Centralia, una città condannata dagli oscuri veleni del suo sottosuolo

72 anni sono passati. Ed altri 250, secondo le stime informate, dovranno trascorrere, prima che la terra inizi anche soltanto a raffreddarsi. Quando si pensa ai più grandi errori nella storia dell’ingegneria, ciò che sorge dinnanzi allo sguardo della mente è sempre quella forma riconoscibile della tomba dei faraoni. Con al vertice sottile, il singolo fattore scatenante, letterale o metaforico cerino, sostenuto dai segmenti progressivi dell’incompetenza, distrazione o le ottime intenzioni. Ma alla base del malcapitato mausoleo, le cui conseguenze possono essere letali, non può che esserci la hubris, anche detta tracotanza, quella convinzione dell’umano medio di potersi definire il solo artefice del suo destino. Oppur di quello, se le cose prendono una svolta particolarmente sfortunata, di un’intera comunità di oltre 1.500 persone, destinata a ridursi, progressivamente, a soli 7 individui. E fu così che nel 2002, il servizio postale statunitense cancellò dall’elenco dei codici postali il 17927, corrispondente a una piccola città dello stato della Pennsylvania, decretando dinnanzi alle cronache del mondo il suo assoluto stato di presente, futuro e irrimediabile abbandono. Sarebbe tuttavia profondamente assurdo voler pensare, anche soltanto per un attimo, che tale scelta fosse stata presa alla leggera, quando le sue origini in effetti, possono essere direttamente collegate a una mattina ben precisa, del 27 maggio 1962, quando l’orrido sospetto venne finalmente confermato: che all’interno delle vecchie miniere abbandonate di Centralia, PE, ardeva un vasto inferno di carbone. Le cui fiamme, per quanto incredibile possa sembrare, ancora oggi ardono con enfasi immutata.
Coal-seam fire è il termine tecnico, generalmente usato per riferirsi all’evento catastrofico e del tutto naturale di uno spazio sotterraneo, ricco dei resti fossili della foresta, che all’improvviso sperimenta la combustione spontanea (probabilmente per un’innalzamento improvviso della temperatura) e un poco alla volta si trasforma in brace che non sembra mai riuscire a consumarsi, data la limitata quantità d’ossigeno presente nel sottosuolo. Ed in effetti fu proprio questa, da principio, la spiegazione usata in termini ufficiali dall’amministrazione cittadina dinnanzi agli abitanti, i media e i proprietari della miniera. Finché a qualcuno non venne in mente di collegare, in maniera alquanto semplice, l’impresa di quel giorno stesso relativa all’uso del fuoco per liberare la discarica di superficie nei pressi del cimitero cittadino, designata pochi anni prima al fine di eliminare in un sol colpo diversi siti di scarico abusivo della spazzatura. Discarica composta, nei fatti, da una grande buca nel terreno, sul cui fondo viene ritenuta oggi probabile la presenza di un pertugio insospettato. Collegato purtroppo alle propaggini del dedalo di combustibile color corvino. Fu una realizzazione, da principio, graduale: definita nel momento in cui i cinque membri del corpo dei vigili del fuoco incaricati di supervisionare le operazioni spensero i lembi di fiamme piene di diossina, soltanto per vederle rispuntar di nuovo. Ancora e a distanza di ore, come se qualcosa continuasse ad alimentarle da una sorta di dimensione parallela. Oppure, perché no, sottostante… Nel giro di una settimana, quindi, la situazione non sembrava intenzionata a migliorare, così che la città chiamò sul posto un bulldozer al fine di rimuovere forzatamente la spazzatura infuocata, se non che a un certo Art Joyce, ispettore minerario, venne in mente d’impiegare in-situ il proprio armamentario per la misurazione del monossido di carbonio. Rivelando, in un sol attimo, la vera ed orrida realtà: l’intera miniera aveva ormai ricevuto il dono trasformativo del fuoco. E il destino stesso dell’intera città, contrariamente a quanto si potesse pensare, era ormai segnato…

In questo documentario del 1982 è possibile osservare il destino di un luogo ancora gremito della sua popolazione, fermamente intenzionata a restare vicina alle proprie abitazioni ed i luoghi in cui è cresciuta. Ma le basse ciminiere lungo il passaggio delle strade, usate per convogliare e lasciar uscire il monossido, raccontano una storia particolarmente grave…

