Il cielo nello sguardo: perché in questo villaggio del Sulawesi serbano l’infinito attorno alle proprie pupille

Paradigmatica è la presa di coscienza in merito al fattore più importante per chi tenta di catalogare le vigenti differenze tra comunità geneticamente distinte: il fatto che non possa esistere, per quanto sembri ragionevole pensarlo, una corrispondenza tra il “successo” di una particolare etnia e l’estensione del suo territorio. Poiché troppo complessa è la potente convergenza di fattori che giungono a costituire il pretesto necessario all’espansione di un gruppo sociale, incluse le individuali aspirazioni dei suoi multiformi, del tutto imprevedibili componenti. Esse stesse, in quanto parti di un puzzle fondamentale, fortemente variabili all’interno di un singolo gruppo sociale. Basti prendere, ad esempio, una terra emersa dai confini chiaramente definiti eppure un territorio ricoperto da una fitta giungla, rilievi insuperabili, strade impercorribili. Guarda la mappa: siamo in Sulawesi, Indonesia. Ed è del tutto naturale, persino prevedibile, che ad ogni dozzina di chilometri tradizionalmente aperti in mezzo alla vegetazione grazie all’uso del machete, un diverso villaggio compaia caratterizzato dalle proprie usanze totalmente scevre di un contesto trasversale nei confronti dei vicini storici o latenti. Buki, Makassaresi, Mandar, Toraja… Ciascun gruppo dedito alla propria religione, sia questa sciamanica o monoteista. Ciascuno condizionato dalle proprie more o tabù, talvolta totalmente contrastanti. Ciò che l’ipotetico esploratore di un tempo non avrebbe certo avuto modo di aspettarsi, così come il turista dei giorni moderni a bordo della sua automobile lasciata nel parcheggio adiacente alla piccola comunità sull’isola vicina di Buton, Kaimbulawa, sarebbe stato di trovarsi all’improvviso innanzi ad individui che, fatta eccezione per la tonalità della pelle, il colore dei capelli, l’idioma parlato, il modo di porsi, i lineamenti del volto, usi, costumi ed abiti… Avrebbero potuto provenire da un ambito paleartico europeo come la Scandinavia e l’Islanda. Ovvero in base a quel tratto somatico che siamo soliti chiamare, a torto o a ragione, lo specchio dell’anima. Nient’altro che il colore dell’iride all’interno dell’orbita oculare così (relativamente) poco significativo in termini evolutivi, quanto lungamente sfruttato nella scienza della genetica per giungere a fondamentali conclusioni sul tema di una particolare discendenza. Traferendoci dal vago allo specifico, immaginate a questo punto l’immediato senso di soddisfazione ed entusiasmo immediatamente sperimentati nel settembre del 2020 dal geologo con l’hobby della fotografia Korchnoi Pasaribu (alias su Instagram: geo.rock888) al concludersi di un lungo viaggio e l’attesa realizzazione del suo vertiginoso obiettivo. Aver trovato un valido biglietto, non soltanto verso la celebrità o mostrare al mondo qualche cosa di stupefacente, ma anche e soprattutto l’occasione di massimizzare l’efficacia di un messaggio ecologista, fino a quel momento emerso solamente per gli osservatori attenti del suo pregresso lavoro…

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Il mistero in bilico tra guerra e religione del castello sull’alta scogliera irlandese

