Il vermiglio Theyyam, estasi danzante delle 456 divinità indiane

Che cosa sareste disposti a perdere per essere temporaneamente di più, vivere più intensamente, provare sentimenti maggiormente intensi di qualsiasi altro abbiate mai sperimentato prima di quel momento? Non si tratta di domande superflue, né passibili di esser poste alla leggera. I praticanti dell’antica arte drammatica Theyyam, ben oltre il concetto stesso di teatro meramente usato come forma d’intrattenimento, rinunciano prima di ogni rappresentazione alla propria stessa umanità. E non sempre gli viene permesso, al termine, di ritrovarla a pieno titolo ed usarla come un compasso per ridisegnare il cerchio della propria quotidianità esistenziale. Guardateli per questo volteggiare, tramite i filtro (o forse sarebbe calzante affermare, all’interno) dei monumentali costumi utilizzati per rendere interpretare la venuta tra la gente di alcuni degli esseri supremi dell’eterogeneo subcontinente. Poiché qui siamo, è importante specificarlo, presso il Therala sulle coste del Malabar, dove la densità di Dei e dei culti a loro dedicati supera persino quella dei villaggi, permettendo la frequente associazione di un episodio mitologico alla fondazione di una singola famiglia o dinastia ormai estinta. Come viene fatto enfaticamente ricordare, con egual dose di spettacolarità e riverenza, dai mistici dervisci dall’improbabile imponenza, mentre ricevono il supremo dono di entrare in contatto diretto con colei o colui che desidera sperimentare brevemente la vita terrestre. Un approccio alla questione che potremmo definire, senza dubbio, caratterizzante; poiché il Theyyam, un termine che significa letteralmente “divino” costituisce a tutti gli effetti non soltanto un atto di venerazione, bensì la possessione sciamanica e cessazione della rilevanza dell’ego. Mentre coloro che lo effettuano diventano, per tutto il tempo necessario, dotati della capacità d’influenzare la progressione karmika degli eventi.
È una cosa estremamente memorabile a vedersi. Ciascuna delle persone incaricate di eseguire i passaggi necessari all’esecuzione del rituale ha ereditato, tramite molteplici generazioni o un continuativo impegno dimostrato a partire dall’età massima di 6 o 7 anni, le capacità necessarie a rendere l’effetto di trovarsi al cospetto di un essere pressoché onnipotente. Il che presuppone, molto prevedibilmente, una precisa e complessa preparazione, che inizia dal momento in cui, un paio di settimane prima del giorno fissato, il danzatore rigorosamente di sesso maschile si astiene dal fumo, l’alcol, i litigi o i cattivi pensieri. Comportandosi a tutti gli effetti come un asceta, mentre cerca e trova la concentrazione necessaria a trasformarsi. Il che avviene in un momento estremamente preciso, molto spesso ma non sempre parte della parte pubblica della sua esperienza: mentre osserva immobile lo specchio, pensando al proprio ruolo transitorio nell’immensità dell’Universo conosciuto o teorizzato nello scorrere dei millenni. Quando all’improvviso avverte, come da copione, di essere tremendamente prossimo a perdere il controllo…

Larghi, alti, rigidi o fluenti, i costumi del Theyyam costruiti con preziose stoffe e intelaiature alleggerite in legno possiedono diverse qualità ed uno stile assolutamente inconfondibile. Normalmente, il danzatore inizia la serata con il solo trucco facciale, mentre gli elementi ulteriori vengono aggiunti man mano che la performance raggiunge il culmine dimostrativo.