L’incendio di una miniera di carbone non è un evento sostanzialmente ignoto, generalmente risolvibile mediante l’unica possibile scelta di abbandonarla, subito ed integralmente, portando i propri attrezzi ed il personale di supporto altrove. Scelta problematica quando, come nel caso di Centralia, la succitata tracotanza umana aveva portato un intero insediamento relativamente popoloso a sorgere in cima al cumulo di tali e tante, mal riposte speranze. E gli effetti di un simile drammatico evento, per quanto difficili da prevedere in maniera precisa, potevano già riassumersi in due filoni, altrettanto gravi: in primo luogo, l’avvelenamento progressivo della gente di superficie, causa l’emissione attraverso il suolo stesso di copiose quantità di quel veleno invisibile e talvolta letale, il monossido di carbonio. E secondariamente, il progressivo indebolimento delle fondamenta stesse del consorzio urbano, con progressiva distruzione di ogni strada, struttura o altro elemento artificiale che faceva parte di esso. Furono quindi messe in atto, una dopo l’altra, una serie di rapide misure finalizzate a risolvere il danno. La prima si sarebbe rivelata inconcludente quando verso l’inizio di agosto un operatore minerario locale si offrì di scavare fino alla fonte stessa del fuoco, permettendone lo spegnimento, a patto che gli venisse permesso di tenere il carbone in tal modo guadagnato. Ma la misura fu giudicata imprudente anche dato il notevole indebolimento della miniera causa eccessivo sfruttamento pregresso, già dimostratosi capace di portare alla distruzione dei pilastri di terra stessi che avrebbero dovuto sostenerne le oscure sale. Così il primo intervento fu messo in atto soltanto il 12 di quel mese, esattamente tre giorni dopo che la miniera era stata ufficialmente chiusa per le quantità ormai letali di monossido; si trattò, essenzialmente, di un tentativo simile a quello precedentemente teorizzato ma di entità più grande ed organizzata, condotto dalla compagnia mineraria Bridy Inc, di Mount Carmel, per la cifra allora niente affatto irrisoria di 20.000 dollari (corrispondenti ad oltre 170.000 $ dei nostri giorni). L’operazione, tuttavia, fu non soltanto inutile ma deleteria: sembra infatti che l’apertura di vasti pertugi avesse contribuito ad alimentare con l’ossigeno il fuoco, spingendolo ancor più in profondità ed impedendone nei fatti lo spegnimento. Un secondo tentativo venne fatto ad ottobre di quello stesso anno, finalizzato invece al soffocamento mediante barriere di sabbia del fronte ardente, dietro l’investimento di ulteriori 28.400 dollari (239.000 odierni) e con la partecipazione della K&H Excavating. Se non che l’umidità invernale, unita a temperature più basse del normale, avrebbe portato allo scivolamento inefficace del materiale fuori dall’alto lato della montagna. Ed a quel punto fu chiaro come, volente o nolente, la popolazione di Centralia avrebbe dovuto imparare a convivere con il fuoco.
Se mai una cosa simile fosse stata possibile! Nel giro del primo anno, quindi, un municipio ancora lungi dal dichiararsi sconfitto fece costruire le famose ciminiere ai lati delle strade, usate per prevenire il pericoloso accumulo di monossido sotto le abitazioni civili. Mentre la gente, scherzando sulla propria condizione, godeva del calore insolito che scaturiva dal sottosuolo, al punto che la stagione successiva fu possibile effettuare il raccolto dei pomodori a Natale. Qualcuno comprò un canarino, confidando che il volatile si sarebbe ammalato prima di loro, nel caso in cui il veleno avesse iniziato ad accumularsi nelle stanze della propria abitazione. Tra gli anni ’70 e ’80 furono quindi in molti, tra scienziati, tecnici ed ingegneri, a tentare di convincere il governo del pericolo, mentre il fuoco continuava ad ardere lontano dagli occhi e le coscienze delle persone. Finché nel 1979, il proprietario della stazione di servizio cittadina rilevò temperature eccessivamente alte nei suoi serbatoi di carburante, al punto che avrebbero potuto esplodere da un momento all’altro. La struttura, quindi, dovette essere svuotata, chiusa e demolita, diventando così la prima di una lunga serie. Ma fu nel 1981 che l’incendio sotterraneo di Centralia ritornò a far notizia, quando un bambino di 12 anni finì quasi per cadere nella voragine spalancatosi, improvvisamente, nel suo giardino. Salvandosi unicamente grazie all’intervento del cugino, che gli tese una mano tirandolo letteralmente fuori dalla bocca fumigante ed oscura dell’inferno stesso.

Molti sono stati i segmenti televisivi realizzati, attraverso gli anni, sul tema di Centralia, capace d’ispirare tra l’altro un lungo filone di film catastrofisti e dell’orrore. Il più famoso dei quali, probabilmente, resta l’adattamento per il grande schermo del videogioco Silent Hill, girato nel 2006 dal regista francese Christophe Gans.

Tale evento, quindi, fu giudicato la proverbiale goccia capace di far traboccare il vaso. Così che il governo iniziò ad acquistare con laute spese le case della gente di Centralia, allo scopo preventivo di trasformare la ridente, ma condannata cittadina in un luogo disabitato. Furono quindi spesi circa 42 milioni di dollari, finché all’inizio degli anni 2000 qui rimasero soltanto poche decine di persone, poi neanche più quelle. Quasi ogni singola casa demolita, con l’eccezione del municipio e poche altre, soltanto le strade dall’asfalto crepato rimasero immutate, mentre una in particolare, parte della Pennsylvania Route 61, divenne il bersaglio preferito dei vandali, venendo ricoperta di graffiti (soprattutto raffiguranti, come spesso capita, l’organo genitale maschile). L’intero sito, quindi, diventò una meta di pellegrinaggio per gli amanti delle situazioni orrorifiche o misteriose, oltre che pista prediletta per gli amanti del motocross e le escursioni in ATV, sostanzialmente incuranti dei molti cartelli di pericolo per possibili voragini o improvvise emissioni di monossido di carbonio. Ma anche questo, difficile negarlo, era destino.
Perché nulla può essere dimenticato, tranne tutto quello che ogni giorno, a discapito di prudenza, sincerità o senso civico, continua a sfumare entro le stanze della nostra imperfetta memoria. Ricordando fin troppo da presso il carbone di un’eterna, invisibile e altrettanto inconfutabile brace.

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