Cultura e religione nella terra dei vulcani di fango

Possente, inarrestabile flusso che proviene dal profondo, spinto innanzi dal potere del sottosuolo. Candida emanazione che fa seguito all’annuncio: “Gioia, giubilo, trionfo! Sta eruttando il Chandragup.” Poiché fredda è questa sua colata, ed incapace di arrecare danno alle persone. Oppure al tempio che da tempo immemore, sorge all’ombra delle sue pendici. Hinglaj, questo il suo nome, a partire dal colore (rosso acceso) dei pigmenti che ricoprono la pietra circostante. Un luogo di raccoglimento posto al termine di un viaggio, cui fa seguito l’evento più importante: arrampicarsi sulla conica montagna, sotto il sole ardente del Balochistan, regione sulla costa pakistana, con il fine di chiamare a se la l’attenzione della divina Sati, un tempo stata la consorte di Shiva, grande distruttore cosmico della Trimurti. Colei che più di ogni altra può comprendere le debolezze che ci affliggono, essendo morta suicida per il solo disamore di suo padre, poco prima che altri esseri del pantheon indù, temendo la furia ed il dolore del suo vedovo marito, ne smembrassero spietatamente il corpo, disseminandone i resti in diverse regioni della Terra. Luoghi come questa regione desertica di Makran, ove la testa di costei, precipitando fino alle regioni più profonde dell’esistenza, avrebbe scatenato una tempesta geologica che dura tutt’ora. Come altri rilievi appartenenti a questa specifica categoria, l’interessante “Vulcano della Luna” espleta la sua funzione come valvola delle pressioni sotterranee soprattutto in forza degli spostamenti gassosi in senso verticale, che risalendo il suo camino trascinano una certa quantità di componenti minerali e acqua, generando in questo caso una commistione di colore biancastro dalle caratteristiche sostanzialmente innocue, eppure giudicate molto significative. Poiché si intende che il pellegrino, una volta completato il suo lungo e preferibilmente faticoso viaggio, compia le sue offerte di cibo e preghiere tenendo il proprio sguardo fisso sul cratere ribollente in vetta, nella speranza che esso espliciti la propria ribollente inquietudine in maniera tale da implicare il sommo perdono della Dea. Questa regione dal clima particolarmente inclemente, famosamente descritta da un inviato militare del califfato Rashidun (643 d.C.) come “Terra in cui il terreno è roccioso; l’acqua scarseggia; i frutti sono incommestibili; gli uomini tradiscono; niente è chiaro e la virtù ha poco valore […]” ha invece assunto attraverso l’epoca un valore sincretistico, attraverso l’alta considerazione da parte delle tribù locali di religione islamica, pronte anch’esse a visitare occasionalmente il santuario di Hinglaj. In epoca moderna, del resto, l’area del Balochistan circondata da oltre 80 vulcani di questa natura ha più volte dimostrato la propria furia nei momenti peggiori, tra cui il terremoto del 1935, a seguito del quale un rilievo a nord di Quetta continuò ad eruttare il suo freddo contenuto per un periodo di circa 9 ore continuative. O quello ben peggiore, in termine di pericolosità e perdite di vite umane, verificatosi nel 1945 con epicentro nell’area antistante del Mar Arabico, con conseguente tsunami dell’altezza di 13 metri che finì per costare la vita a 4.000 persone. Attività sismiche meno significative hanno inoltre l’abitudine di verificarsi continuamente al confine tra terra ed acqua, portando alla rinomata comparsa temporanea di un certo numero di isole di fango tra cui l’ultima del 1999, quella di Maran, venne sommersa soltanto un anno dopo per tornare nuovamente nel 2010. A solenne testimonianza degli inconoscibili misteri, che ancora resistono al di sotto del transito dei nostri piedi immanenti.

Come osservabile in queste riprese del vicino vulcano di fango di Kund Malir, i flussi emanati da simili rilievi non costituiscono alcun tipo di pericolo per gli umani ed è persino possibile affondare i propri piedi nel candido fiume, senza riportare alcun tipo d’immediata conseguenza.

