Lo Zen e l’arte di vestirsi nel kendo

In una scena intimamente legata alla percezione nazionale del bushido, codice comportamentale dei samurai messo formalmente per iscritto soltanto tra il 1709 e il 1716, un guerriero trionfatore di molte battaglie assiste per caso alla scena di un ladro col coltello che ha preso in ostaggio un bambino, rifugiandosi all’interno di un granaio. Facendosi quindi prestare le vesti da un monaco che assisteva impotente, costui si avvicina in modo amichevole al criminale, offrendogli attraverso la porta un paio di polpette di riso. Nel momento in cui quest’ultimo sembra sufficientemente distratto, quindi, l’uomo lo disarma con un solo fluido movimento, ribaltando la sorte terribile della giornata. Un racconto il quale, oltre a far parte di una delle prime e più memorabili sequenze de “I sette samurai” di Akira Kurosawa, viene tradizionalmente associato alla figura di Kamiizumi Nobutsuna, generale del Sengoku Jidai (Epoca del Paese in Guerra – 1467-1603) nonché fondatore della scuola di combattimento Shinkage-ryū, una delle prime a realizzare come l’epoca delle armi bianche stesse finendo, lasciando il passo a tutta la potenza espressa da un semplice moschetto con la miccia pronta ad ardere nell’ora del bisogno. E proprio qui troviamo ancora una volta, tra le altre cose, la sola ed unica vittoria del condottiero che non necessita neppure di tirare fuori le sue armi, avendo raggiunto uno stato di comprensione pressoché totale del suo nemico, come seppe fare egli nel momento in cui passò a servire il clan degli Uesugi, difendendo per sette anni il castello di Minowa dalla furia incontenibile della tigre del Kai, Takeda Shingen. Ma Nobutsuna resta anche interconnesso all’invenzione di una nuova metodologia d’addestramento dei suoi sottoposti, in cui essi venivano incoraggiati a fare pratica di scherma non più usando delle pericolose spade vere, o il potenzialmente altrettanto letale bokken (pezzo di legno lavorato per avere forma, dimensioni e peso equivalente) bensì un nuovo oggetto di sua personale concezione, costituito da una serie di 16 stecche di bambù legate assieme e ricoperte da un’involucro di cuoio. Concepito per piegarsi quando venivano vibrati i colpi, permettendo in questo modo d’incassarli senza riportare alcun tipo di danno permanente. E quando neanche questo sembrò più bastargli, dinnanzi alla necessità di una preparazione superiore per quell’epoca di cambiamenti, decretò che gli studenti succitati indossassero anche un qualche tipo d’armatura leggera, in qualche modo capace di riprendere le funzionalità di quella usata in battaglia.
Da principio, ad ogni modo, non esisteva un particolare standard di realizzazione per simile abbigliamento, situazione destinata a proseguire almeno fino all’epoca Shōtoku (1711–1715) durante cui Naganuma Shirōzaemon Kunisato, considerato l’effettivo fondatore dell’arte marziale del kendo (剣道  – Via della spada) codificò l’impiego degli odierni shinai ( 竹刀 – spada di bambù) e bōgu (防具 – armatura) entrambi elementi propedeutici a finir di trasformare l’eterna ricerca di una serie di tecniche d’uccisione pressoché istantanea in un vero e proprio sport, praticabile senza nessun tipo di conseguenze ai danni di chi desiderasse cimentarsi nel praticarlo. In una perfezione concettuale che riemerge, molto chiaramente, dall’osservazione del qui presente video facente parte del ricco repertorio di THE MAKING, pluri-decennale serie televisiva giapponese incentrata sulla fabbricazione degli oggetti di “uso comune” esattamente come l’occidentale How It’s Made canadese. Nel corso del quale, con la tipica perizia artigiana di questo paese, un sapiente creatore mette assieme tutti gli elementi necessari alla creazione di una panoplia completa, a partire dall’iconica e perfettamente riconoscibile maschera del guerriero…

Sfidando un avversario abbigliato in un’atipica ed interessante bōgu da kendo di colore bianco, l’esperto praticante Alex Bennett dimostra quali siano gli specifici punti da colpire al fine di ottenere un ippon (punto)

