Gunung Padang, il vulcano sacro che affascina gli appassionati delle civiltà perdute

Tra le molte colline coniche di Java, ricoperte di antico materiale magmatico e una folta vegetazione, ne spicca una per importanza culturale attraverso i secoli, o persino millenni di storia delle genti di Nusantara. Un termine, quest’ultimo, che ha origine nel XIV secolo, dalle cronache dell’impero dei Majapahit, il cui sovrano Gajah Mada aveva giurato di “Non mangiare cibo speziato fino alla conquista dell’intero arcipelago (indonesiano)”. Oggi associato strettamente alla nuova capitale istituzionale costruita nel settentrione del Borneo per sostituire la sempre più inondata Giacarta, forse il primo grande centro abitato della Terra destinato a soccombere al riscaldamento climatico globale. Ma che indica allo stesso tempo una cultura sincretistica, capace come molte altre dell’Asia di riuscire a coniugare culture e filosofie nettamente distinte, verso la convergenza di usi e costumi almeno in apparenza parte di un’identità comune. Vedi l’abitudine degli abitanti di Karyamukti, nella parte occidentale dell’isola Verde d’Oriente, siano costoro buddhisti, animisti, musulmani o persino praticanti di particolari discipline fisiche come le arti marziali, a recarsi in pellegrinaggio presso Gunung Padang, la montagna sacra non troppo distante dalla popolosa cittadina di Cianjur. Un sito panoramico ma anche punto di riferimento archeologico, per la presenza segnalata alla scienza nel 1890 di quattro evidenti terrazzamenti sovrapposti, collegati da una serie di scale scolpite nella pietra andesitica e macerie di colonne dello stesso materiale, nonché mura crollate ed almeno un altare dal suono armonico, se colpito, soprannominato batu kecapi, ovvero liuto di pietra. Un complesso cui datazione già da lungo tempo mette in disaccordo gli scienziati di molte nazionalità distinte. Questa per l’impossibilità, in assenza di prove pratiche, di associarlo inconfutabilmente al re semi-leggendario Siliwangi, che si dice sarebbe giunto in questo luogo all’incirca un secolo dopo Gajah Mada, per costruire con l’aiuto degli spiriti del Cielo e della Terra un maestoso palazzo “nel corso di una singola notte”. Laddove l’effettivo aspetto del monumento distrutto dal passaggio dei secoli, e soprattutto del suo aspetto ipotetico ragionevolmente ricostruito, sembrerebbe avvicinarlo piuttosto al concetto di punden berundak, un tipo di tempio a gradoni edificato dagli originali abitanti dell’area maleo-polinesiaca, presumibilmente al fine di ospitare le spoglie mortali, assieme allo spirito, degli antenati. Ragion per cui, probabilmente, Gunung Padang è stato lungamente caratterizzato nelle narrazioni folkloristiche come un cimitero, sebbene non esistano collegamenti pratici ad una simile funzione pregressa. Il che non si avvicina neppure al volo pindarico compiuto, a partire da uno studio del 2011 del geologo Danny Hilman Natawidjaja, da una parte del mondo accademico locale col sostegno delle istituzioni locali, per riqualificare il rilievo come una possibile costruzione interamente frutto di mani umane; quella che avrebbe potuto o dovuto costituire, in altri termini, la singola piramide più antica edificata da mani umane…

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Il gufo che venne dal cosmo, vagando nell’UFO dei boschi notturni

