Il bolide corazzato capace di sfidare le convenzioni degli anni ’30

Il Fato dà, il Fato toglie. Ciò è insito nella stessa concatenazione di causa ed effetto che governa il corso progressivo degli eventi. Ma è talvolta impossibile fare a meno di chiedersi che cosa sarebbe successo, se soltanto il battito d’ala della farfalla, alterando in maniera impercettibile il moto dei venti, avesse prodotto un effetto contrario al proverbiale uragano, impedendo il verificarsi dell’uno, oppur l’altro punto di svolta nello svolgersi di una particolare vicenda. Permettendo, per venire a noi attraverso un esempio, al rampollo ribelle Rust Heinz dell’eponima famiglia produttrice delle celebri “57 varietà di ketchup americano” fosse riuscito a superare nel 1936 l’esame presso l’università di Yale sul tema dell’architettura navale che avrebbe costituito la goccia in grado di far traboccare il vaso, portandolo a interrogarsi sul significato di un futuro già deciso dalle gesta del nonno e grande fondatore, mirante a ereditare l’azienda di famiglia senza nessun tipo di sforzo o difficoltà, né un importante lascito nei confronti del mondo. Oppure se soltanto, tre anni dopo, una fronte di bassa pressione capace di trasformarsi in alito d’atmosfera non avesse trascinato via il cappello trillby del suo amico temporaneamente al volante, di una potente Buick sopra il ponte di Westinghouse in Pennsylvania, portando quest’ultimo alla pericolosa manovra d’inversione che avrebbe portato all’impatto con un veicolo sconosciuto e il conseguente ferimento di cinque passeggeri, oltre alla morte di lui, l’uomo che alla tenera età di 24 anni aveva già una moglie, un figlio e un’idea (forse) capace di cambiare il mondo.
Già perché quando un pluri-miliardario per nascita decide di lasciare il nido e gettare via le catene imposte dalla sua eredità, generalmente, lo fa con un piano preciso e un progetto capace di garantire la propria indipendenza, pena il compiersi di un gesto del tutto privo di significato. E caso vuole che la passione, nonché il sole nascente del giovane Mr. Heinz fossero le automobili, particolarmente quando potenti, esteticamente notevoli o dotate di una qualsivoglia caratteristica fuori dalle normali concezioni veicolari precedentemente acquisite. Come la formidabile Cord 810 della Auburn Automobile con cambio automatico, fari a scomparsa e ben 125 cavalli di serie, prodotta nello stato dell’Indiana, al volante della quale aveva lasciato il Connecticut per recarsi ad Hollywood, come tanti altri giovani della sua generazione, con le stelle a brillargli negli occhi e il fermo desiderio di realizzare il Grande Sogno Americano. È cognizione ormai largamente acquisita il fatto che a questo punto, un tale personaggio avesse già ben chiara nella mente, se non addirittura disegnata all’interno della sua valigia, quella che sarebbe in seguito diventata la Corsair Phantom, una delle concept car capaci di lasciare il più indelebile segno nello stile e i propositi progettuali dell’intero terzo decennio del ‘900. Nonostante l’inaspettato concludersi della sua vita, per l’imprevedibile quanto fatale incidente, avrebbe portato la rilevante avventura ingegneristica a concludersi con la produzione del solo prototipo. Ma di che automobile stiamo parlando, signori miei!

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Ai confini di New York, ossa di cavallo e sogni smarriti nel mare di spazzatura

