Nel tardo Medioevo in guerra, la concentrica innovazione serba del santo castello

Crescere all’ombra di una dominazione straniera non era facile nei tempi antichi per nessun abitante di un particolare contesto sociale, ma chi trovava le maggiori difficoltà a riconciliarsi con la quotidianità inerente era spesso l’effettivo sovrano della nazione. Stimato erede di una tradizione dinastica che, indipendentemente dalle prestigioso apparenze, si era scontrata lungo il suo cammino contro il duro scoglio del subordine sul campo militare, economico o situazionale. Questo avvenne per la discendenza serba dei Lazarević, successivamente allo scontro multi-generazionale con gli Ottomani concretizzatosi a partire dal disastroso scontro di Maritsa, quando nel 1371 una quantità tra i 50.000 e 70.000 soldati del regno est-europeo vennero sconfitti da appena 4.000 membri delle forze turche che li avevano colti di sorpresa durante un bivacco, giungendo a tingere per quanto si racconta le acque del fiume omonimo di un tragico color vermiglio. Il che avrebbe dato inizio ad una fase storica clientelare e d’integrazione sincretistica, fino al tentativo di riscossa nel 1389 contro il Sultano Murad I tramite l’altrettanto grande battaglia del Kosovo, con ingenti perdite da ambo le parti e che avrebbe portato al decesso del principe serbo Lazar Hrebeljanović. Il quale tuttavia aveva già un erede, suo figlio Stefan Lazarević, destinato a controllare i formidabili possedimenti familiari sul Danubio inclusa la strategica fortezza di Golubac (vedi precedente articolo). Ciò che il giovane difensore della Cristianità comprendeva fin troppo bene, essendosi visto attribuire il titolo di Despota dagli Imperatori di Bisanzio nell’ultimo decennio del XIV secolo, fu che il proprio territorio non avrebbe potuto in alcun modo rimanere integro, se non attraverso l’impiego di fortezze in grado di resistere alle frequenti scorribande messe in atto dai signori della guerra di matrice islamica sul suo confine orientale. Abile guerriero, cavaliere di una certa esperienza nonché poeta ed uomo colto, egli decise quindi d’investire una parte delle non trascurabili risorse pecuniarie di cui disponeva nella costruzione di un qualcosa che la popolazione difficilmente avrebbe visto come un’imposizione: un grande monastero ortodosso nel distretto di Pomoravlje, vicino alla città di Despotovac, che prendesse il nome di Manasija. Coinvolgendo dunque i “più stimati costruttori ed artigiani del regno” diede inizio ai lavori nel 1406, in base ai crismi visuali e ingegneristici di quella che era ormai da tempo nota come la scuola di Morava. Con un’importante distinzione pratica per quanto concerneva la raffinata chiesa posta al centro del complesso, dedicata alla Santa Trinità: una cinta muraria circostante: mura dell’altezza di 11 metri e spesse 3, con spazi e accorgimenti tali da resistere a qualsiasi tipologia d’assedio che potesse venire implementato dai suoi formidabili, inclementi vicini.

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Storia dello sforzo ad Abu Simbel, il grande tempio tratto in salvo dalle acque del Nilo