La festa annuale dello Hinglaj Yatra, in effetti dedicata non propriamente a Sati bensì alla sua emanazione o sorella divina che porta lo stesso nome del tempio, è quindi un evento estremamente importante per l’intera regione che coinvolge ogni primavera fino a 40.000 persone, indifferentemente appartenenti alle religioni induista, zoroastriana e sufi. In quanto tale, essa costituisce la più importante ricorrenza non islamica all’interno di un paese a maggioranza musulmana. Storicamente, il viaggio verso il vulcano freddo doveva essere compiuto preferibilmente lungo 160 miglia di deserto a partire dalla città di Karachi, con auspicabile collasso multiplo per lo sfinimento al fine d’espiare in maniera completa le proprie azioni impure. Attraverso i secoli, tuttavia, vennero ammessi mezzi di trasporto come barche, cammelli o muli, benché invise ai più tradizionalisti, ed in epoca contemporanea la costruzione di nuove strade ha effettivamente permesso per la prima volta di compiere il pellegrinaggio facendosi trasportare da mezzi a motore, con conseguente aumento del numero dei fedeli disposti a compierlo, facendo seguito al proprio ancestrale bisogno di perdono divino. L’effettivo compiersi del rituale quindi, secondo un copione lungamente collaudato, prevede la preparazione del roti (il cosiddetto “pane indiano”) in una grande cucina collettiva, per poi iniziare la lunga scalata in cima al più alto monte del gruppo di cui ogni membro viene chiamato indifferentemente Chandragup, alto circa 100 metri ed assai probabilmente tra i maggiori vulcani di fango al mondo, al fine di offrire in maniera rituale il cibo e un certo numero di noci di cocco alla Dea. Altri esprimono desideri o cercano il buon augurio dei poteri sovrannaturali, coprendosi il volto del fango bianco e disperdendo petali di rosa sul sentiero. Un’altra attività diffusa è la costruzione con tale sostanza di piccole case pallide, in grado di alludere all’abitazione che un giorno, tutti quanti vorrebbero giungere a possedere. In un’epoca più remota fatta risalire idealmente fino al XIV secolo, non era del resto inaudito che i pellegrini morissero per lo sforzo in questo momento culmine della propria impresa, eventualità a seguito della quale venivano sepolti invece che bruciati sulla pira, con il probabile fine di dimostrare, attraverso i secoli, l’enorme e incomparabile potere della fede. Simili estremi, del resto, appaiono quest’oggi impossibili, con le significative concessioni di natura pratica, tra cui quella degli incaricati del tempio che ripescano le noci di cocco offerte nel fango del cratere, per rivenderle nuovamente alla successiva ondata di praticanti giunti fino a quei territori remoti. Ogni risorsa, del resto, non può che essere limitata nel tempo è ciò è particolarmente vero per l’arida e inospitale regione di Makran. La persistente sacralità di questi luoghi, del resto, ancora resiste avendo impedito al gruppo vulcanico del Chandragup di diventare, come successo per luoghi simili nel vicino Azerbajian, una mera attrazione turistica, nonostante gli eccezionali meriti del paesaggio ed il panorama osservabili da tali vette faticose, capace di estendersi fino alle vicine acque splendenti del Mar d’Arabia.

L’eruzione di un vulcano freddo costituisce una vista potenzialmente ben diversa dalle nostre tipiche aspettative in materia, aprendo la mente verso l’insuperabile varietà della natura. Forse anche per questo, i vulcani del Balochistan furono sempre considerati sacri.

Secondo la leggenda più strettamente collegata alla fondazione del tempio di Hinglaj, la ragione del suicidio di Sati fu il rifiuto da parte di suo padre Daksha, uno dei figli del creatore Brahma, di invitare lei e il neo-consorte Shiva alla Daksha-Yajna, importante festa per riunire ed onorare gli dei dell’India. Evento a seguito del quale, profondamente offesa e prossima alla disperazione, ella decise di autoimmolarsi attraverso l’attivazione intenzionale dei propri centri del chakra. Perciò Shiva, percependo la dipartita di colei che amava più di chiunque altro, raccolse il suo corpo e con esso inscenò la terribile danza Tandavi, che precorre a una catastrofe che riporta all’inizio la ruota delle Ere. Prima che ciò potesse avvenire, tuttavia, il corpo di lei venne smembrato dai poteri della provvidenza, inducendo nel dio della distruzione a meditare su quello che stava facendo e pentirsi, decidendo inoltre di riportare in vita tutti coloro che avevano già subito un fato crudele ed immeritato. Un epilogo forse riconducibile alla rinascita e il ritorno alla normalità di una terra occasionalmente colpita da gravi terremoti, la cui effettiva origine non poteva che sfuggire alle cognizioni scientifiche degli antichi.
Sia che il perdono di colei che risiede nelle regioni sotterranee possa essere ottenuto, sia che continui ad eludere purtroppo la faticosa ricerca dei pellegrini, il vulcano di Chandragup continuerà per secoli e millenni ad emettere la stessa combinazione di terra, acqua e gas di varia natura tra cui elio, anidride carbonica, nitrogeno e soprattutto metano. Affinché il difficile collegamento tra terra e cielo, da noi umani tanto a lungo ipotizzato per vie culturalmente rilevanti, possa continuare a perpetrarsi implacabile attraverso il corso degli eventi. Eternamente disinteressato ed in contrapposizione, persino, alle alterne peripezie di coloro che parteciparono alla creazione dell’Universo.

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