Per lunghi anni schiere di sociologi hanno teorizzato l’esistenza, da qualche parte, di un nucleo centrale nel vasto contesto iper-urbano della città di New York. Il mozzo della ruota, o se vogliamo, il torsolo della (grande) Mela, ove trovare finalmente sublimato quel principio estremamente pervasivo che sin dall’alba dei tempi porta l’uomo, in ogni suo momento, a perseguire l’utile finalità dell’aggregazione. In luoghi come Manhattan, Brooklin, Queens… Presso i viali ordinatamente alberati, all’ombra dei grattacieli, tra i recessi zigzaganti del sempre affascinante Central Park. Ove la gente è più felice o in qualche modo, pronta a condividere i propri momenti nel tentativo di amplificare la soddisfazione generale del momento presente e tutto ciò che in qualche modo, può derivarne nell’immediato o più remoto futuro. Mentre nel frattempo, un consorzio maggiormente eclettico di studiosi, filosofi, artisti e cacciatori di tesori, hanno scelto di porsi un differente tipo di domanda. Con la finalità di comprendere, dal canto loro, il Come piuttosto che il Perché, giungendo in forza di ciò presso i recessi non propriamente gradevoli di un Dove dall’aspetto estremamente diverso. Luoghi come Barren Island (l’Isola Desolata) e il braccio di acqua salmastra che la fronteggia inondato d’inconoscibili rifiuti e chiamato convenzionalmente: Dead Horse Bay (la Baia del Cavallo Morto).
Ora immagino, comprensibilmente, che l’impiego di nomi carichi di suggestioni tanto inquietanti possa lasciare sorpreso un abitante come noi, del paese più bello e assolato del mondo, benché all’interno della concezione pragmatica di una soluzione urbanistica statunitense, dedicata a risolvere un problema estremamente reale, una simile cognizione assuma le tinte di una ben più plausibile verità. E dire che fino all’inizio del XVII secolo, l’intero piccolo arcipelago d’isolette note come Outer Barrier (Barriera Esterna) facenti parte dell’originale terreno “acquistato” dai coloni europei dietro risibili concezioni alle popolazioni native dei Lenape, erano rimaste l’area maggiormente incontaminata tra tutti i recessi dove l’Uomo Bianco, per presunto diritto divino, aveva scelto d’edificare le proprie svettanti strutture architettonicamente rilevanti. Finché attorno al 1850, alla brava gente di questi luoghi non venne in mente il modo in cui un luogo simile potesse costituire a tutti gli effetti l’ideale per confinarvi tutte quelle attività industriali che, in un modo o nell’altro risultavano sgradevoli nei confronti della popolazione. Luoghi come concerie di pelli maleodoranti, macellerie d’interiora, impianti per la processazione dei menhaden (Brevoortia patronus) tipici pesci di queste coste considerati così poco pregevoli da essere impiegati, comunemente, in qualità di fertilizzanti e soprattutto, più d’ogni altra cosa, tutte quelle industrie incaricate, in un modo o nell’altro, di trattare le carcasse d’animale recuperate per le strade della più importante città costiera dell’Est dopo la fine dell’epoca bostoniana. Verso la fine di quel secolo, quindi, l’Isola Desolata diventò la base di un’attività industriale a suo modo florida, benché le continue inondazioni del territorio paludoso, frane impreviste e tempeste provenienti dall’Atlantico avessero la problematica abitudine di spazzare via gli edifici barcollanti costruiti a tal fine. Venne quindi costituita una sorta di casta composta da circa 1.500 persone all’apice, largamente immigrati o persone di colore, incaricata di preservare l’antica eredità di tutto quello che una città poteva chiedere, purché rimanesse appropriatamente lontano da occhi, orecchie e naso dei pari contributori di una più appariscente quotidianità. Attorno agli anni ’20 del Novecento quindi, mentre simili attività venivano spostate ancor più lontano dalla città per arginare le lamentele dei quartieri limitrofi e i gli abitanti forzosamente spostati altrove (non che avessero granché da lamentarsi, considerata la natura malsana della loro sistemazione avìta) al potente ufficiale pubblico Robert Moses, all’epoca capo della Commissione Parchi nonché detentore di una piccola collezione di altre cariche fondamentali per l’amministrazione di New York, non venne la prototipica idea geniale: raccogliere tutte le montagne di spazzatura capaci di arginare i suoi progetti di miglioramento per il centro luminoso dei distretti cittadini e scaricarla sul territorio ormai diventato inutile di Barren Island. Non soltanto creando la più vasta discarica che gli Stati Uniti avessero mai costruito a un tiro di schioppo da zone tanto demograficamente rilevanti, ma provvedendo in una fase successiva a ricoprirla di sabbia e ghiaia prelevata dalla vicina Jamaica Island, al fine di unire le due terre emerse nella creazione di quello che sarebbe diventato Floyd Bennett Field, il primo aeroporto municipale della città. Non fu necessario attendere fino all’inizio della decade successiva, tuttavia (quella del 1930) per rendersi conto di come le cose non fossero destinate ad andare esattamente nel modo che era tanto accuratamente pianificato…

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Prezzi unici: finisce all’asta il primo veicolo prodotto dalla Porsche

