Quando l’orgoglioso stratega e spadaccino Kusonoki Masashige decise nel 1333 di schierarsi al fianco dell’Imperatore escluso dal potere temporale Go-Daigo, per l’influenza del potente governo shogunale, egli sapeva che accettando il ruolo di governatore di due province faceva il proprio ingresso all’interno di un campo condannato alla sconfitta, di fronte alle potenti truppe del clan Ashikaga. Egli lo fece sulla base di un profondo senso del dovere e la sincera convinzione che difendere ed assecondare il Figlio del Cielo significasse rimanere dalla parte giusta della Storia, in un mondo che aveva ormai dimenticato gli antichi ideali. Così che tre anni dopo, circondato a Minatogawa dai nemici assieme agli ultimi 50 dei suoi cavalieri tra cui il fratello Masasue, dopo una serie di ordini tatticamente errati ricevuti dal suo signore, i due Kusonoki sono riportati aver stretto in pugno le spade e sollevato il grido finale: “Shichisei hokoku! – 七生報國” Ovvero letteralmente: “Vorrei avere sette vite da donare (all’Imperatore)!” Sconfitto, ucciso e molto probabilmente decapitato, come si faceva al tempo per poter attribuire i meriti alla conclusione dei conflitti, questa figura venne tuttavia elevata successivamente al rango ideale di perfetto samurai, disposto ad accettare la sconfitta pur di rispettare i presupposti del suo giuramento. E non è certo un caso se un particolare tipo di stendardo dorato dalla forma circolare, chiamato kikusui (菊水 – crisantemo) sarebbe stato associato a partire da quel momento alla figura di questo importante personaggio storico, ispiratore d’innumerevoli romanzi ed altre opere d’ingegno dell’intrattenimento letterario contemporaneo. Un’insegna portata montata con fierezza, tra le altre cose, su appena una manciata delle navi della Flotta Imperiale all’apice del secondo conflitto mondiale, quando riuniti sotto il vessillo del divino discendente della Dea del Sole, gli eredi filosofici di tali eventi cavalcarono di nuovo incontro a forze numericamente preponderanti. Una consapevolezza pienamente chiara agli uomini del consiglio di Stato Maggiore che dovettero pianificare l’attacco di Pearl Harbor il 7 dicembre del 1941, e successivamente quello che potremmo definire il tentativo d’arginare l’avanzata inesorabile di un vespaio di furia e acciaio proveniente dagli Stati Uniti, come palesato dalle scelte ingegneristiche compiute per la nuova classe di navi da battaglia varata a seguito del varo appena una settimana dopo quel selvaggio bombardamento. La cui prima esponente e più famosa tra le due che furono effettivamente realizzate, la Yamato delle Industrie Navali di Kure nei pressi di Hiroshima, era più grande, meglio corazzata, più pesantemente armata di qualsiasi altra corazzata costruita fino a quel particolare frangente e a dire il vero, qualsiasi altro a venire. Con le sue oltre 71.000 tonnellate a pieno carico, tali da richiedere notevoli modifiche e l’ampliamento del bacino di carenaggio dove era stata costruita in gran segreto nel corso degli ultimi tre anni, al concretizzarsi delle politiche ultra-nazionaliste ed isolazioniste di un paese fermamente intenzionato a controllare l’intera zona geografica dell’Asia Orientale. Così potente, e così dannatamente veloce (fino a 27 nodi o 50 Km/h) al costo di 70 tonnellate di carburante l’ora, che avrebbe potuto facilmente raggiungere una posizione tale da colpire ed affondare una possente classe Iowa della marina statunitense, anche con un singolo colpo della sua batteria principale, composta da nove cannoni su tre torrette del calibro di 46 centimetri, semplicemente i più grandi mai montati sopra il ponte di una nave. Per cui comunque fosse andata a finire l’avventura nel Pacifico dei giapponesi, una cosa era certa: non esisteva ancora sulla Terra una singola nave capace di sconfiggerla in un onorevole duello ad “armi pari”. Oh, quante vittime fece la hubris, ovvero il tragico orgoglio dei feroci guerrieri…
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La sacra coppa che fu perduta e ritrovata, diventando l’emblema museale d’Irlanda