Gioia e giubilo, giungevano tra il popolo, ogni qual volta le più rosee previsioni si avveravano, e sotto lo sguardo degli agricoltori il fiume sacro fuoriusciva dai suoi argini, inondando i campi e gli ampi spazi verdi contrapposti all’arido deserto nordafricano. Giacché l’Egitto non sarebbe stato tale, senza le possenti, nutrienti piene del Nilo. E allora perché sul principio dell’Era moderna, carestie e penurie di alimenti, assieme a malattie causate da microrganismi, causarono tanto dolore ai loro remoti discendenti? Caso vuole che l’aumento di popolazione nei contesti urbani, assieme ai consumi maggiorati per il cambiamento dello stile di vita, possano causare un significativo cambiamento delle aspettative. Fino alla creazione di carenze, là dove in un altro tempo c’era solamente l’abbondanza. E fu proprio per questo che nel 1902, realizzando finalmente un piano vecchio più di 900 anni, gli ufficiali britannici costruirono una prima diga lungo il corso, in quel di Aswan, lunga quasi due Km ed alta 36 metri. Considerata “Bassa” in termini generali, eppure in grado di mostrare l’efficacia di costituire una riserva, da cui attingere le acque necessarie al sopraggiungere delle stagioni sfortunate. Fu soltanto verso la fine degli anni ’50 dello scorso secolo, con l’introduzione dell’energia idroelettrica in Egitto, che si palesò la possibilità di andare oltre. Con la rivoluzione ed il colpo di stato che portò alla deposizione di Re Faruq, il regime dei Liberi Ufficiali incoraggiò una convergenza di talenti ed esperti d’ingegneria verso la capitale. Con un piano che potremmo definire la diretta conseguenza del Progresso senza freni di contesto: l’allagamento di una buona parte della Nubia, con buona pace dei suoi stessi abitanti. Ed alcuni dei tesori archeologici più importanti del paese, degni a pieno titolo di essere chiamati un patrimonio dell’umanità indivisa.
Con l’inizio della decade suddetta, in effetti, in molti avevano già chiari gli specifici confini che sarebbero stati raggiunti da uno dei laghi artificiali più vasti al mondo, il bacino di Nasser creato dalla diga “Alta” di Aswan, un mostruoso terrapieno di 3.830 metri di lunghezza e 111 d’altezza, dotato di uno speciale terrapieno in grado di resistere all’erosione. L’inizio della fine per il già danneggiato complesso di templi di Philae, sopra l’isola omonima dove gli antichi onoravano i loro Dei. Ma la catastrofe della conservazione avrebbe raggiunto proporzioni ben maggiori nel momento in cui le acque si sarebbero trovate ad inghiottire, in modo lento ma del tutto inesorabile, l’antistante ed ancor più vasto complesso votivo di Abu Simbel, costruito da e per rendere onore ad Ozymandias in persona, il faraone Ramesse II dopo la sua vittoria sul popolo Ittita nel 1274 a.C. Allineato con il moto delle stelle e verso il fine ultimo di far specchiare il popolo locale nella gloria imperitura della monarchia egiziana. Il committente stesso, con il Nemes sopra il capo, affigurato in quattro statue colossali dell’altezza di 20 metri, che facevano la guardia all’ingresso principale. Assieme a sua moglie Nefertari che compare nel più piccolo tempio adiacente, in due ritratti dell’altezza di 10 metri, assieme ad altri quattro del faraone riprodotto in modo atipico a misura equivalente, piuttosto che maggiore. E fu così che nel 1960, tali antiche meraviglie (e molte altre) cominciarono a venire fatte a pezzi tramite l’impiego di cavi d’acciaio, mezzi pesanti e seghe diamantate…

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La musica e il dilemma: che aspetto avrebbe avuto l’immortale Lady Greensleves?

Se c’è un aspetto che accomuna la conduzione degli affari monarchici contemporanea con gli albori dell’epoca Moderna ed almeno in parte, i lunghi anni del periodo medievale antistante, è il modo in cui la linea tra pubblico e privato cessino di avere importanza nel momento in cui si getti il proprio sguardo indagatore all’indirizzo della famiglia reale. Molto spesso anche a discapito della tutela della dignità personale. Forse proprio per questo l’interpretazione tradizionale della ballata più famosa nelle taverne britanniche sul finire del XVI secolo, intitolata A Newe Northen Dittye of ye Ladye Greene Sleves vedeva soltanto due possibili interpretazioni per quanto concerne l’effettiva identità della protagonista femminile dei suoi versi: una prostituta d’insignificante lignaggio, in qualche modo sollevata dalla sua miseria grazie ai doni del suo ricco spasimante. Oppure la figlia del primo Conte di Wiltshire, discendente del secondo Duca di Norfolk, nonché seconda moglie del monarca Enrico VIII dei Tudor, Anna Bolena. Personaggio femminile problematico per la ferma posizione mantenuta durante i difficili anni della Riforma Protestante, nonché il modo senza precedenti in cui venne fatta subentrare dal consorte “per amore” alla sua prima moglie, Caterina d’Aragona, successivamente relegata ad una vita fuori dallo sguardo pubblico che gli permise assai probabilmente di sfuggire allo stesso improvvido, malcapitato destino. Poiché scegliendo infine di decapitarla in modo pubblico dentro il cortile della Torre di Londra, come strega che lo aveva indotto ad allontanarsi dai suoi amici e vecchi alleati, il re la condannava ad una seconda dannazione imperitura: quella di venire sempre ricordata, rievocata e discussa da ogni possibile strato sociale.
Da qui l’idea, probabilmente popolare già in epoca coéva, che il vero autore della ballata registrata inizialmente nel 1580 presso la London Stationer Company dal musicista Richard Jones dovesse in verità essere stata scritta dal più potente sovrano dei Tudor, descrivendo con dovizia di particolari lo struggente amore che aveva vissuto, prima dell’infelice realtà coniugale che avrebbe vissuto in seguito al sospirato matrimonio con la Bolena. “Ahime’ amor mio mi hai fatto torto / nel rifiutarmi cosi’ scortesemente / Poiche’ io ti ho amato a lungo […]” recitava infatti la prima strofa, proseguendo di lì a poco descrivendo i molti pregiati regali, che il proprietario della voce narrante aveva concesso alla sua beneamata e innominata dama “dalle verdi e lunghe maniche”. Un trucco retorico ben collaudato, attraverso cui le lamentele dell’innamorato giungevano a dipingere l’immagine di una figura splendida e riccamente ornata, favorita dalla sorte e dalla società cui apparteneva. Da qui l’idea recentemente portata fino alle sue estreme conseguenze, da parte della Società degli Antiquari di Londra, di ricostruire effettivamente con tecniche storiche l’abbigliamento che costituiva il singolo effettivo protagonista della canzone. Mediante l’uso di un eclettico quanto affiatato team di specialiste del settore…