Dopo appena una dozzina di ore trascorse nello spazio di quell’orbita, fu dolorosamente evidente: la Terra non recava in alcun modo traccia di quel marchio, che su scala intergalattica caratterizza il gruppo dei pianeti illuminati. In altri termini, i suoi abitanti non avevano esperienze di contatto pregresso. Né la capacità inerente di comprendere l’aspetto, le motivazioni, le caratteristiche di un abitante del Cosmo Indiviso. Nonostante questo la creatura esploratrice ben sapeva di dover condurre a termine la sua missione; incontrare, comunicare, raccogliere una serie basilare d’informazioni, per conto del Concilio che tutt’ora finanziava i lunghi viaggi e il carburante della sua astronave. Così puntandone la prua verso una regione a caso del continente occidentale, atterrò a poca distanza da una piccola comunità, il cui nome, in base alle intercettazioni pregresse, sembrava essere Flatwoods. Con un senso di ansia latente, indossò laboriosamente la sua tuta protettiva, al fine di poter sopravvivere nell’aria colma di quel velenoso ossigeno, che la stragrande maggioranza delle creature locali sembrava essere in grado di respirare. Con il cappuccio a punta della pace chiaramente erto sopra il capo, la creatura fece dunque i primi passi in mezzo agli alberi della foresta. Gli animali sembravano amichevoli ed estremamente vari per foggia e dimensioni. Mentre iniziava, cautamente, a godersi l’esperienza ne arrivò tuttavia uno di un tipo marcatamente differente. Quadrupede, non particolarmente grande (gli arrivava appeno alle caviglie) l’essere in qualche maniera simile ai lupi di Rigel IV produceva un flusso ripetuto di onde sonore, trascrivibile come “Bark, bark, bark!” Ma la cosa peggiore fu il prefigurarsi tra le fronde di coloro che lo accompagnavano: sette presenze bipedi, due più grandi, cinque abbastanza ridotte da poter sembrare degli esemplari giovani e per questo ancor più imprevedibili nel comportamento. I mostri gridavano ripetutamente il nome del quadrupede, quindi si misero a conversare con fare concitato nella lingua incomprensibile del pianeta. Uno degli adulti, con espressione contratta, puntò allora un dito all’indirizzo dell’Esploratore interstellare. La parola “Mo-mostro!” Rappresenta una fedele traslitterazione delle sillabe impiegate. Accompagnate da un senso di ribrezzo ed assoluta ostilità, al che l’oggetto della sua attenzione non poté fare nulla diverso rispetto a quanto segue: un’emissione controllata di liquido repellente N5G2, capace di permeare per qualche minuto l’aria. Con un po’ di fortuna, nessuno degli indigeni avrebbe riportato danni permanenti. Quindi, con un lampo nello spettro visibile dei suoi due grandi occhi vermigli, lanciò verso i cieli il rapido segnale che attivava il teletrasporto.
Se soltanto il giorno dopo si fosse soffermato ulteriormente in orbita, le sue antenne d’intercettazione avrebbero captato e forse lentamente decrittato la notizia, che sembrava rimbalzare freneticamente da un lato all’altro della nazione chiamata “Stati Uniti Americani”. Un trafiletto, gradualmente espanso ad articolo con tanto d’interviste, a un gruppo formatosi del tutto casualmente presso Flatwoods, nella contea di Braxton. Il quale, dopo aver scorto una palla di fuoco nei cieli (ovviamente, trattavasi dei retrorazzi della sua tuta) avevano incontrato qualcosa di terribile ed inusitato. L’Esploratore avrebbe allora meditato sul relativismo del terrore di chi non conoscendo, istintivamente diffida. E la casualità della rassomiglianza di un qualcuno d’innocente, ai più intimi terrori onirici di colui o coloro che potevano trovarsi casualmente ad incontrarlo nei recessi ombrosi di un’isolato distretto forestale…

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Il bianco tempio arabeggiante che costituisce uno dei luoghi più sacri dell’Induismo tradizionale

Candida è la luce che risplende, all’alba ed al tramonto, riflettendosi contro le cupole del vasto palazzo marmoreo che domina la piazza di Janakpur, una delle principali città della provincia di Madhesh nel paese più alto del mondo nonché capitale dell’antico stato nepalese di Mithila. Un’entità culturale distinta, persino oggi, la cui importanza in Nepal è stata lungamente collegata a una particolare storia narrata nel poema epico del Ramayana; poiché proprio questo sarebbe stato, in base alla narrazione, il luogo di nascita di Sita Mata, figlia della Madre Terra e consorte di Rama, manifestazione in forma umana del Dio Vishnu. Ritrovata in un campo nei solchi dell’aratro (proprio a questo fa riferimento il suo nome) da niente meno che il sovrano Janaka contemporaneo del sovrano Dasharatha di Ayodhya, la cui saggezza e probità erano note in lungo e in largo nel subcontinente indiano. E fu proprio qui, dove oggi sorge l’imponente Mandir Janaki, che la giovane donna dimostrò la propria eccezionale forza, tendendo come nulla fosse il pesantissimo divino arco di Shiva, custodito nell’armeria reale. Al che il suo proprietario terreno, colpito da tale impresa, decretò che solo chi avrebbe potuto fare lo stesso, sarebbe stato degno di sposare colei che da quel giorno adottò come fosse del suo stesso sangue. Ma Rama seppe fare anche di più, spezzando in tre parti l’arma e il resto, come si usa dire, è storia. O per meglio dire, leggenda?
Molti anni dopo questi eventi, nel 1657, il sant’uomo Shurkishordas giunse in questo luogo guidato da una premonizione. Il che lo avrebbe portato a scovare, sotto un sottile strato di terra, una statua d’oro della divina Sita, il che avrebbe ricordato ai suoi contemporanei il collegamento della città di Janakpur con la protettrice dell’umanità intera. Il che diede inizio ad un fervente culto, ed ulteriori due secoli a venire, alla costruzione di uno dei più spettacolari templi del Nepal, opera di una regina straniera. Sto parlando di Vrisha Bhanu dello stato di Tikamgarh, in India, e del suo Janaki Mandir, ultimato nel 1910 dopo 14 anni di lavoro, nella speranza che la Dea l’avrebbe ricompensata con la nascita di un figlio. Il che non sarebbe giunto a verificarsi dopo il suo decesso, in seguito la quale il consorte sposò sua sorella, mentre lo spettacolare luogo di culto avrebbe potuto costituire un punto di riferimento religioso d’importanza crescente nell’intero secolo successivo. Architettonicamente insolito, con la sua commistione di elementi del barocco Moghul e accorgimenti tradizionali di matrice Koiri Hindu, il palazzo si presenta come infuso di un fascino vagamente arabesco, connotato dai molteplici colori ed elementi statuari tipici della tradizione Rajput. Ma ciò che colpisce maggiormente è il modo in cui le sue mura, lungi dall’essere la mera meta di un pellegrinaggio o punto di riferimento cittadino, risultano profondamente incorporate nel tessuto culturale locale, supportando un’ampia quantità di stimate tradizioni pubbliche…