“Sbrigati, il bastione del forte non terrà ancora per molto!” Il giovane Coll, con il lungo coltello stretto nella mano sinistra, in assenza del fodero lasciato in casa nella fretta di raggiungere il rath, guardava ansiosamente verso la porta dell’oratorio quadrangolare in legno lavorato, mentre il fratello Sean, secondo aiutante del sacerdote del villaggio, apriva l’armadio con i paramenti, tirandone fuori il calyx ministerialis, singolo oggetto più sacro dell’intero insediamento. Costoro erano i due più giovani membri della milizia e figli di famiglia nobile, inviati a svolgere il doloroso compito proprio perché ritenuti, a torto o ragione, i meno utili nel breve assedio che stava per cominciare contro i razziatori provenienti dal golfo di Corryvreckan, forse gli stessi che avevano attaccato il celebre monastero di Lindisfarne. Uomini spietati, vestiti di metallo e con alti elmi conici, che secondo le storie dei viaggiatori molti avevano iniziato a chiamare i “vichinghi”. Uscendo in tutta fretta dal basso e finemente ornato edificio, Coll fece segno di fermarsi, mentre osservava di sfuggita per un’ultima volta il meraviglioso oggetto, donato con gran sfarzo al capoclan di Ardagh dal suo Re legittimo, a seguito dell’aiuto ricevuto nell’ultima campagna militare con il tuatha (piccolo dominio) confinante. La coppa usata per dire messa, e principalmente costruita in argento, oro, bronzo e vari smalti colorati, conteneva una quantità di altri metalli che nemmeno in due, sarebbero stati in grado d’identificare al di là di ogni ragionevole dubbio. Ed in quel giorno fatidico, nel sesto mese del 723° anno dalla morte e resurrezione di Nostro Signore, essa sarebbe stata sepolta, per salvarla dal pericolo più grande: quello di cadere in mano a predatori spietati ed infedeli, per finire tra i tesori di una stretta e lunga nave di ritorno nell’oscuro settentrione innevato. Così Sean, guardandolo dritto negli occhi, fece un cenno inequivocabile, verso la fossa già preparata coi principali oggetti di valore dell’insediamento. Proprio lì sotto la vecchia quercia, dove un altro calice di bronzo si trovava in attesa, assieme a vari gioielli tra cui le grandi spille circolari dei due esattori delle tasse, inviati qui dal sindaco prima di prendere anche loro le armi. Con la massima deferenza, i fratelli posarono la reliquia tentando d’ignorare i suoi della terribile e disperata battaglia. La vanga, d’altra parte, era ancora lì accanto. Quindi una volta completata l’opera Coll, impugnando saldamente il coltello, alzò lo sguardo oltre le mura circolari del rath: già la punta di un’ascia ed una spada sporgevano oltre il bordo della palizzata. Suo fratello aveva in mano un piccolo arco da caccia, materializzatosi chissà da dove. Era l’ora di tentare il tutto per tutto, dimostrando la propria forza d’animo e convinzioni contro i barbari alle porte della civiltà. A Dio piacendo, nella speranza di essere presi come schiavi e forse, un giorno, ritornare a conoscere la libertà. E forse tornare fino a qui, uomini diversi. E ancor più saldi nella propria fede nei confronti della Provvidenza.
Lieta e pacifica, l’Isola Verde probabilmente non lo era più stata, fin dal posizionamento dei primi vessilli sulle alte colline, strumenti validi all’aggregazione di gruppi sociali in grado di riconoscersi in un antenato comune, con la ferma intenzione di combattersi per delineare i limiti dei propri territori. Ma il tipo di crudeltà e conflitti che questi abitanti poterono sperimentare per la prima volta attorno al sesto e settimo secolo, assieme al resto delle isole britanniche, furono di un tipo e una portata totalmente diverse. Tale da giustificare, in più di un caso, il tentativo di seppellire i propri averi più importanti, nella speranza di un domani migliore. Un giorno che talvolta non aveva proprio alcun modo, né ragione di venire a manifestarsi…
Visioni della macchina che aspirerà le vaste risorse minerarie dei fondali marini
Mentre il mondo si prepara per l’obbligatoria transizione verso forme d’energia maggiormente pulite, c’è una problematica domanda insiste sulle delicate operazioni tecnologiche di aggiornamento di risorse ed infrastrutture: da dove, esattamente potremo procurarci i materiali necessari? Tutto quel nickel, rame e cobalto, che l’umanità ha dovuto utilizzare fino ad ora per la produzione di motori elettrici e batterie. Ma su scale relativamente più gestibili di quelle che stanno iniziando a profilarsi all’orizzonte. Non che questa Terra, allo stato attuale dei fatti, sia ancora arida e del tutto priva di risorse. Sebbene urti l’immaginazione, e decisamente non poco, l’ipotesi futura di colossali miniere a cielo aperto, che deturpano il paesaggio e inquinano ancor più degli autoveicoli che stavano iniziando a scomparire dalle strade. Si dice che le profondità oceaniche ci siano meno conosciute delle remote distanze cosmiche attraverso lo spazio esterno. E come tutte le frontiere, nascondono risorse significative pronte da essere semplicemente prese allungando una (lunga) mano. Perciò, nessuno potrà dubitare che ivi alberghi una possibile risoluzione del problema. A conto di poter fare affidamento su importanti progressi procedurali e tecnologici, per semplificare quello che altrimenti rischierebbe di diventare uno dei processi più difficoltosi, ed improduttivi, dell’odierna economia di scala.