L’aria che converge, le luci che si spengono, un sibilo che si trasforma in educato rullo di tamburi. Con l’avvicinarsi del vertiginoso 17 agosto, data in occasione della quale, durante l’annuale asta di automobili organizzata da Sotheby’s presso la località californiana di Monterey, uno dei singoli pezzi più importanti nella storia di questo evento dovrà essere venduto soltanto per la seconda volta in oltre 60 anni, ad una cifra stimata sui possibili 20 milioni di dollari. E che affare straordinario, possiamo facilmente immaginarlo, avrà fatto il facoltoso collezionista in grado di trionfare nella più importante occasione d’acquisto della sua vita…
Mai sottovalutare, all’interno di una famiglia d’artisti, la differenza che può fare una singola generazione. Soprattutto quando i suoi componenti piuttosto che dipingere o scolpire s’interessano a quel campo estremamente trasversale che è la progettazione per l’industria. Campo che possiede ramificazioni verso l’utile, il dilettevole e talvolta addirittura il tragico, sulla base degli eventi che attraversano effettivamente la società. Era dunque il 1934, quando Adolf Hitler in persona diede l’ordine che per il giudizio postumo degli storici, sarebbe stato l’ultimo capace d’introdurre un cambiamento positivo nel mondo: rivolgendosi al suo conoscente, forse addirittura amico Ferdinand Porsche, che aveva abbandonato volontariamente le origini cecoslovacche per trasformarsi in onorario ed orgoglioso cittadino del Reich: “Costruiscimi una macchina che sia per tutti: economica, capiente, facile da guidare. Che sia per questo degna di ricevere l’appellativo di Volkswagen (Auto del Popolo)” Tutto questo prima delle bombe e dei carri armati, prima del sostegno all’industria aeronautica e delle pericolose altre creazioni che avrebbero portato un tale grande dell’ingegneria al processo e la condanna per i crimini di guerra, successivamente alla vittoria degli Alleati 11 anni dopo quel momento di svolta nella sua carriera. E verso la creazione di un fondamentale maggiolino, destinato a rivoluzionare ciò che fosse possibile aspettarsi da un veicolo economico in termini di prestazioni ed affidabilità. E sebbene la storia non racconti di un contributo particolarmente significativo al progetto da parte di suo figlio e futuro erede tecnologico Ferdinand Anton “Ferry” Porsche, che aveva all’epoca già 25 anni, la situazione cambia in modo significativo con la successiva e più importante creazione dei due, il prototipo, assemblato con un obiettivo per lo più pubblicitario, che sarebbe passato alla storia con il nome di Type 60K10 o molto più semplicemente, Porsche 64. Che risultava essere, sostanzialmente, l’erede diretta di visioni del mondo distinte…

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Titanico vapore: tutti a bordo del tirannosauro ferroviario americano

E tutti sollevavano, in maniera inconscia, il labbro superiore, lasciando entrare l’aria nel formare un’espressione totalmente rapita: l’ora, il giorno e quel momento, l’attimo infuocato del ritorno. Di un oggetto il cui valore come simbolo non può prescindere, in nessuna maniera, dal suo effetto significativo sulla materia. Avevano detto che era impossibile, il frutto di una tecnica dimenticata… Eppure, eccola qui: con 3600 tonnellate al seguito, esattamente 16 Statue della Libertà (avete mai sentito una misura maggiormente Americana?) distese in senso metaforico lungo l’estendersi di un serpeggiante binario in salita. Quello che collega Ogden, nei pressi di Salt Lake Ciy nello Utah, a Cheyenne, Wyoming, una tratta che oggi non conserva più il suo antico valore strategico di appartenenza. Soltanto uno tra molti, dunque, dei collegamenti che attraversano la parte brulla degli Stati Uniti, sul confine dei deserti occidentali; laddove un tempo questo mostro, e i loro simili, erano la fonte di ogni merce ed ogni bene di consumo ad uso popolare o meno, salvo quello che giungeva sulle coste via mare. Eppure c’è un qualcosa di marittimo, nell’enorme sagoma che taglia in due il paesaggio degli accidentati monti Wasatch, sbuffando rumorosamente vista l’enfasi del suo ritorno: forse l’alta ciminiera, circondata da una nube oblunga di vapore. Forse le 548 tonnellate di metallo, perfettamente ben distribuite, che compongono la forma complessiva del Big Boy.
Ragazzone…Un termine, un programma: tracciato a quanto dicono per pura contingenza da uno degli operai della Union Pacific, che in quell’epoca remota ebbe l’iniziativa di tracciarlo con il gesso, in barba alla definizione progettuale assai generica di “Wasatch”. La più grande locomotiva a vapore che fosse mai stata costruita su questa Terra. Il culmine ulteriore ed inimmaginabile, di oltre un secolo di perfezionamenti, correzioni, innalzamento delle aspettative del committente. Il che basta per farne, in maniera del tutto inevitabile, una produzione tarda della sua Era, ovvero il proverbiale canto del cigno, situato cronologicamente al 1941. Precorrendo di pochi attimi l’apice più sanguinario della seconda guerra mondiale. Il che significa, riuscite a immaginarlo? Che ogni singolo proiettile, carro armato, componente di aeroplano, prodotto dalle fabbriche dell’entroterra, sarebbe stato in seguito imbarcato verso il teatro del Pacifico a partire dalle sferraglianti ruote, di un così massiccio e appariscente dinosauro. Molto meno, bastò in precedenza, per delineare le caratteristiche di un simbolo della Nazione.
Gioia, giubilo e possenti grida d’esultanza. Il progetto è stato completato. E il cerchio, finalmente, chiuso in occasione del 150° anniversario della UP. Con la più eclettica, sincera e memorabile delle celebrazioni…

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