Un pregno viaggio alle radici della bambola dei desideri giapponesi

Se impiegando il dono dell’ultraterrena osservazione, come foste diventati temporaneamente membri della stirpe sovrannaturale degli yokai (dove il pluri-occhiuto e l’incorporeo vanno spesso a braccetto) poteste spiare il ripiano più alto della libreria di ogni singolo studente iscritto all’ultimo anno dell’Università di Tokyo, scorgereste nella maggior parte dei casi la forma di un ovoide di colore vermiglio, privo di arti ma col volto caratterizzato da un gran paio di baffi, il naso stilizzato e due folte sopracciglia, sotto cui, in maniera singolare, campeggia il piccolo cerchio nero di un occhio soltanto. Ma se successivamente alla festa della loro cerimonia di laurea, ancora una volta decideste di evocare il vostro potere, tutti questi soprammobili apparirebbero diversi in un singolo, significativo dettaglio: la comparsa del secondo punto scrutatore, del tutto simile all’organo di caccia di un bizzarro gufo di cartapesta. Come ricompensa per l’aiuto offerto ai suoi devoti proprietari. Egli era, costituisce ad oggi e sarà per sempre Daruma (だるま / 達磨) alias Bodhidarma, alias Bìyǎnhú, anche detto il più santo ed importante di tutti i membri del clero buddhista che abbiano calcato le strade dell’Estremo Oriente. Anzi in effetti a dire il vero, anche il primo, essendogli attestata l’impresa niente affatto semplice di trasportarne l’insegnamento dalla remota India di partenza, lungo le steppe sconosciute dell’Asia centrale e fino ai quattro confini del Celeste Impero Cinese. Tra il quinto e il sesto secolo, probabilmente, molto prima che le ragioni del marketing ed il coinvolgimento religioso di ampie fasce di popolazione portassero all’iniziativa di rappresentarlo come un uovo, forma proto-antropomorfa meritevole di un significativo approfondimento. Questo poiché si narra, tra le molte storie che accompagnano questa figura importantissima, di come una volta giunto nella parte centrale della Cina, la sua venuta venne infine accolta con l’ostilità di strutture clericali pre-esistenti. E quando gli venne negato l’accesso al divino tempio di Shaolin dedicato al perfezionamento delle arti marziali (più simile in effetti a una fortezza, come ben sappiamo) egli decise di fermarsi a meditare all’interno di un’oscura caverna tra le montagne. Per un periodo approssimativo di nove anni, senza mai distogliere lo sguardo dalla sdrucciolevole parete di pietra che sarebbe diventata tutto il suo mondo. Fatta eccezione per quella singola volta, attorno al settimo volteggio del calendario, quando si addormentò accidentalmente per un attimo, decidendo al suo risveglio che l’unica soluzione possibile era tagliarsi via le palpebre. Del tutto. Spirito di abnegazione niente meno che supremo, ricompensato dalla karmica legge d’equivalenza con la nascita istantanea della prima pianta di Tè in quel mistico recesso. Eppure, strano a dirsi, il peggio doveva ancora venire: quando al termine del proprio corso di riflessione e preghiera in stato pressoché assoluto d’immobilità, il supremo asceta scoprì che le proprie gambe e braccia si erano atrofizzate ormai da tempo, ed invero si erano staccate dal busto centrale del suo corpo a digiuno. Così ricevendo al termine del proprio viaggio la benedizione più elevata che fosse possibile pretendere dall’universo e colui che ne conosce il più profondo dei significati, scomparve dalla storia, avendo assai probabilmente ottenuto il Nirvana. E chi l’avrebbe detto che oltre dieci secoli dopo, in un particolare tempio giapponese, ai membri del suo culto millenario sarebbe venuto in mente di raffigurare questa storia nel modo più semplice, diretto e a dire il vero non del tutto privo di un’eclettica dose d’umorismo? Creando i presupposti per far scendere di nuovo Bodhidarma giù dalla montagna. Come un’ovoide sfera di sapienza infusa del più assoluto controllo sul mondo e la natura. Oltre al compito importante, per qualsiasi tipo di cultura, di riuscire in qualche modo a facilitare la vita delle persone…

Il Daruma più riconoscibile ed amato, soprattutto all’estero, è in effetti proprio quello dello Shorinzan, sebbene esistano parecchie variazioni regionali dalle molte caratteristiche differenti. Vedi quello alto e stretto di Takasaki, il più feroce esempio della regione di Shirakawa o addirittura l’Hime Daruma della prefettura di Ehime, dall’aspetto di una donna che potrebbe essere una raffigurazione della leggendaria imperatrice Jingu, vissuta attorno al terzo secolo d.C.

