Nove piani per emergere dalla pagoda incorporata nella nuda roccia dello Yangtze

Le opere architettoniche del passato possono venire spesso collocate lungo un asse lineare, dove gli edifici di maggior rilievo ed imponenza devono aderire a dei particolari canoni esteriori e funzionali, dettati dal senso comune che determina il flusso di risorse e forza lavoro. Laddove all’altro capo dello spettro, trovano collocazione le opere vernacolari imprevedibili o realmente spontanee, difficilmente in grado di oltrepassare le dimensioni di una residenza di famiglia o il monumento costruito da una piccola comunità rurale. Nel caso in cui il potere assoluto risieda nella visione e il gusto di un singolo individuo, tuttavia, ogni cosa può riuscire a palesarsi, a patto di disporre di maestranze dalle capacità sufficientemente navigate. E nessuno potrebbe dubitare che nella contea cinese di Chongqing, durante il regno dell’Imperatore Xianfeng dei Qing (1831-1861) simili speciali condizioni avessero trovato il modo di convergere a tutti gli effetti. Come reso evidente dall’antico complesso in pietra di Shibaozhai (石宝寨 – Preziosa Fortezza di Pietra) lungo il fiume Yangtze, destinato a ricevere una mistica “pagoda” di nove piani dalle caratteristiche pareti rosse e finestre circolari. Per cui le virgolette appaiono del tutto motivate, giacché una tale classe d’edifici tendono generalmente a prevedere una pianta ottagonale o quadrata, oltre ad uno spazio tutto attorno per riuscire ad ammirarne l’altezza. Laddove qui siamo di fronte ad un costrutto che si appoggia e al tempo stesso fa un sapiente impiego della ripida collina retrostante, un rilievo dell’altezza di 200 metri con in cima il tempio dedicato al bodhisattva Manjusri. Essendo giunta a costituire, nei termini coévi, l’iconica Piccola Penglai (蓬莱山) o Terra Mistica degli Immortali ma anche una versione antesignana con le sue ripide scale degli odierni ascensori montani, largamente utilizzati in epoca contemporanea per permettere ai turisti di apprezzare alcuni dei panorami più eccezionali della Cina. In sostituzione dell’antico metodo secondo cui, per lunghi secoli, i visitatori di tale luogo avrebbero dovuto arrampicarsi su un ripido sentiero aiutandosi con una lunga catena. Nessuno aveva mai pensato, d’altra parte, che un luogo simile al tempo del su primo utilizzo potesse costituire un giorno l’attrazione turistica principale della sua intera regione, nonché un patrimonio classificato al più alto livello del repertorio nazionale…

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Gunung Padang, il vulcano sacro che affascina gli appassionati delle civiltà perdute