L’arte popolare del Theyyam, nonostante la raffinatezza estrema dei suoi fattori visibili, resta d’altra parte strettamente associata agli strati meno abbienti della società indiana. Essendo l’appannaggio esclusivo di determinate caste, un tempo giudicate intoccabili, le cui prerogative appaiono del tutto secondarie a ciò che la collettività ha imparato ad aspettarsi da loro. Da un tempo letteralmente immemore, o comunque molto, molto lungo. Gli etnografi e studiosi dei costumi locali del Kerala hanno in effetti datato l’inizio di queste pratiche ad un’epoca di gran lunga antecedente all’introduzione dell’Induismo tra il 2300 e 1500 a.C, fattore dimostrato dalla presenza nel suo canone di fattori o riferimenti animistici e del culto degli antenati, alle radici stesse del concetto di religione organizzata all’interno di un gruppo sociale definito. Alcuni dei personaggi interpretati in questa forma di venerazione religiosa, d’altra parte, sembrano avere appigli storici ben precisi. Vedi il caso di Kathivanoor Veeran, il guerriero asceso alla divinità della tribù dei Thiyya, che avendo abbandonato senza il permesso la fattoria dei propri genitori, scelse piuttosto di difenderla impugnando le sue armi contro l’esercito dei Kodagu che tentava d’invadere il Malabar. Ma dopo aver combattuto, e vinto, ritornò indietro per cercare l’anello di fidanzamento con l’amore della sua vita che aveva perso assieme a un dito, finendo per essere ucciso con l’inganno dai suoi nemici. Così che la sua promessa, vedendo l’anello e il dito su una foglia di banana, si uccise. O quello della donna Muchilot Bhagavathi, che essendo stata interrogata dai bramini del suo villaggio in merito a quale fossero il maggior piacere e più grande dolore del suo sesso, rispose fare l’amore e mettere al mondo un figlio. Ma poiché nell’opinione dei sacerdoti ella non poteva saperlo a meno di non essere più vergine, venne esiliata dalla sua famiglia, e piuttosto che vivere in stato d’indigenza si suicidò sopra una pira funebre alimentata dall’olio di cocco. Venendo trasformata, dopo il rapido decesso, in una portavoce itinerante del dio Shiva, che ne fece uno dei propri rappresentanti nel mondo. Notevole anche la storia Kuttichathan Theyyam, uno dei figli dell’avatar del Distruttore in questione, che sceso tra gli umani aveva scelto si sposare la sua amata Parvati sotto mentite spoglie, dando quindi il figlio soprannaturale in adozione ad una donna priva di eredi. Ma poiché questo superno essere, dal corpo nero e un fiore sulla fronte, era talmente saggio da mettere in discussione le parole dei suoi insegnanti, entrò presto in conflitto con loro e venne ripetutamente punito. Rimasto senza cibo, uccise e divorò un’intera mucca, con gesto sacrilego che gli sarebbe costato una condanna a morte. Così tagliato in 390 pezzi e bruciato in 21 pire dai bramini, anch’egli risorse sottoforma d’altrettanti valorosi soldati, che da quel momento avrebbero protetto il Kerala.
Traspare dunque una fondamentale ed imprescindibile diffidenza nei confronti delle autorità costituite nelle storie interconnesse ad alcuni dei più celebri Theyyam, benché ciò non possa essere considerato parte imprescindibile della loro essenza. Questo perché una volta che il danzatore ha ricevuto il mandato divino, ogni aspetto collaterale o di contesto viene fatto passare in secondo piano, di fronte alla necessità di rendere tangibile la presenza di colui o colei che ha preso il controllo di una precisa sequenza di gesti. Ci sono Dei, per questo, che prevedono l’esecuzione di una sequenza meccanica di passi, altri che si esprimono attraverso le espressioni del volto. Alcuni richiedono semplicemente di volteggiare con ritmi variabili, per molte ore o tutta la notte, mentre gli spettatori esprimono desideri inserendo banconote nelle intercapedini dell’ingombrante costume. In uno dei Theyyam più memorabili e terrificanti, denominato Thee Chamundi, il protagonista viene gettato più volte all’interno di un cumulo di ceneri ardenti, così come l’avatar leonino di Vishnu, Narasimha Moorthi, aveva dovuto sopportare durante un’epico combattimento con i demoni dell’inferno. Non è perciò infrequente, nella rilevante regione del Kerala, notare più di un praticante con il volto che riporta cicatrici ed ustioni, in segno di supremo sacrificio nei confronti della sua difficile arte.

Alcuni Theyyam prevedono la frenesia e il pericolo tipiche delle attività dei fachiri. Il che costituisce, parimenti, una forma di venerazione dall’alto rilievo teologico all’interno dei contesti d’appartenenza.

La danza sacra degli Dei manifesti aveva per l’India medievale, ed ancor prima di tale epoca, un’importante funzione sociale. Occasione di raduno per gli abitanti dei villaggi vicini, corrispondeva spesso con il giorno di riscossione delle tasse, e risoluzione delle dispute ad opera dei magistrati designati dai capi delle diverse tribù locali. Ma per le genti spesso discriminate che materialmente interpretavano i personaggi, essa costituiva soprattutto un importante strumento di rivalsa sociale. Poiché non importava quale fosse il loro mestiere per il resto dell’anno e per quante generazioni pregresse discendessero dai senza casta, per quelle fatidiche ore, o giorni, essi diventavano a tutti gli effetti divini, diventando degni di venerazione anche dagli appartenenti agli strati sociali di livello più alto. Era un’esperienza assai probabilmente… Trasformativa. Così come continua ad esserlo, in modo diverso, nei contesti più appropriati della sua continuazione ininterrotta fino all’epoca post-moderna.
Sebbene abbia trovato un certo seguito l’idea, negli ambienti maggiormente conservatori dell’India contemporanea, che il Theyyam praticato per il cinema di Bollywood o in contesti di raduno sociale e mero divertimento, sia per suo principio inevitabile un’attività sacrilega e perciò indegna della lunga e nobile tradizione a cui tenta di richiamarsi. Il che risulta applicabile a molte altre arti ereditate dei nostri giorni. Ma la questione in casi simili è universalmente semplice: cambiare le cose, o vederle scomparire del tutto. E ciò dovrebbe costituire, secondo quale metrica, una scelta?

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