Il vantaggio meccanico della moto giapponese all’interno dell’ovale di stato

Numero 5, l’uomo dalla tuta gialla con il casco bianco si presenta sulla pista accompagnato da un latente senso di perplessità da parte di chi ancora non era preparato ad aspettarlo. Per la forma strana del suo corpo, chiaramente deputata dalla spessa armatura simile a quella del football americano, che ne alza le spalle assieme alla protezione per il collo da motociclista, che lo ingobbisce. In mezzo a quelle moto carenate di tipo competitivo, e almeno un paio di supermotard di concezione francese, il suo veicolo a due ruote non è d’altra parte da meno: gli pneumatici sottili, l’assenza di sospensioni sul retro, il manubrio vistosamente storto, con un’estremità più alta dell’altra. Di sicuro, nessuno l’avrebbe dato come favorito. Ed in effetti al suono del via, in una corsa della durata di 4100 metri, non ci mette molto a rimanere ultimo, se non che le circostanze appaiono ben presto connotate da uno strano tipo di circuito. In cui ciascun concorrente resta pressoché costantemente inclinato ad un minimo di 45 gradi, curvando, curvando e curvando ancora. Così che, una curva antioraria alla volta, il samurai Quasimodo comincia irrimediabilmente a rimontare…
Non giudicheresti un pesce dalla sua capacità di scalare una montagna, a meno che si tratti del leggendario pesce alato che soggiorna tra le nubi che circondano il vulcano di Sumeru, asse cosmico dell’universo buddhista. Ed allo stesso modo, non daresti un voto a un’aquila di mare in base al tempo registrato in 10 giri su una pista ovale di 500 metri, della larghezza di 30 e circondata dallo sguardo attento delle telecamere, affinché nulla d’intrigante possa essere portato in tavola dai concorrenti di un’imprescindibile tenzone animale. Quella in grado di decidere, al concludersi del giorno, non soltanto chi sia il più abile ma anche i riceventi di una somma non indifferente di denaro, tra coloro che hanno scelto di scommettere seguendo una stimata tradizione locale. Poiché molte cose possono essere negate in merito al secondo arcipelago più vasto d’Asia, ma non che i suoi abitanti amino cimentarsi nella previsione del numero di palline di metallo uscite da una macchina (nel gioco nazionale del pachinko) piuttosto che i vincitori di un evento sportivo, particolarmente quando è in gioco il tradizionale montepremi con sistema parimutuel, dante ai migliori l’intero ammontare del corposo banco, meno i contributi e le commissioni. Al punto che a partire dal secondo dopoguerra, stanco di veder trarre un considerevole guadagno in quel mondo unicamente le organizzazioni non-legali della yakuza, al governo di Tokyo venne in mente di creare e regolamentare un calendario assai preciso e controllato di tali contingenze, creando il concetto quello che avrebbe presto preso il nome di kōei kyōgi (公営競技 – Concorso pubblico) attraverso l’applicazione di accorgimenti, modalità e controlli estremamente stringenti. Fino al punto, al giorno d’oggi, di poterne elencare ben quattro tipologie: cavalli, biciclette, motoscafi ed auto racing (オートレース) dove alquanto stranamente, l’auto in questione non è intesa possedere quattro ruote, bensì due di meno. Un tipico caso di storpiatura anglofona da parte di chi vive oltre i confini dell’Eurasia. Ma anche il primo verso di un haiku procedurale, conciso ed elegante come si confà ad un tale genere di composizione poetica. Il canto ritmico della marmitta delle circostanze avite…

Una gara che si svolge totalmente in curva tende a favorire approcci assai specifici nell’allestimento veicolare, inclusa la presenza di un’apposita ginocchiera sopra il serbatoio del robusto telaio con configurazione a diamante. Rilevante anche la “pantofola metallica” una speciale protezione indossata sopra il piede sinistro e da impiegare in caso d’emergenza per rallentare.