Come uno dei principali bersagli per gli attacchi dell’avversario quindi, è semplicemente naturale che il men (面) ovvero pezzo indossato per proteggere la testa sia anche quello dalla concezione maggiormente complessa e frutto di ulteriori gradi di perfezionamento. Tutto inizia dalla creazione della mengane o rete di protezione in metallo, oggi realizzata generalmente in titano o duralluminio per la leggerezza e resistenza di questi due specifici materiali. Componente al fine di creare il quale, quindi, ciascun singolo elemento viene attentamente plasmato e ribattuto al fine di fissarlo in posizione, verso l’ottenimento di una forma che idealmente dovrebbe “vestire” lo specifico volto del praticante, piuttosto che coprirlo come nel caso di un elmo di concezione bellica convenzionale. L’interno della griglia viene quindi dipinto di rosso secondo la tradizione, per ridurre i riflessi e prevenire (convenzionalmente) la formazione di una patina ferrosa in grado di tingere il volto del guerriero. A completare l’elemento il cosiddetto menbuton, una serie di strati imbottiti di diverse stoffe, tra cui lana, feltro e cotone, che avvolgono la parte frontale e laterale della testa ma non il retro, lasciato aperto per assicurare una migliore ventilazione. Il secondo pezzo in ordine d’importanza è quindi il dō (胴 – protezione per il torso) che può essere realizzato mediante diversi materiali o processi artigianali. Quello dimostrato nel video di THE MAKING quindi verte prevedibilmente sulla versione più costosa e complessa dal nome di Honnuri Dō, creata a partire da una serie di stecche di bambù legate assieme e successivamente ricoperte di una striscia di cuoio, prima di essere verniciate con la lacca urushi, in un processo che ricorda vagamente la creazione di una piccola botte per il vino. Il numero di stecche utilizzate, in genere, viene considerato propedeutico a indicare la qualità costruttiva del bōgu, con alcune delle varianti più pregiate in grado di contarne 64, 80 o persino 120. Nel proseguire del processo, quindi, l’artigiano passa alla produzione dei kote (小手 – guanti d’arme) inclusivi di protezione per i polsi, anch’essi bersaglio legittimo nel corso del combattimento, creati da una combinazione della stessa stoffa usata nel menbuton e un ulteriore “guscio duro” creato con diversi strati di pelle di cervo. Alcune versioni moderne dell’oggetto prevedono inoltre una fodera rimovibile e lavabile, mentre per quanto concerne la cucitura propriamente detta di tali prodotti tessili, estremamente dispendiosa in termini di tempo, è noto come questa venga normalmente riservata in varie parti del Giappone al lavoro dei carcerati. A completamento della propria panoplia, quindi, il kendoka (praticante del kendo) indossa un tare (垂れ – protezione per la vita) composto da stoffa imbottita per coprire le cosce e l’inguine: entrambe zone che non vengono mai prese di mira durante uno scontro, benché possano venire colpite accidentalmente nelle fasi più concitate dello stesso.
Una volta che inizia l’azione, quindi, ogni singolo componente dell’armatura dimostra immediatamente la sua funzionalità d’impiego presunta: gli stessi colpi previsti dalla dura disciplina del kendo verso l’ottenimento di un ippon prevedono che soltanto le parti maggiormente protette possano esser fatte oggetto di attenzione da parte dello spadaccino rivale: men, sayu-men e yoko-men (sommità, destra e sinistra della testa) il kote destro in qualsiasi momento, il kote sinistro quando viene sollevato. la parte sinistra o destra del . È inoltre previsto, soltanto nelle competizioni tra maestri o guerrieri particolarmente esperti, un settimo colpo in affondo in corrispondenza della gola (突き- tsuki) potenzialmente pericoloso nonostante la spessa imbottitura prevista in tale posizione dal menbuton.

Come qui dimostrato dal kendoka Andy Fisher, lo stesso gesto d’indossare il bōgu non è affatto semplice e può essere considerato parte fondamentale dell’ingresso in uno stato meditativo di preparazione al combattimento. Particolarmente importante il tenugui ( 手拭い – fazzoletto) da portare sotto l’elmo, come ulteriore imbottitura a prevenzione dei colpi vibrati contro di esso.

Benché non venga generalmente citato come iniziatore del kendo propriamente detto, la figura di Kamiizumi Nobutsuna seppe incarnarne ante-litteram lo spirito più profondo, dimostrandosi a più riprese l’esempio perfetto di un guerriero capace di dominare le proprie emozioni, restando fedele alla necessità di condurre i membri del suo clan attraverso un turbolento periodo di guerra. Diventando famoso sotto l’egida degli Uesugi come una delle leggendarie “Sedici Lance di Nagano” prima che il suo signore morisse improvvisamente, causando la temporanea ritirata delle truppe dal castello di Minowa, che venne infine catturato dal nemico Shingen. Nonostante questo Nobutsuna, combattendo ferocemente, riuscì a fuggire coi propri uomini per diventare, in seguito, ufficiale di quello stesso signore della guerra che tanto a lungo, gli era stato un acerrimo nemico. E fu proprio durante i lunghi anni trascorsi al servizio dei Takeda, che egli sarebbe riuscito a definire le caratteristiche e le tecniche di addestramento della scuola di combattimento Shinkage-ryū. A sempiterna ed ulteriore dimostrazione che, sebbene il guerriero aderente al codice del bushido fosse per definizione pronto ogni giorno a morire, egli non dovesse in alcun modo andare incontro a tale destino, fino all’ultimo e inevitabile momento della verità. Un concetto, quest’ultimo, supremamente incarnato nello spirito, gli elementi tangibili e la stessa filosofia del kendo.

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