Uccelli concentrici cotti per 24 ore nell’arrosto a matrioska della Francia Imperiale

Ispezionando la linea quasi marziale dei suoi servitori in livrea cupa dai risvolti multicolori, Grimod de La Reynière ebbe una delle sue formidabili intuizioni “Le temps… Est venu! Mio fedele esercito, attraverso valli e ripide colline voi mi avete accompagnato. L’amichevole grugnente ami, oltre la noiosa quotidianità, avete nutrito…” Qui rivolse un cenno al piccolo maiale a capo-tavola, cui era stato servito un vassoio d’uva e mele cotogne in base a sue precise istruzioni; “Ed ora in mezzo a queste antiche mura, che furono della mia famiglia per generazioni, faremo la Storia.” Così l’avvocato, critico d’arte nonché ricco ereditiere salvatosi dall’ira rivoluzionaria grazie ai suoi ferventi libelli contro il potere costituito, si alzò da tavola, poggiando il bavaglino sulla sedia riccamente ornata. Il lungo bastone da passeggio stretto nei candidi guanti protesici per mitigare l’anomalia congenita di quelle dita maledette, fece strada giù per le scale e dietro i locali della leggendaria cucina di Villiers-sur-Orge. Dove in gran segreto, stipendiando una famiglia popolana di cacciatori ed allevatori, aveva fatto allestire un tendone simile a quello di un circo. Ma adesso maggiordomi e cameriere, finalmente, sarebbero stati messi al corrente del contenuto. Un semplice gesto spalancò il passaggio, diffondendo un’espressione di stupore tra i presenti “Osservate, amici miei, l’origine del sogno!” Con le tende aperte, la luce che inondava quell’ambiente caotico e multicolore. Un gran totale di esattamente 17 spazi recintati lasciavano vedere i variegati occupanti di una vera e propria menagerie pennuta. Da una parte uccelli selvatici, un paio d’otarde, una famiglia di tacchini, tre fagiani reali. Nei recessi all’altro lato, anatre e fagiani, una gallina faraona dall’aria perplessa e due chioccianti beccacce. Ivi accompagnate dal germano lacustre ed un piviere, accanto al tordo ed alla quaglia, il passerotto e l’allodola. E in un angolo gabbiette contenenti piccoli ortolani, allodole, canapini. A questo punto mentre già il bastone si sollevava per anticipare la rivelazione finale, il cuoco della prestigiosa magione, che si era messo al seguito del gruppo con ancora una mannaia stretta nella mano sinistra, comprese ciò di cui stava parlando il padrone il casa. “Oh, Mon Dieu… Non voglio sentire” Lasciando cadere quel metallo sferragliante a terra, si portò le mani alla bocca e agli occhi in alternanza. Ma l’effettivo desiderio alchemico del suo datore venne pronunciato pochi attimi dopo: “Dal macroscopico al microscopico. L’insieme del totale. Ciò che era molto, diventerà uno soltanto. Per la festa della settimana prossima, noi cucineremo e serviremo in tavola… Un rôti sans pareil. (Arrosto Senza Pari).
Ah, si, l’eccesso. Con la fine dell’epoca Barocca ed i duri capitoli di lotta sociale, culminati tramite l’impiego reiterato della macchina perfetta per decapitare le persone, il popolo francese si era reciprocamente convinto di essersi lasciato alle spalle ogni espletamento in contrapposizione al mero dipanarsi della quotidianità vivente. Ma se l’ascesa del grande Napoleone aveva insegnato qualcosa alla collettività ancora una volta rimasta indivisa, era che il lusso e l’eccesso non dovessero per forza essere la conseguenza di diritti acquisiti per nascita. E mentre la cucina raffinata usciva dai palazzi del potere per infondere prestigio nei nuovi ristoranti dedicati alla borghesia, trovava modo e una ragione di prosperità la particolare visione del mondo posseduta da individui davvero… Particolari…

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La labirintica magione che sarebbe diventata il simbolo dell’opulenza statunitense