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Pietrosa è la corona che protegge Maiorca, raro castello circolare del Medioevo europeo

Condizioni particolari, circostanze atipiche, opportunità diverse. Quando nel 1229 il Re Giovanni I di Aragona, detto il Conquistatore, giunse con la propria flotta presso la più grande terra emersa facente parte delle Baleari, controllata ormai da quattro secoli da uno degli ultimi califfati musulmani d’Europa, il potente soffio del Maestrale proveniente da nord-ovest lo costrinse a rivedere i propri piani, doppiando l’isola e scegliendo di approdare a mezzanotte nella sua estrema parte meridionale. Da lì, mettendosi in marcia con il sorgere dell’alba, in poche ore i soldati raggiunsero la città principale di Palma, esistente in varie forme fin dal secondo secolo, quando era stata fondata dai Romani. Asserragliata tra le vecchie mura non troppo solide, e colti di sorpresa senza risorse sufficienti a superare un assedio, gli abitanti vennero ben presto costretti alla resa, sebbene membri della taifa nominalmente associati al corpus politico Almohade fossero riusciti a ritirarsi tra le montagne, da dove continuarono a resistere con attacchi di guerriglia destinati a durare parecchi mesi. Fu dunque con l’aiuto ed il finanziamento dei mercanti di Barcellona, Tarragona e Tortosa, massimamente interessati a mantenere questo territorio di scambio dall’importanza niente meno che fondamentale, che il sovrano cristiano concepì il progetto per la costruzione di una fortezza edificata dai migliori architetti dell’epoca, che potesse costituire la sua residenza e al tempo stesso resistere a qualsiasi forma di attacco presente o futuro. Un’idea destinata ad essere accantonata in un primo tempo, per venire poi portata a termine dal suo figlio ed erede, Giovanni II di Maiorca. Tramite il coinvolgimento di architetti sotto il controllo del maestro gotico Pere Salvà, si decise dunque di procedere in maniera fortemente atipica, evocando nei disegni un tipo di edificio che in quell’epoca sarebbe stato associato principalmente alla città di Roma ed il dominio dei Papi: il celebre forte a forma di tamburo incorporato nelle mura Aureliane, che in precedenza era stato lo svettante mausoleo di Adriano. Benché fonti storiche e coéve, facendo riferimento alle crociate, scelgano di citare una fonte d’ispirazione geograficamente più distante, facendo piuttosto riferimento all’Erodion della Cisgiordania, antica collina costruita a sud di Gerusalemme nel I sec. a.C da Erode il Grande, sovrano di Giudea.
Qualunque fosse stata l’effettiva origine della sua forma, il complicato castello che avrebbe assunto il nome di Bellver (per il suo “belvedere” della baia e capitale isolana) avrebbe ad ogni modo richiesto molti anni per il suo completamento, giungendo ad una forma utilizzabile non prima del 1311. Diventando in breve tempo, a partire da tale data, una delle regge maggiormente atipiche ed al tempo stesso ben difese di tutta l’Europa meridionale…

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