Tra le molte colline coniche di Java, ricoperte di antico materiale magmatico e una folta vegetazione, ne spicca una per importanza culturale attraverso i secoli, o persino millenni di storia delle genti di Nusantara. Un termine, quest’ultimo, che ha origine nel XIV secolo, dalle cronache dell’impero dei Majapahit, il cui sovrano Gajah Mada aveva giurato di “Non mangiare cibo speziato fino alla conquista dell’intero arcipelago (indonesiano)”. Oggi associato strettamente alla nuova capitale istituzionale costruita nel settentrione del Borneo per sostituire la sempre più inondata Giacarta, forse il primo grande centro abitato della Terra destinato a soccombere al riscaldamento climatico globale. Ma che indica allo stesso tempo una cultura sincretistica, capace come molte altre dell’Asia di riuscire a coniugare culture e filosofie nettamente distinte, verso la convergenza di usi e costumi almeno in apparenza parte di un’identità comune. Vedi l’abitudine degli abitanti di Karyamukti, nella parte occidentale dell’isola Verde d’Oriente, siano costoro buddhisti, animisti, musulmani o persino praticanti di particolari discipline fisiche come le arti marziali, a recarsi in pellegrinaggio presso Gunung Padang, la montagna sacra non troppo distante dalla popolosa cittadina di Cianjur. Un sito panoramico ma anche punto di riferimento archeologico, per la presenza segnalata alla scienza nel 1890 di quattro evidenti terrazzamenti sovrapposti, collegati da una serie di scale scolpite nella pietra andesitica e macerie di colonne dello stesso materiale, nonché mura crollate ed almeno un altare dal suono armonico, se colpito, soprannominato batu kecapi, ovvero liuto di pietra. Un complesso cui datazione già da lungo tempo mette in disaccordo gli scienziati di molte nazionalità distinte. Questa per l’impossibilità, in assenza di prove pratiche, di associarlo inconfutabilmente al re semi-leggendario Siliwangi, che si dice sarebbe giunto in questo luogo all’incirca un secolo dopo Gajah Mada, per costruire con l’aiuto degli spiriti del Cielo e della Terra un maestoso palazzo “nel corso di una singola notte”. Laddove l’effettivo aspetto del monumento distrutto dal passaggio dei secoli, e soprattutto del suo aspetto ipotetico ragionevolmente ricostruito, sembrerebbe avvicinarlo piuttosto al concetto di punden berundak, un tipo di tempio a gradoni edificato dagli originali abitanti dell’area maleo-polinesiaca, presumibilmente al fine di ospitare le spoglie mortali, assieme allo spirito, degli antenati. Ragion per cui, probabilmente, Gunung Padang è stato lungamente caratterizzato nelle narrazioni folkloristiche come un cimitero, sebbene non esistano collegamenti pratici ad una simile funzione pregressa. Il che non si avvicina neppure al volo pindarico compiuto, a partire da uno studio del 2011 del geologo Danny Hilman Natawidjaja, da una parte del mondo accademico locale col sostegno delle istituzioni locali, per riqualificare il rilievo come una possibile costruzione interamente frutto di mani umane; quella che avrebbe potuto o dovuto costituire, in altri termini, la singola piramide più antica edificata da mani umane…

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La quiete dopo la colata lavica, nell’imperturbabile parcheggio della Laguna Blu islandese

La stampa internazionale ama le parole agglutinanti dal suono caratteristico ed oriundo, come Sundhnúkur: sul finire dell’anno passato, assurta di nuovo, per ragioni di tipo geologico, al preoccupato podio del senso comune. Difficile non applicare un’espressione ricorsiva, dal punto di vista del paese più a settentrionale dell’Atlantico europeo, alla copiosa fuoriuscita dell’ennesima copiosa striscia di pietra fusa, fuoco e fiamme. Evento eccezionale, atipico, terrificante, insolito, per chiunque altro. Ma non le 393.000 persone che vivono sul suolo totalmente vulcanico, di una terra emersa non più antica di 20 milioni di anni. E perciò capace di vibrare quasi quotidianamente, al sommovimento di ciò che riempie le tenebre di quel sottosuolo avìto. Eppure addirittura in quel contesto, la prolungata situazione vissuta per gli ultimi 12 mesi nella penisola di sud-ovest Reykjanes ha caratteristiche profondamente insolite, al punto da aver mantenuto una posizione di preminenza nei notiziari locali per un periodo mediamente superiore alla stragrande maggioranza degli eventi simili; per la vastità del territorio colpito, l’ampiezza delle crepe formatesi all’interno di esso e la quantità di fuoco e fiamme, che hanno continuato a illuminare il paesaggio notturno d’Islanda. Nonché la maniera in cui, per un gran totale di cinque volte al conteggio attuale, questi eventi hanno portato la provincia a dover chiudere una delle proprie attrazioni turistiche di maggior rilievo: i famosi bagni termali della Bláa lónið (Laguna Blu) un bacino artificiale dalle rinomate capacità terapeutiche, in funzione delle sostanze minerali che costituiscono la parte maggiore del suo fondale. Fino al caso limite delle ultime 24 ore, capaci di generare una contingenza probabilmente destinata ad avere conseguenze maggiormente significative per l’utilizzabilità del sito. Visto il modo in cui la notte scorsa, sfuggendo agevolmente al perimetro delle costose barriere disposte sul tragitto calcolato della sua colata, il flusso lavico si è spinto fino alle propaggini dell’area di parcheggio lungo il ciglio della strada Grindavíkurvegur. Perciò dove l’asfalto un tempo campeggiava immoto, ordinata periferia della viabilità veicolare, il crepitìo rombante si è protratto mentre come nel frangente apicale di una tragedia epica, la montagna si faceva innanzi. Trascinando via i lampioni, distruggendo le strutture dei supervisori, ricoprendo con milioni letterali di tonnellate ogni singola cosa. Dopo di che, il silenzio.