Quello che non tutti sanno in merito al più famoso talismano portafortuna del Giappone, assieme all’omamori sulla tavoletta legata alla borsa o il cellulare ed il felino maneki neko che chiama i clienti all’interno dei negozi, è che un simile oggetto ha anche un luogo d’origine e una storia chiaramente definita. Che ne colloca la prima introduzione presso il tempio di Shorinzan a Takasaki, uno di quei molti luoghi in cui si praticano ancora con sincera dedizione le precise discipline di contemplazione trasmesse dal divino Bodhidarma in persona, generalmente raccolte sotto il termine ad ombrello di Zen (tutto) ma poiché credere nel Buddha vuole dire anche fare il possibile per alleviare le sofferenze del mondo, è scritto nelle cronache di come attorno al culmine dell’Era Bunka (1804-1818) all’abate di questa istituzione risalente al 1667 venne in mente di coinvolgere gli artigiani locali nella produzione di una sorta di souvenir dedicato ai molti pellegrini che salivano la propria lunga scalinata di abnegazione e pentimento, ispirato all’antico giocattolo okiagari koboshi, la raffigurazione piriforme di un monaco in legno di pino dal basso baricentro incapace di ribaltarsi. La creazione in cartapesta, facile da realizzare con il clima caldo e secco di questa zona geografica, ispirata ad un particolare ritratto molto stilizzato di Shin Etsu, al secolo Jiang Xingchou (1639-1695), raffigurante il patriarca del Buddhismo successivamente all’emersione dalla sua caverna. Rigorosamente privo di arti, nonché colmo di allusioni nelle specifiche caratteristiche del suo volto. Giacché si è soliti affermare che nella tipica iconografia del Daruma, le sue sopracciglia raffigurino una gru, i baffi un pino ed un susino, la barba una tartaruga, ed il pizzetto un ramo di bambù. Incamerando in se stesso un ricco repertorio dei simboli supremi della sapienza, longevità e buona sorte, come sua esplicita ed irrinunciabile prerogativa e funzionalità. Questo perché come accennato in apertura, ed ormai largamente noto anche nei territori d’Occidente, l’utilizzo ideale dell’apotropaica dotazione ne prevede la vendita completa in ogni sua parte fatta eccezione per l’apposizione delle corte pennellate necessarie a definire un funzionale paio d’occhi. Mancanza niente affatto trascurabile, se non fosse per la maniera in cui al cliente finale viene indicato di dipingerne il primo, mentre si concentra per esprimere un desiderio. Al realizzarsi del quale, molto convenientemente, potrà procedere a “ricompensare” il suo Daruma con l’aggiunta del secondo. Una visione assai pragmatica del ruolo di un siffatto talismano, che diventa in questo modo la forma tangibile del fondamentale verbo giapponese ganbaru (頑張る – non cedere, non arrendersi) sinonimo di un’etica del lavoro e spirito altruista alla base di una società conforme e indivisibile, compatta nella continuativa conservazione delle proprie idee. Tanto che gli stessi esponenti delle diverse correnti politiche nazionali, con forte risonanza mediatica, sono soliti custodire nelle proprie basi operative nei periodi elettorali delle imponenti o plurime raffigurazioni ovoidali di Bodhidarma, tutte rigorosamente monocole fino all’ottenimento della carica desiderata.
Oggetti, persino oggi, provenienti in quantità di oltre l’80% dal tempio Shorinzan di Takasaki, destinazione turistica di primo piano dove è anche presente un museo dedicato alle molte iterazioni del beneamato personaggio, assieme alla bottega fornita di ogni possibile esempio immaginabile venduto a prezzi di variabile convenienza. Generalmente ribassati attorno alla data del capodanno lunare, quando la convenzione vuole che i Daruma che hanno assolto ormai da tempo il proprio compito vengano bruciati su una grande pira, al fine di essere sostituiti da nuovi e ancora sopiti membri della loro stirpe eternamente dedita all’allontanamento degli spiriti maligni.

Il rosso manto del Daruma, principale enfasi scultorea della sua semplice forma, è un forte simbolo apotropaico mirato ad allontanare il male del mondo. Forse anche per questo, si tratta di uno dei portafortuna più amati dell’intero arcipelago giapponese.

Completa la visita al tempio, molto prevedibilmente, l’esperienza interattiva tanto amata dalla maggior parte delle istituzioni museali dell’Estremo Oriente, che invita i visitatori ad acquistare il guscio bianco di un Daruma incompleto, da dipingere personalmente sotto la supervisione degli addetti ed insegnanti locali. Poiché non c’è fortuna migliore, a quanto ci è dato presumere, di quella che riusciamo a procurarci da soli, fissando i nostri obiettivi e perseguendone l’ottenimento di fronte allo sguardo di colui che ha già ottenuto da tempo una qualche forma d’Illuminazione terrena. Un approccio alternativo alla fascinazione non del tutto naturale per il corpo e i sacrifici dei sant’uomini e santissime donne, così diffusa anche in sistemi dogmatici tipici dei paesi d’Occidente. Nonché perfettamente esemplificata nella parabola dei quattro studenti, che si videro chiedere da Bodhidarma in un frangente narrato nel testo cinese dell’undicesimo secolo Jingde – “Le Storie della Lampada”:
“Potreste darmi un chiaro segno del vostro apprendimento?” Al che il primo dei presenti disse: “La sapienza del Tutto non può essere meramente espressa con l’eloquio o contestualizzata dalle parole” E lui rispose: “Ben fatto, hai ottenuto la mia pelle.” Mentre il secondo aggiunse: “Essa è un glorioso sguardo momentaneo allo splendore di Akshobhya Buddha che visto una volta, non può essere ottenuto di nuovo.” E lui rispose: “Ben fatto, tu sei diventato la mia carne.” Così che il terzo: “I quattro elementi non possono essere compresi. I cinque skandha non possiedono l’esistenza. Nessun dharma può essere trasmesso.” E lui rispose: “Ben fatto, a te concedo le mie ossa.” Ma il quarto aspirante, alzandosi, non disse nulla, inchinandosi silenziosamente al maestro. E soltanto di fronte a un tale gesto, Bodhidarma poté dire con assoluta certezza: “Tu, saggio discepolo, hai ottenuto il mio midollo. Adesso puoi tornare nel mondo.” E così fu. Rotolando.

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