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Fulgida è la spada che ha trascorso due millenni nel suo fodero senza invecchiare

L’attribuzione di cose mai effettivamente dette a Confucio, attraverso la limitata percezione internazionale della Cina, ha una lunga e problematica tradizione. Quasi come se la percezione dell’antico filosofo come prototipo dell’uomo saggio avesse concentrato gradualmente su di se le limitate cognizioni sull’antico Oriente possedute dall’odierna civiltà globalizzata. Vedi il caso del famoso detto “Attendi lungo il fiume il passaggio del corpo del tuo nemico” (in realtà un proverbio moderno) o in misura minore l’espressione “Dormire sulla legna ed assaggiare il gusto della bile”, una presunta metodologia quotidiana, considerata l’ideale per mantenere vivo il rancore nel confronto di un torto subito. Così meditando, nel corso della propria rabbiosa esistenza, l’ora di un’attesa rivalsa. Un’associazione che pur essendo anche in questo secondo caso scorretta, centra se non altro l’aspetto cronologico, essendo stata effettivamente pronunciata da un personaggio del periodo storico delle Primavere ed Autunni (771-476 a.C.) Sebbene, alquanto prevedibilmente, NON il fondatore di una disciplina basata sul rispetto reciproco e la serenità che viene dalla meritocrazia civile. Bensì un rabbioso dinasta portatore della propria faida generazionale, il cui simbolo per eccellenza del potere ereditato fu trovato dagli archeologi in una tomba nella regione di Jiangling, nell’ormai remoto 1965, ancora perfettamente integro e del tutto efficace nello scopo di uccisione per cui era stato creato.
Una scena mantenuta vivida nell’immaginazione della gente, giacché straordinaria e al tempo stesso ricca di un involontario simbolismo. Del completamento di uno scavo presso l’acquedotto del fiume Zhang, quando un gruppo di studiosi rintraccio l’ennesima camera funeraria di quel sito storicamente fondamentale. Per scovare al suo interno, preziosi gioielli, ornamenti ed accessori, nonché una coppia di spade in bronzo ingioiellate, della lunghezza rispettiva di 60 e 55 cm. Considerate entrambe parimenti rilevanti, finché all’interno di un laboratorio non si andò necessariamente a sfoderarle e l’incaricato, con sua estrema sorpresa, notò di stare sanguinando; giacché uno dei due manufatti era non soltanto perfettamente integro, nella manifattura variegata della propria lama ricoperta da un pattern romboidale geometricamente insolita. Ma addirittura tagliente. Oggi come allora, quando il Re Goujian di Yue (V sec. a.C.) l’aveva riposta dopo l’uso presumibilmente alla testa dei suoi eserciti, sconfiggendo ed annientando il proprio atavico nemico, l’odiato re di Wu. Non stiamo qui parlando di un oggetto ricoperto dalla ruggine vagamente riconducibile alla forma di una spada, come avviene per taluni oggetti di epoca medievale ritrovati nelle tombe europee. Trattasi, piuttosto, dell’odio di un potente trasformato in cosa tangibile e forse anche per questo, immortale…

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