La simbolica trasmutazione delle centomila piume nel mantello dei capi hawaiani

Fu presto scoperto dagli esploratori occidentali, interessati al commercio del legno di sandalo e le altre preziose risorse dell’arcipelago hawaiano, che trattare con i popoli polinesiani che abitavano simili terre da oltre sette secoli significava necessariamente riconoscere l’autorità divina degli aliʻi, i nobili ereditari discendenti da una stirpe di antichi sovrani, il cui nome collettivo o ancestrale ruolo nella società erano stati ormai da tempo dimenticati. Individui considerati tra i più saggi e forti nel combattimento, non soltanto grazie ad un regime familiare di addestramento privilegiato, bensì soprattutto grazie alla capacità esclusiva di assumere dentro di se il mana (potere mistico) dei loro antenati. Un diritto ed un dovere al tempo stesso, la cui manifestazione pratica veniva spesso supportata tramite il passaggio di mano di una serie di oggetti: le ossa dei padri, le effigi divine e cosa ancor più importante, una magnifica panoplia variopinta costituita dal mantello, gli ornamenti relativi e l’elmo, con una forma simile a quella di un guerriero dell’Antica Grecia o un suonatore tipico del corno tibetano. Implementi dal notevole prestigio il cui potere protettivo risultava limitato, ma il cui spettacolare aspetto poteva trarre beneficio da un processo produttivo virtualmente privo di termini di paragone al mondo. Fu dunque lo scopritore moderno dell’arcipelago James Cook, nel corso della propria terza spedizione nel 1779 che gli sarebbe stata fatale, il primo ad ammirare questi vestimenti al punto da scambiarne alcuni con ceramiche ed altri oggetti di pregio provenienti dalla madrepatria, dove in seguito essi sarebbero stati riportati e messi in mostra in un valido contesto museale. Preservando nella cultura del senso comune internazionale qualcosa che, allo stato dei fatti attuale, sarebbe altrimenti già stato accantonato, causa la difficoltà di procurarsi l’opportuna materia prima. Ciò perché il tipico mantello circolare ʻAhu ʻula, ma anche il copricapo mahiole che veniva indossato allo stesso tempo, traevano i propri risplendenti colori dall’utilizzo delle piume di una larga varietà di volatili, che risultano in larga parte oggi estinti, o prossimi a tale drammatica condizione. E prima che possiate cadere in tentazione d’immaginarne il motivo, in funzione della quantità di uccelli che dovevano necessariamente essere spennati per costruire anche il guardaroba di un capo soltanto, sarà opportuno a questo punto specificare che ancora oggi continua a trattarsi, purtroppo, di una questione ben più difficile da rimediare. Che trae principalmente origine, come tanto spesso capita, con l’arrivo presso queste coste di un certo numero di svettanti galeoni neri…