Una parte significativa del successo economico per la confederazione di stati all’altro lato dell’Atlantico ha radici chiaramente definite da un punto di vista cronologico e organizzativo. Situate, con coerenza, nel periodo al termine dell’Era Vittoriana, quando il progresso tecnologico e infrastrutturale avrebbe finalmente permesso il sopraggiungere delle anelate condizioni, valide a sfruttare, collegare, rendere mansueto parte di un selvaggio territorio attraverso una manciata di generazioni, in modo non dissimile da quanto aveva avuto modo di verificarsi lungo il corso di secoli, e millenni, nella vecchia Europa. Fu del tutto imprescindibile a questo punto, nel corso della cosiddetta Gilded Age, che alcune insigni menti imprenditoriali potessero riuscire a trarne significativi profitti. Fu la nascita dei primi miliardari moderni, vista con sospetto dallo stesso scrittore che inventò quel termine, Mark Twain, il quale volle farne soprattutto un uso (è importante sottolinearlo) di tipo satirico e denigratorio. Così potenti, pieni d’influenza sul piano politico e al tempo stesso disinteressati alle traversie della gente comune, il che non significa che non avessero quantità ingenti alle proprie dipendenze, risultando inclini a condividere una parte significativa della propria quotidianità con i membri del proletariato. In qualità di servi, s’intende, delle proprie pantagrueliche residenze, spesso collocate nei quartieri di maggior prestigio di città come Boston, Santa Fe, New York. E qualche volta in luoghi molto più remoti, destinati ad essere abbinati al sostanziale prototipo di quella che sarebbe stata definita in seguito una company town.
Poiché c’è molto di simile nella gestione di un villa come questa, ad una vasta e stratificata azienda, così composta di 250 stanze, 43 bagni 65 caminetti al posto di opifici o capannoni dei macchinari. Costruita in mezzo ai monti della contea Asheville in North Carolina, per assecondare i piacevoli ricordi e le vigenti aspirazioni di un singolo depositario del potere economico supremo. George Washington Vanderbilt II, esponente più giovane della seconda generazione dopo il “Commodoro” Cornelius, provenuto dall’Olanda per costruire il proprio impero ferroviario capace di estendersi da una costa all’altra del Nuovo Mondo. Tanto da garantire ai suoi rampolli, e i successivi discendenti, non soltanto sicurezza imperitura dal punto di vista economico, ma tutto il tempo e le risorse per perseguire le proprie ambizioni maggiormente caratterizzanti dal punto di vista personale. Che nel caso di costui sarebbero giunte ad includere, guarda caso, la costruzione previa acquisizione di un terreno di 125.000 acri della più vasta residenza personale nella nazione destinata a ricevere il saliente soprannome, possibilmente a sproposito, di “Versailles Americana”. La proprietà (trad. estate) di Biltmore, il cui stesso nome in lingua sembra suggerire: [we] built more! Abbiamo costruito di più… More & more

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Il prestigio decaduto sotto la conchiglia del maestoso casinò rumeno

La sensazione tangibile del suono e il passo della Storia. Le voci stesse di quelle persone che, spendendo tempo e denaro, trasformavano il significato della vita nell’effimero momento di un trionfo. Per poi sprofondare, d’un tratto, nell’annientamento della propria stessa essenza e spirito immemore di tanta speme. “Rosso, rosso, se esce nero è la fine.” Oppure: “Solo un’altra mano, sono certo che stavolta non supererò ventuno!” E qualche volta andava bene. Altre no: la fortuna è una Dea che non fa uso della vista. Ma anche i bulbi oculari, come si usa dire, desiderano avere una parte. Ed è statisticamente provato che un luogo attraente, costruito in base a logiche che si richiamano alle proporzioni e la bellezza del mondo, conduce gli uomini a dimenticare se stessi. Spendendo. Ah, se soltanto queste mura potessero efficacemente… Tener fuori il sole di mezzogiorno e la brezza marina? Affermano d’altronde le leggende urbane, risalenti all’inizio del secolo passato, che molti furono i suicidi interconnessi alle vicende dell’edificio costruito in stile Art Nouveau sul Bulevardul Regina Elisabeta, di coloro che annegarono tra le onde o si lanciarono dalle finestre dell’antistante Palace Hotel. Al di là della singola strada più attraente della principale città portuale rumena: Constanța, luogo di viaggio per i nobili di una classe sociale ormai lontana. Dominata, in maniera imprescindibile, dalla figura di un sapiente sovrano.
Quando d’altra parte nel 1910, Ferdinando I diede il suo beneplacito alla costruzione dell’ormai desueta istituzione, essa era già un concetto tutt’altro che nuovo. Per questa piccola metropoli sul confine del mare, ambiente in cui il gioco d’azzardo figurava tra le dominanti attrazioni da oltre un ventennio, attraverso l’esistenza di due precedenti e sfortunati edifici. Il primo risalente al 1880 come un mero padiglione in legno, con due terrazze che spiccavano sulla scogliera all’ombra dello storico Faro Genovese, finché il proprietario Constantin Creangă non lo vide andare in pezzi a seguito di una possente tempesta nel 1891. Subito seguìto dal cosiddetto Cazino Constanța voluto e gestito dalla stessa amministrazione cittadina, che operò per circa una decade da una struttura anch’essa lignea, ma che viene ricordata per il possesso di una certa unicità architettonica ed indubbio fascino visuale. Benché le dimensioni e capienza non fossero probabilmente giudicate sufficienti, se è vero che già nel 1903, un gruppo d’influenti figure locali si misero d’accordo affinché anche la loro comunità potesse usufruire del tipo di palazzo del gioco d’azzardo costruito recentemente a Montecarlo, per volere del Principe Carlo III. Ma fu quella l’inizio di un capitolo, per quanto produttivo, non del tutto scevro di ostacoli sulla realizzazione dell’idea di base…