Esiste all’insaputa di molti una precisa origine mitologica del popolo dell’Isola Verde, profondamente ispirata ai testi religiosi dell’epoca medievale. Redatto da una pluralità di autori dall’identità ignota, il Lebor Gabála Érenn (“Libro della Presa d’Irlanda”) narra dei sei gruppi di coloni che s’insediarono attraverso i secoli su questa terra, tra cui figurano i potenti Tuatha Dé Danann, druidi o stregoni destinati in seguito ad ascendere allo status primordiale di divinità pagane. Ma è la vicenda della quarta etnia in questa cronologia non del tutto verificabile, quella dei Fir Bolg, ad aver più lungamente colpito ed affascinato gli studiosi, grazie alla preponderanza di testimonianze archeologiche possibilmente riconducibili alla loro pregressa esistenza. Nel testo si narra dunque di questo popolo perseguitato a seguito della sconfitta dei predecessori Nemed ad opera degli agguerriti Fomori, e di come un gruppo sopravvissuto di appena 30 capi tribù fuggirono verso la Grecia, dove sarebbero rimasti per 230 anni fino a un’epoca grosso modo corrispondente a quella dell’Esodo Israelita. Per poi tornare finalmente alla loro nordica versione della Terra Promessa, che avrebbero nuovamente abitato suddividendola in cinque provincie. Ed in effetti molti sono i cathair o dún capaci di giungere ragionevolmente intatti fino ai nostri giorni, le loro fortezze circolari costruite principalmente con la tecnica dei muri a secco, da cui le disparate tribù avrebbero governato, non disdegnando di tanto in tanto di farsi la guerra. Ma c’è un luogo in particolare, situato sul bordo estremo di una tale civiltà a cavallo tra l’epoca del Bronzo e quella del Ferro, per cui aver partecipato direttamente a un conflitto sembra particolarmente improbabile. Chi avrebbe mai cercato di conquistare, d’altronde, l’isola costiera di Inishmore (antico irlandese: Árainn) erboso zoccolo calcareo formatasi nel Carbonifero, priva di particolari vantaggi paesaggistici o vantaggiose fonti d’irrigazione… Eppure sussistono ben pochi dubbi su come nel novero dei complessi militari in questione, nessuno raggiunga la grandezza, possenza e grandiosità monumentale di Dún Aonghasa dalla triplice cinta muraria che copre un territorio di ben sei ettari, la cui collocazione in cima a una scogliera situata a 100 metri sopra il mare è bastata a renderlo una delle mete turistiche più amate di tutto il paese, particolarmente tra le foto “da Instagram” in cui ci si avvicina con sprezzo del pericolo al ciglio del burrone, accantonando momentaneamente qualsivoglia remora o timore innato per le altezze vertiginose. Il che tende ad appiattire, tra i visitatori, la meditazione approfondita su un qualcosa che non può essere spiegato pienamente tramite l’approccio accademico che tende a trarre solide basi dalla convenzione…

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Perché mettere una rana dentro il latte costituiva prassi utile prima di avere i frigoriferi a disposizione

Maestro incontrastato del suo tempio candido, signore che galleggia sopra il pelo della vasca sacra, gli occhi lucidi e sporgenti, le zampe aperte come placidi ventagli utili a ottimizzare la sua posizione orizzontale. Senza ieri, oggi o domani, medita sull’Universo, avendo conosciuto il proverbiale mondo fuori dal suo pozzo dove nacque come un singolo e spaurito girino. Ma non si può rimettere un batrace in bottiglia, più di quanto sia possibile farlo con il demonio in persona. Si può soltanto scegliere di metterlo all’interno del tesoro effimero dei popoli stanziali. Ciò che fuoriesce ogni mattino dalla mucca, per gentile concessione della natura. Oh, latte. Oh, latte che già verso il sopraggiungere del vespro, in certi giorni caldi eri propenso a diventare un brodo dal gusto sgradevole. Ed il giorno dopo, potenzialmente letale. Soprattutto in quei villaggi mitteleuropei o dell’area Russa, dove la breve durata dei mesi estivi non aveva dato luogo allo sviluppo di metodi efficaci per riuscire a conservare ciò che era commestibile, al risveglio di api, fiori e cervidi che gridano il proprio auspicio riproduttivo. Fatta eccezione per uno soltanto, che potremmo definire la venerazione dell’anuro, l’incoronazione del granocchio, l’immersione della florida e splendente raganella. Colui e/o colei (i batraci, dopo tutto, sono dioici) preferibilmente appartenente alla comune specie Rana temporaria che colta in mezzo alla foschia dell’ancestrale palude, il contadino trasportava fino alla dispensa ombrosa nella casa simbolo del suo mestiere rurale. Ed ivi con silente ed entusiastico senso d’aspettativa, calava giù ad immergersi dentro l’amata giara, già riempita al compiersi dell’ora della necessaria mungitura bovina. Risultato: nessun risultato. Il che era del tutto desiderabile in quello specifico contesto almeno fino al tardo XIX secolo, ove la trasformazione stessa era il problema di quel fluido in grado di costituire la perfetta coltura batterica per diventare senza un frigorifero, un maleodorante veleno. E questo nonostante gli anticorpi certamente potenziati, rispetto ai nostri domestici organismi frutto di anni di ottimizzazioni e ormai asserviti alla potenza incomparabile degli odierni medicinali. Purché l’operatore non sbagliasse, scambiandola per il superficialmente Bufo Bufo alias Rospo Comune degli umidi dintorni europei.
Un detto recitava in terra di Germania Der Frosch hilft, die Kröte verdirbt ovvero “La Rana aiuta, [così come] il Rospo rovina.” E in Francia Grenouille au lait, crapaud au diable. ” La Rana nel latte, il Rospo al Diavolo. Ma chi può dire quale oncia di sapienza empirica, quanta percentuale di saggezza popolare, risiedesse alla radice di una tale pratica, soltanto IN APPARENZA frutto di un folklore senza basi degne di essere considerate dall’angolazione del metodo scientifico nato nei secoli ulteriori…