La nascita della prassi delle Ōtorēsu, come andrebbe traslitterato il nome in alfabeto katakana, viene convenzionalmente fatto risalire alla seconda metà degli anni ’40, con una genesi non poi così diversa da quella della formula Nascar statunitense. Incluso l’utilizzo primordiale di piste create ad hoc, percorse tramite una varietà di mezzi provenienti dai contesti più diversi, liberamente potenziati e modificati dai concorrenti, il cui background risultava essere il più delle volte connesso a varie gang di bōsōzoku (暴走族 – “tribù della velocità sfrenata”; motociclisti) o inviati a rappresentare i rami più influenti dei diversi sindacati della yakuza. Il che dava luogo a un tipo di competizioni non propriamente prive d’incidenti, anche grazie alla natura spesso sterrata dei circuiti presi in presto dal mondo dell’ippica, nonché i frequenti urti tra diversi concorrenti fortemente incentivati a prevalere. Sarebbe perciò stato solamente nel 1949, con la fondazione ed il coinvolgimento diretto della federazione Japan Small Car Association (JKA) che sarebbe stato per la prima volta imposto un cartiglio di limiti ai motori e configurazioni permesse, destinato a diventare progressivamente più preciso. Nel 1951 quindi, l’attesa rivoluzione: con l’inaugurazione a pochi mesi di distanza di tre autodromi a Sonoda, Nagai e Yanai, nasceva la federazione propriamente detta dell’auto racing, atta a misurare i risultati esclusivamente all’interno di ambienti (relativamente) sicuri e dotati, al minimo, di una superficie completamente asfaltata. Con una prima restrizione ai soli motocicli prodotti da Triumph, Fuji, Meguru, Kyokuto e Toyo, principalmente perfezionati per poter massimizzare l’efficienza delle loro curve a sinistra. Questo almeno fino al 1991, quando nell’interesse di ridurre le possibili irregolarità l’ente organizzatore avrebbe iniziato ad imporre l’utilizzo di telai costruiti ad-hoc, dotati di uno specifico motore: il cosiddetto SEA (セア – Super Motore di Auto Racing) prodotto da Suzuki e dotato di 600 cc per una potenza di 60 ps, capace di spingere i leggeri motocicli fino alla velocità di 150 Km/h. Abbastanza, in altri termini, da mettere in scena una gara appassionante, senza rischiare necessariamente l’incolumità dei concorrenti. Altre preoccupazioni in materia di sicurezza, nel frattempo, avevano portato alla scelta apparentemente drastica di eliminare totalmente i freni, per evitare drastiche riduzioni di velocità, che a distanza tanto ravvicinata portavano immancabilmente a rovinose cadute, non sempre prive di conseguenze. A compensare tale accorgimento, un freno motore più potente di quello in dotazione a moto convenzionali, oltre all’incapacità di reggere il minimo: non appena viene lasciata la manopola, il motore si spegne. Dal punto di vista della guidabilità, invece, le rinnovate due-ruote dell’Ōtorēsu avrebbero potuto continuare trarre beneficio da pneumatici dal caratteristico battistrada triangolare a forma di cuneo, ulteriormente levigato prima del minuto della partenza, al fine di massimizzarne la tenuta a discapito di una durata esattamente calibrata in base a quella della singola gara. Aspetto interessante, soprattutto tramite una lente occidentale, l’abitudine dei concorrenti ad assegnare un nome personalizzato al proprio mezzo, come quello di un cavallo da corsa, tanto che tradizionalmente quest’ultimo veniva utilizzato nelle classifiche durante i resoconti di gara. Almeno finché i veri protagonisti della scena, piloti tanto lungamente specializzati, non avrebbero guadagnato il proprio posto sotto le luci della ribalta…

Il nome lingua giapponese di una moto da Auto Racing è kyōsō-sha (競走車) inclusiva del carattere convenzionalmente riferito ai veicoli a quattro ruote. L’ennesima “eccezione che conferma la regola” all’interno di una lingua dal funzionamento notoriamente poco intuitivo.

Selezionati mediante un severo corso di preparazione con tanto di esame finale che si tiene soltanto una volta l’anno, i concorrenti dell’Auto Racing possono provenire da ogni tipo di background ed avere molte età diverse, dai 16 ai 75 anni. L’unico requisito imprescindibile, in maniera alquanto atipica, è il peso corporeo, che non dovrà mai superare i 60 Kg. Forse un vetusto retaggio ereditato dal mondo delle corse dei cavalli? Ciò che viene sottoposto ai più regolari e approfonditi controlli, ad ogni modo, resta l’integrità e comportamento di gara, proprio al fine d’impedire che le corse possano essere truccate alterando i risultati finali. Proprio per questo, non è insolito che i piloti vengano letteralmente segregati per una settimana o più in corrispondenza degli eventi di campionato, mentre la loro intera vita anche in contesti extra-professionali viene sottoposta ad un continuo scrutinio da parte della federazione. Un sacrificio, ad ogni modo, ben ricompensato con un guadagno medio annuale stimato attorno ai 90-100.000 euro per chi riesce a farsi un nome, fino a somme molto superiori per i campioni di questo settore. Che spesso diventano anche personalità pubbliche ragionevolmente note, una volta che ricevono l’onore di poter correre con la proverbiale maglia rosa, utilizzata in questa disciplina al fine d’identificare i favoriti di ciascuna gara.
In un ambiente culturale, quello giapponese, che sa ben racimolare e mettere su un piedistallo coloro che ricevono quel fluido mistico che è la celebrità mediatica. Ma resta anche legato alle sue antiche predisposizioni, inclusa quella di scommettere sull’esito finale delle più appassionanti discipline umane. Fin da quando Miyamoto Musashi, sull’isola di Ganryu, sfidò il suo celebre rivale Sasaky Kojiro, battendo la sua grande spada con un semplice remo della barca usata per arrivare (in ritardo) al duello. Perché non sempre la perfetta soluzione di un problema è quella offerta dalle convenzioni acquisite. Quando è possibile specializzarsi in un particolare tipo di competenze. Come suonare le campane di Nostra Signora nella principale cattedrale di Parigi. O mettere la gobba in spalla, per così dire, mentre si monta a bordo di uno sghembo destriero. Per accedere alla sacra porta che conduce a fama imperitura. Ed una sana dose di opulenza materiale, che non fa mai male.

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