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La cubica vettura in parte camper, per il resto antica Ford Model T

È un’astrazione di matrice fondamentalmente moderna, l’idea che il viaggio possa costituire un’attività di svago, piacevole e divertente. Avventuroso, impegnativo, illuminante e spesso fonte di pericoli inaspettati, un tempo muoversi dal proprio luogo di nascita costituiva l’impresa di coloro che, pronti a rischiare la propria incolumità, avevano soppesato i pro ed i contro di una vita sedentaria, scegliendo per se stessi un destino alternativo. E d’altra parte non tutte le destinazioni potevano essere raggiunte via mare, a bordo di scafi dotati di cabine e almeno la parvenza di opportuna confortevolezza e praticità abitativa. Per quanto nobili o potenti, così come persone benestanti appartenenti al mondo della cultura, potessero dotarsi di carrozze imponenti, la loro dotazione a bordo non era mai paragonabile a quella di un salone costruito su solide fondamenta. Le cose cominciarono a cambiare, fondamentalmente, grazie all’invenzione dei primi motori: così il Duca Costantino Petrovich di Oldenburg, nei suoi spostamenti attraverso la Francia, si era fatto costruire nel 1896 una sofisticata diligenza, trainata non da un gruppo di cavalli bensì un veicolo a vapore. L’organizzazione degli spazi, completa di letti ribaltabili, armadi a scomparsa e spazi ove rilassarsi durante il tragitto, avrebbero fatto molto per mostrare il sentiero necessario a far progredire un tale campo tecnologico dalla sensibilità rinnovata. Soltanto 18 anni dopo, avremmo avuto questa: una letterale casa su quattro ruote, tutta in uno, dove l’eleganza era una parte integrante della funzionalità. Così come una coerenza progettuale in cui ogni singolo dettaglio, dai fari appesi esternamente alla buca per le lettere prevista per la “porta principale”, passando per le tende alle finestre rigorosamente quadrangolari, contribuivano a un’estetica quasi fiabesca nel suo complesso. Capace di apparire, al giorno d’oggi, piacevolmente retro-futuristica, come un pezzo di tecnologia mostrata in un cartone animato sulla “comoda” vita degli Antenati. Si tratta di CR 4134 del 1914, come viene chiamato in funzione della propria targa (non è chiaro se possa essere ancora omologato) il camper one-off costruito dalla compagnia britannica Baico a partire dall’umile ed ubiqua Ford Model T, con un corpo in legno di pino assemblato dalla Dunton di Reading. Il tutto su specifica commissione della facoltosa famiglia Bentall, proprietaria dell’omonima catena di grandi magazzini di lusso. Una letterale capsula temporale motorizzata dunque, vecchia un secolo e venduta con grande rilevanza mediatica un paio di estati a questa parte durante una grande asta indetta dalla Bonhams, ad un compratore anonimo che giunse ad investire la cifra di 63.250 sterline per possederla. Troppo? Troppo poco? Ai posteri l’ardua sentenza. Ah, i posteri siamo noi! Vorrà dire che dovremo, a questo punto, Contestualizzare…

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