Quando si affermava anticamente che le strade erano letteralmente lastricate d’oro e argento nel cosiddetto Nuovo Mondo, si trattava largamente di una metafora. Eppure non sarebbe poi così lontano dalla letterale verità dei fatti dire lo stesso delle remotissime profondità marine, oltre i cinque, seimila metri dalla luce del Sole, ove nel corso di millenni ha avuto modo di svilupparsi un fenomeno dall’andamento alquanto singolare. Col che intendo l’ancestrale accumulo, per effetto dei venti e rigurgiti geologici a partire dai camini termali, di un’infinità di particelle di metalli pesanti, soprattutto manganese, successivamente in grado di costituire al giro dei millenni delle tipiche concrezioni botroidali. Ovvero in altri termini, oggetti bitorzoluti della dimensione approssimativa tra quella di un uovo e una patata, letteralmente disseminati come si trattasse di affascinanti oggetti del desiderio. Carichi di opulenza e straordinarie opportunità. Da qui i tentativi già effettuati, i primi dei quali risalgono all’inizio degli anni ’70 ad opera di varie compagnie multinazionali, di sollevare in qualche modo tali oggetti soprattutto nella prossimità delle coste, in maniera analoga a quanto fatto in alcune località produttrici dei diamanti marini africani. Senza tuttavia riuscire mai a trovare un approccio sistematico realmente efficiente, causa le notevoli capacità logistiche incipienti in simili circostanze di procura. Almeno fino a questi ultimi anni. Come apprezzabile dal video qui prodotto nel 2019 dal MIT di Boston, in cui il Prof. Thomas Peacock ci descrive con un l’ausilio di una grafica 3D gli ultimi progressi, e quella che potrebbe costituire una vera e propria avanguardia, di una delle industrie nascenti che potrebbero caratterizzare i restanti tre quarti del XXI secolo: l’attività mineraria in acque profonde o deep-sea mining, come preferiscono chiamarlo i nostri amici e colleghi d’Oltremare…
Le molte risorse inaspettate del Crusader, ultimo aereo che andava a caccia coi suoi cannoni
Si tratta di una storia ripetuta più volte nei trascorsi dell’aviazione americana, con un particolare senso di umiltà e reverenza nei confronti della possibilità di diventarne il prossimo protagonista. Come una sorta di monito, verso l’evenienza di commettere lo stesso errore per riuscire, auspicabilmente, a raccontarlo. Eppure nonostante ciò, illustrativa di un certo senso di giustificata fiducia, nei confronti dell’ingegneria applicata alla progettazione di un aeroplano eccellente. Affidabile e capace di cavarsela in svariate situazioni limite, come le svariate volte durante la guerra del Vietnam in cui un Vought F-8 Crusader ebbe modo di tornare alla base nonostante i danni riportati in combattimento. Oppure tutte quelle, ancor più deleterie, in cui il pilota di turno saltò a piè pari una delle voci che potremmo giudicare come Fondamentali nel novero della sua checklist di decollo. Qualcosa di assolutamente tangente, come “girare la manopola che controlla l’abbassamento delle ali”, ma soltanto al completamento delle suo tragitto tra i viali della base o sull’angusto ponte di una portaerei. E dopo tutto, come biasimarlo? Si tratta di un passaggio da compiere all’ultimo momento ed a tutti è capitato di distrarsi almeno una volta nello svolgimento delle proprie mansioni professionali. D’altra parte, sarebbe assolutamente lecito aspettarsi di andare incontro a conseguenze particolarmente deleterie in siffatte circostanze, non potendo far altro che eiettarsi con il seggiolino e una breve preghiera di poter assistere all’alba di un altro giorno. Se non che in almeno due casi celebri e documentati, il primo presso l’aeroporto di Capodichino a Napoli, ed il secondo nel campo di volo a Miramar, San Diego, gli eventi collegati a questo aereo ebbero modo di prendere una piega totalmente all’opposto. Col protagonista della vicenda non soltanto in grado di decollare agevolmente, nonostante la significativa riduzione della sua portanza ma persino manovrare (con qualche difficoltà) fino all’allineamento per il ritorno sulla pista. Ed appoggiare il carrello di un aereo sano e salvo nuovamente sul terreno, ringraziando lungamente la benevolenza degli Dei del cielo.
Ridondanza delle facoltà è per questo la parola d’ordine, nella particolare configurazione aerodinamica del velivolo notoriamente soprannominato come the last gunfighter, per il suo impiego ideale nell’intercettazione di nemici ad alta quota facendo uso primariamente dei cannoni automatici di bordo, quattro potenti Colt Mk 12 da 20 mm di calibro. Montati ai lati della fusoliera lunga ben 17 metri, ovvero abbastanza perché un atterraggio di tipo convenzionale rischiasse di urtare il suolo col motore situato nella parte posteriore, un singolo Pratt & Whitney J-57-P-12, poi sostituito con il più potente J-57-P-20. Ragione valida per l’inclusione tra le sue caratteristiche di un’originale accorgimento, consistente nella cosiddetta ala ad assetto variabile: un dispositivo idraulico capace di sollevarla ruotandola di esattamente 7 gradi. Abbastanza da aumentare la capacità di stare in aria a bassa velocità, ma anche e soprattutto massimizzare la visibilità per il pilota permettendo di tenere la cabina orientata verso il terreno. Non certo l’unica, né maggiormente degna di nota, tra le doti di questo bolide d’acciaio dal notevole successo operativo…