. Forse il più difficile tra i molti, questa costruzione di complesse installazioni artistiche, destinate a diventare benvolute dalle mostre, gallerie e spazi museali di ben oltre la metà del mondo. Attraverso l’evoluzione progressiva di una tale tecnica, difficile da ricostruire nonostante la pesante complessità delle disquisizioni pseudo-biografiche che lui stesso, o altri, si sono preoccupati d’inserire su Wikipedia, tali opere si sarebbero così guadagnate alcuni fattori estetici ricorrenti: l’utilizzo privilegiato di materiali di recupero o similari, la modularità ripetuta in grado di portare solamente in apparenza alla monotonia, la produzione auditiva di un chiacchiericcio di suoni stocastici, inerentemente difficili da prevedere. Ancorché lo stesso Zimoun ami ripetere che la sua arte non produce meramente musica, costituendo più che altro l’effettiva comunione delle percezioni sensoriali sovrapposte, perciò quello che si sente, assieme a quelle immagini tracciate dalle luci ed ombre, costituiscono elementi a pari merito importanti di un processo la cui complessità trascende il singolo momento. Evolvendosi attraverso profusioni caotiche soltanto in apparenza…
Strade di tronchi trasversali, le ossa desuete dei collegamenti sepolti
In qualità di civilizzazione comunemente considerata il simbolo dell’ingegneria pubblica nel mondo antico, l’antica Roma era solita costruire reti di collegamento in grado di durare secoli, se non millenni. Ed anche successivamente alla caduta del potere centrale, simili infrastrutture continuarono ad essere impiegate “resistendo all’uso” per l’intero periodo medievale; un risultato perseguibile anche grazie all’assenza del pesante traffico veicolare dei nostri giorni. Ciò di esistono soltanto rare testimonianze archeologiche, d’altro canto, è il tipo di sentiero costruito per l’esercito durante tali marce di conquista epocali. La costituzione in essere di una linea di transito, capace di essere spianata nel momento del bisogno. E la cui durata sia effettivamente garantita fino al completamento della campagna di turno. Una soluzione semplice. Una soluzione pratica. Forse l’unica possibile, considerati i presupposti. Immaginate una legione che procede in mezzo agli alberi di una foresta, trovandosi improvvisamente innanzi a un tratto di terreno paludoso. Ci sarebbe nulla di più naturale a questo punto, che abbattere i primi, per disporli uno di seguito all’altro sulla seconda?
Il termine tecnico attribuito in epoca moderna per tale prassi parzialmente dimenticata si configura come corduroy road; dal nome del tipico tessuto del velluto a coste, il cui aspetto in plurimi avvallamenti e protrusioni ricorda in effetti quello della strada concepita molti anni prima. Così chiamata tradizionalmente in riferimento al particolare percorso costruito dai normanni poco dopo l’anno mille, per porre sotto assedio la fortezza di Hereward il Fuorilegge, famoso condottiero dei ribelli sassoni durante la conquista delle isole inglesi. Ma per dare seguito ad un simile contesto culturale, il particolare sistema avrebbe in seguito trovato larga applicazione particolarmente dopo i quasi cinque secoli, necessari affinché gli europei approdassero sulle remote coste del Nuovo Mondo. Un luogo dove zone ancestrali di foresta tappezzavano il perimetro dei continenti. E non c’era nulla di più facile, per collegare i vari insediamenti, che traferirne l’opportuna parte sotto le ruote dei propri sistemi logistici eminenti. Ed alcuni dei tratti di corduroy oggi più rilevanti dal punto di vista archeologico sono riemersi sostanzialmente nello stesso modo: durante i lavori per la posa in essere di nuovi tratti di collegamento, mentre i cantieri scavavano al di sotto del terreno noto, riscoprendo il legname di un tempo oramai distante. Vedi il caso della scoperta realizzata nel 2015 in Fairfax, Virginia, dei numerosi tronchi di cedro utilizzati durante l’epoca della guerra civile in sostituzione dei noti sentieri fangosi tipici di questa regione nordamericana. E sembra quasi di vedere i treni di rifornimenti, dietro all’esercito dal passo lieve e i suoi cannoni frutto delle forge mai sopite, mentre incedevano verso gli obiettivi giudicati necessari dal comando dell’Unione…
L’artista che ha trafitto la foresta usando strali del pensiero anticonformista creativo
La più potente macchina di annientamento del contesto è Internet: attraverso ricondivisioni, gruppi di discussione, anti-librerie e fake-news le circostanze vengono ignorate o sovrapposte, nel superamento delle utili ma restrittive norme di causa ed effetto. Con un punto di vista variabile adeguato all’intento dell’intermediario, taluni soggetti si trasformano in visioni stranianti le cui caratteristiche derivano dal volgere degli attimi, l’inarrestabile ma poco significativa progressione dei momenti. Approccio particolarmente problematico, per l’ambito già fuori dal quotidiano dell’arte. Così visioni di portali ricavati nella prospettiva di una foresta, con perforazioni circolari tra il sottil velo geometrico dei rami, tornano periodicamente a propagarsi da un settore all’altro della sfera digitale, offrendo un’opportunità alla gente di sperimentare con la scrittura creativa. “Certamente trattasi di vie d’accesso per il regno fatato!” afferma qualcuno, No. “È chiaramente colpa di un’arma energetica impugnata dalle misteriose civilizzazioni ultra-mondane.” Risponde anonima la controparte. Quasi come se l’attribuzione a mano umana del bizzarro fenomeno potesse privarlo in qualche maniera della propria unicità, rendendolo il semplice trastullo di un eclettico giardiniere. Il che poi costituisce a pieno titolo, ed al tempo stesso molto vagamente, l’esatto intento e pratica dell’artista finlandese Antti Laitinen, costruttore con forbici e corde di un universo in cui nulla sembra capitare per una ragione precisa, ma piuttosto generando mistiche impressioni “latenti” che poi costituiscono uno dei pilastri sottovalutati di noi moderni. Sempre mantenendo quel rapporto privilegiato ma in diretto conflitto con la Natura, che tanto è stato posto al centro della discussione, sia pur slegata dai suoi metodi creativi, durante l’implementazione metabolica di questa serie nel grande flusso digestivo del Web. Il cui titolo in lingua inglese, Broken Landscapes (Paesaggi Spezzati) poco fa per identificare l’effettiva nazionalità dell’autore, proveniente dalla fredda terra di Finlandia, dove ogni albero mantiene il marchio sacro dell’antico Dio creatore, Ukko delle forze primordiali che congiungono il Cielo e la Terra. La cui furia largamente menzionata nel Kalevala, senza alcun dubbio, non avrebbe potuto fare di meglio che scagliare l’improvvido Kamehameha che nessun materiale appare in grado di arrestare prima dell’infinito. O di più terribile, se osserviamo la questione dal punto di vista dello scoiattolo in cerca di un passaggio tra i recessi dell’alta canopia, come dell’uccello che nidifica alla convergenza dei rimossi rami. Il che in un certo senso, potrebbe costituire proprio l’obiettivo critico & poetico di questo artista di fama internazionale…



