Si racconta di come attorno alla metà degli anni ’80 il governo cinese avesse offerto a Reinhold Messner, storico alpinista ed uno degli italiani più celebri della nostra Era, di diventare il primo individuo moderno a raggiungere la cima del Kailash, montagna dallo status molto più leggendario situata nella prefettura di Ngari, presso la regione autonoma del Tibet. Famosamente, egli si sarebbe rifiutato. Posto di fronte alla domanda in un’intervista di molti anni dopo, egli avrebbe affermato di aver preso una tale scelta in quanto: “Conquistare la cima del Sumeru [raggiungendo la dimora degli Dei] sarebbe come conquistare lo spirito delle persone.” Ovvero un gesto, se vogliamo, dissacratorio e giudicato dal medesimo del tutto indegno di un conoscitore delle culture d’Oriente. Come lui che nel castello Juval in Val Venosta, dove abita dal 1983, ha dedicato un’intera stanza alla sola figura storica che sappiamo aver calcato quelle vette, il santo, poeta e stregone Milarepa, principale maestro della scuola Kagyu del Buddhismo Tibetano. Senza mai scalarlo in base alla leggenda, nonostante avesse ricevuto la sfida a riuscirci da parte di Naro Bonchung, sacerdote mistico dell’ancestrale religione di quel paese. Il quale sollevandosi da terra grazie all’uso di un tamburo magico, si vide sorpassare all’ultimo momento dal suo avversario, che molto semplicemente si era smaterializzato, cavalcando fino in vetta i raggi dell’astro solare. Un’approccio in qualche modo compatibile con l’altrettanto celebre punto di vista reso pubblico nei diari del 1936 dello scalatore austriaco Herbert Tichy, redatti a seguito di un colloquio con il governatore dello Ngari, Garpon: “Chiunque riuscirà un giorno nella difficoltosa impresa non avrà scalato affatto il ghiaccio della montagna. Bensì trasformandosi in uccello, avrà volato fino al raggiungimento della sua meta.” Ardite metafore o impegnativi piani di fattibilità a parte, resta preponderante l’aspetto indubbiamente insolito di un sito tanto celebre ed indubbiamente rilevante, ciononostante mai calcato dagli inarrestabili stivali dell’uomo moderno. Come evidenziato dal severo divieto implementato da parte del governo locale, costretto unicamente dalle circostanze a lasciar accedere i dintorni e laghi sacri a ridosso della montagna, in un annuale pellegrinaggio compiuto per ragioni del tutto simili dai fedeli delle religioni Induista, Buddhista e Giainista. Riassumibile in un avvicinamento rilevante nei confronti delle rispettive Vie dell’Illuminazione, bagnandosi nelle sacre acque e rivolgendo gli occhi all’altissima piramide, simbolo di Shiva ed innumerevoli ulteriori divinità. Partecipando di un anelito eccezionalmente profondo…
Particolarmente celebre risulta in senso cosmologico la rappresentazione iconografica della montagna nel gruppo statuario tradizionale del Ravananugraha, un frequente aspetto del dio Shiva in cui quest’ultimo soggiorna sopra l’alto massiccio assieme alla consorte Parvati, tenendo intrappolato sotto un tale peso la figura policefala del re demone Ravana di Lanka. E non può essere di certo trascurato l’aneddoto secondo cui la stessa regina guerriera Maya, molti anni dopo, avrebbe fatto il bagno nelle fredde acque del lago divino Masarovar. Poco prima di dare luce alla figura storica di Siddharta, il primo Buddha ad aver camminato tra i viventi. Ragioni pienamente sufficienti a guardare verso questo alto sito con profonda reverenza, anche senza entrare nel merito della sua difficoltà tecnica inerente. L’effettiva montagna alta 6.638 metri sorge infatti in posizione ragionevolmente isolata ed esposta agli elementi, risultando caratterizzata da temperature molto più basse della normalità e venti dalla forza significativa. Le sue quattro pareti simmetriche e pressoché verticali, secondo una leggenda costituite rispettivamente da cristallo, rubino, oro e lapislazzuli, risulterebbero inoltre inaccessibili senza un tipo di attrezzatura pesante del tutto incompatibile con lo stile alpino reso celebre dallo stesso Messner, incrementando ancor più la conseguente mancanza di rispetto nei confronti del pregevole massiccio montano. Non che ciò abbia prevenuto il compiersi di alcuni significativi ed emblematici tentativi pregressi. Tra cui resta celebre quello dello scalatore inglese Hugh Ruttledge nel 1926, che avendo individuato un sentiero possibile sul versante nord, dovette tornare indietro con la vetta già in vista a causa di un mutamento “repentino ed imprevisto” delle condizioni climatiche. Ad ogni modo meno grave dell’esperienza spesso citata di un ignoto gruppo d’alpinisti coévi, i quali a mezza altezza vengono riportati aver scoperto come le proprie unghie e capelli fossero cresciuti in modo spropositato. Come se fossero passati anni, invece che qualche ora o giorno, dando inizio ad un processo d’invecchiamento ultra-rapido che li avrebbe portati in seguito a morire molto prima del loro tempo. E se questa idea priva di fonti o nominativi specifici dovesse lasciarvi perplessi, aspettate di sentire l’ipotesi del professore di oftalmologia e occultista russo Ernst Rifgatovich Muldashev, pubblicata all’interno di un suo libro del 1999 sulla leggendaria città sotterranea di Shambala. In base al quale proprio la particolare forma del Kailash/Sumeru denuncerebbe chiaramente la sua natura del tutto artificiale tale da farne una gargantuesca piramide costruita da mano umana (o… Extraterrestre). Ciò mediante l’utilizzo di perdute tecniche di manipolazione della gravità e trasformazione della materia. E non sarà difficile immaginare, a questo punto, la ragione della reverenza e il sacro timore che circondano un così imponente elemento dell’elevato paesaggio tibetano.
Non che l’opportunità di raggiungere uno stato superiore di coscienza possa giungere ai pellegrini senza il giusto grado di abnegazione e senso di sacrificio personale. Come evidenziato dalla necessità di compiere un tragitto a piedi di fino a 52 Km capace di richiedere tre giorni di viaggio, ulteriormente incrementabili in base alle metodologie e quantità di prostrazioni desiderate. Fino al caso limite dell’approccio disponibile per i buddhisti, consistente nell’inginocchiarsi a tracciare segni progressivi dove poggiare nuovamente la fronte, in un itinerario laborioso capace di coinvolgere anche svariate settimane. Al termine del quale, tuttavia, sarà possibile, persino probabile il raggiungimento dell’illuminazione.
Come coronamento di una ricerca assai meno tangibile rispetto a quella degli alpinisti come Messner, saldi portatori della fiamma della conoscenza fino a luoghi largamente inaccessibili al senso comune. La cui citazione riportata in apertura a questo post tralascia spesso, nelle trattazioni relative alle leggende del monte Kailash, il fondamentale corollario addizionale del suo discorso. In cui lo scalatore aggiungeva, riferendosi ad un inconcludente progetto di scalata approntato in quell’epoca da suoi colleghi spagnoli: “Dovrebbero trovare una cima diversa. La montagna sacra non è poi così difficile, né particolarmente alta.”