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Il convitto costruito all’ombra di un mistero della Preistoria inglese

Eccezionalmente diverso risulta essere il concetto di “scuola pubblica” tra la maggior parte dei paesi europei e l’antica, immutata tradizione delle isole inglesi. Dove tale termine è impiegato al fine d’indentificare, tra le alternative prestigiose delle Isole, un tipo d’istituto con dormitori semi-permanenti, dove gli scolari impegnati a trascorrere la seconda decade della propria esistenza vengono inviati per trascorrere alcuni degli anni maggiormente memorabili, non per forza piacevoli, del proprio percorso di studi. Pensate a Hogwarts di Harry Potter, ma con meno cappelli magici ed un maggior numero di membri del clero. Tanto che, in effetti, anticamente questo tipo di esperienza era praticamente irrinunciabile per i giovani aspiranti intenzionati a fare parte di un qualsiasi ordine monastico, benché proprio l’aggettivo pubblico nel nome intendesse evidenziare l’apertura delle porte a esponenti di qualsiasi estrazione sociale o credo religioso. Purché, s’intende, fossero e siano tutt’ora capaci di pagare la retta annuale. Pari a circa 16.000 sterline, secondo il conteggio attuale, per il Marlborough College del Wiltshire, scuola fondata nel 1843 all’interno di un capiente edificio che era stato una locanda, e prima ancora l’ultimo residuato di un cadente castello normanno. Caratteristica senz’altro peculiare, ma neppure di gran lunga la più antica o interessante di un tale luogo. Essendo il cortile utilizzato per vari sport, tra le altre cose, dominato da una distintiva collinetta dell’altezza di 18 metri e un diametro di 83. La cui costruzione collegata in base a una credenza popolare al luogo di sepoltura di un altro tipo di mago (dal motto cittadino in lingua latina: “ubi nunc sapientis ossa Merlin“) è stata fatta risalire, attraverso datazioni effettuate nell’ultimo ventennio, ad un’epoca non troppo diversa dai 5.000 anni che ci separano dal più celebre, non lontanissimo sito di Stonehenge. Ecco dunque un altro esempio di quell’attiva e precoce società neolitica, che millenni prima della nascita di Cristo seppe porre in essere ragioni il tipo di cooperazione tra villaggi/tribù o famiglie in grado di lasciare monumenti resistenti al passaggio inarrestabile delle generazioni a venire. Probabilmente collegati a finalità di tipo ritualistico il cui effettivo svolgimento, ad oggi, resterà per sempre un mistero. Il che non ci ha impedito, in molteplici circostanze, di elaborare ipotesi di vario tipo. Non sempre corrette: vedi la maniera in cui almeno fino al 2008 schiere di studiosi e storici si fossero schierati per l’ipotesi che il Colle di Malborough non potesse costituire altro che la motta castrale della fortificazione medievale scomparsa, fatta costruire originariamente da Guglielmo il Conquistatore a Roger, il vescovo di Salisbury. Un edificio costruito e rinnovato nel corso dei secoli quasi esclusivamente in legno, pur costituendo al tempo stesso una prigione usata dalla monarchia e punto di partenza per le cacce condotte nell’adiacente foresta di Savernake. Fatta eccezione per la base del torrione principale risalente almeno al 1110 d.C, appoggiato a quella che tutt’ora costituisce il secondo maggior colle artificiale d’Inghilterra, ed il terzo in Europa…

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