Si è spesso parlato dell’intrinseca salvaguardia della natura da parte dei popoli indigeni di molti territori nell’epoca pre-moderna, un discorso trasversalmente estesi al lungo insediamento abitativo dei navigatori provenienti nei mari meridionali in uno dei più stratificati ed omni-comprensivi universi del maggiore oceano terrestre. Laddove le considerevoli risorse delle Hawaii vennero abilmente sfruttate in maniera sostenibile per svariati secoli, un discorso allargato anche all’origine biologica dei loro pregevoli mantelli piumati. La cui esistenza era indissolubilmente legata ad un’ampia varietà di passeriformi locali, oggi collettivamente inserita nella famiglia dei fringillidi, pur trattandosi di una tribù separata dotata di caratteristiche chiaramente distinte. Chiamata dei drepanidi in lingua italiana o honeysucker (succhiatori di miele) grazie al possesso di forme del becco altamente specializzate, in taluni casi falciforme ed allungato al punto da ricordare il ben più massiccio chiurlo del contesto europeo. Con una particolare predilezione per i colori gialli e neri delle piume di due specie oggi non più esistenti, il cosiddetto ʻōʻō (Moho nobilis) e la sua varietà cognata mamo (Drepanis pacifica) il cui utilizzo veniva riservato ai nobili di più alto rango e soprattutto gli Aliʻi nui, sovrani supremi di una singola isola al di sopra dei quali nessun tipo di autorità poteva essere riconosciuta. Almeno fino all’unificazione dell’intero arcipelago grazie all’operato del Re Kamehameha I nel 1795, che si fece fabbricare a partire da quel momento un celebre mantello totalmente “dorato” (probabilmente giallo o arancione chiaro) completamente ricoperto dalle piume di questi volatili favoriti. Cui comunque si affiancava, nella pratica di tipo maggiormente diffuso, l’utilizzo da parte di aliʻi dal rango inferiore di altre tonalità, come il rosso del più piccolo e molto più comune ʻiʻiwi (Drepanis coccinea) o in certi casi meno tipici, il verde degli ʻoʻū (Psittirostra psittacea) o ʻakialoa (Hemignathus procerus). Con un uso attestato ben oltre le prime testimonianze acclarate di cui possiamo disporre tra il XVIII e XIX secolo, la costruzione dei mantelli affonda le proprie radici in nell’ancestrale utilizzo di semplici piume di rappresentanti del genere Gallus incluso il pollo domestico, finché nel contesto isolano non vennero elaborate metodologie di cattura degli uccelli volanti mediante trappole e sostanze appiccicose. Considerate, a tal proposito, che l’opera laboriosa di cucitura delle piume di un singolo mantello poteva richiederne fino diverse centinaia di migliaia oltre a mesi, se non anni di lavoro e conseguente procura del materiale. Benché le cose sarebbero state grandemente velocizzate durante il regno di Kamehameha I, con l’introduzione delle armi da fuoco nelle Hawaii ed un conseguente aumento d’efficienza in tutti i campi dell’ostilità applicata, dai conflitti umani a quelli lungamente messi in pratica nei confronti della fauna endemica più o meno pennuta. Tanto che lo stesso sovrano, con un’occhio alla continuativa esistenza dei simboli del suo potere, implementò una mora (kapu) secondo cui i drepanidi più grandi e rari dovessero essere spennati senza ucciderli, quindi immediatamente liberati. Una decisione soltanto in parte rispettata dai suoi sudditi, che avevano lungamente apprezzato a tavola la carne tenera di questi uccelli progressivamente più minacciati. Il vero colpo di grazia alla popolazione complessiva di queste creature, tuttavia, fu collaterale alla venuta degli europei che avevano portato con se predatori seriali come gatti, topi, mustelidi ed uccelli della madre patria. Ma cosa ancor peggiore, zanzare portatrici della malattia nota come malaria aviaria causata dal protista Plasmodium relictum per cui i drepanidi non possedevano alcun tipo di anticorpo, infliggendogli un tasso di sopravvivenza raramente superiore al 10%. Ed una riduzione delle ben 59 specie esistenti alle attuali 17 rimaste, oggi severamente protette come simboli insostituibili di questa eccezionale nazione isolana.

Difficile, d’altronde, osservare il volo scarlatto degli ancora comuni ʻiʻiwi (nonostante tutto!) senza riandare con la mente allo splendore incomparabile delle antiche corti nobiliari di Maui, Ohahu e l’Isola Principale, dove un simile splendore sottolineava i gesti e le argomentazioni di un formidabile gruppo di amministratori posti ai vertici della società post-tribale. Egualmente associati, nel racconto delle proprie gesta, al momento in cui ogni pretesa di associazione tra poteri contrapposti veniva dolorosamente accantonata, sfoderando le spade e i tirapugni costruiti con i denti di squali, marlin e balene.
Quasi a voler lasciare le mansioni della guerra ad implementi provenienti dagli abissi salmastri, così come le oneste disquisizioni erano appannaggio dell’argentovivo cinguettante, preso in prestito dalle regioni del cielo soprastante. Un modo singolare e non certo privo di un alto grado di spettacolarità inerente, per ricordare all’essere umano il proprio posto nel complesso ordine creato dagli Dei e Madre Natura. Così come antenati insigni, grazie al sapere tramandato, avevano insegnato ai loro discendenti delle plurime generazioni a venire.

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