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Il ricamo della fede nelle striature architettoniche della Moschea Rossa di Jami Ul-Alfar

È forse una delle più notevoli esperienze di scoperta offerte ai visitatori stranieri, quella d’inoltrarsi nel quartiere commerciale del mercato notturno di Pettah, in prossimità del centro della capitale commerciale e culturale dello Sri Lanka. La gremita Colombo, così chiamata all’epoca dei Portoghesi come traslazione dall’originale termine Kolon thota, succeduta nel suo ruolo amministrativo dall’adiacente Sri Jayawardenepura Kotte nel 1982. Sebbene basti volgere lo sguardo allo skyline dei rispettivi insediamenti, per comprendere dove risieda ancora oggi il polo sincretistico delle diverse religioni nazionali. Allorché inoltrandosi nella scacchiera disegnata tra i siti residenziali, gli uffici multipiano e le vocianti radure del tessuto urbano, ci si trova innanzi d’improvviso ad edifici totalmente iconici che tendono a riassumere il ricco retaggio culturale della società isolana. Luoghi come l’alta chiesa cristiana di Wolvendaal, curiosamente dedicata alla pregressa infestazione di sciacalli nella corrispondente radura (erroneamente definiti wolves in seguito all’arrivo degli Olandesi) o il tempio Hindu di Sri Ponnambalavaneswarar con il suo gopuram monumentale, la trapezoidale porta decorativa rappresentativa dei siti di culto dell’India Meridionale. Mentre per quanto concerne la nutrita collettività dei singalesi fedeli alla tradizione dei Dawudi Bohora, depositari dello sciismo ismailita islamico importato dallo Yemen a partire dal X secolo d.C, non ci sono grossi dubbi su quale possa essere il principale ambiente architettonico di riferimento. Non appena ci s’imbatte nelle cupole appuntite della cosiddetta Moschea Rossa, la cui forma vagamente simile alle riconoscibili “cipolle” della tradizione Musulmana viene coadiuvata da un singolare cromatismo delle linee geometricamente sovrapposte; scelta chiaramente insolita dell’architetto Habibu Lebbe Saibu Lebbe che ne curò il progetto a partire dall’anno 1908, con l’intento esplicito di evocare piuttosto l’immagine di un melograno, frutto citato per tre volte nel Sacro Corano in qualità di simbolo e prezioso dono del Paradiso. Sgargiante presenza situata tra palazzi totalmente privi di ulteriori particolarità latenti, la notevole costruzione, quasi escheriana nella sua complessità inerente, incorpora dunque elementi dell’architettura indo-iranica risalente al XIX secolo, mutuata in modo indiretto dalle creazioni poste in opera durante i lunghi anni coloniali del Raj britannico. Ma essa è soprattutto la fondamentale risultanza, in modo ancor più significativo, di un’interpretazione fortemente personale del bello, quasi naïf nell’inconfondibile spontaneità del proprio autodidatta e misterioso creatore. In modo tale da costituire un faro unico all’interno del tessuto cittadino, nonché una delle attrazioni maggiormente memorabili per chi tenta di conoscere la complessa stratigrafia di Colombo dalle sue caratteristiche tangibili ed i beni culturali immanenti…

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