La villa giapponese in bilico tra la battaglia e l’ombra di un vulcano

Nel catartico caleidoscopio che sarebbe stato, alle soglie del XVII secolo, l’epocale scontro sulla piana di Sekigahara, può essere definito estremamente rappresentativo che uno degli episodi più celebri sarebbe stato quello di una sconfitta e il risultante sacrificio, momento culmine alla fine della vita di un samurai. Sto parlando, tra i molti casi, dell’ultimo atto di Shimazu Toyohisa, samurai che all’età di 30 anni si ritrovava a servire suo zio Yoshihiro, diciassettesimo capo del clan Shimazu, discendente diretto dell’antico primo dittatore militare del Giappone, nel preciso momento in cui egli scelse di schierarsi con Ishida Mitsunari, il condottiero ultimo oppositore del crescente potere di Ieyasu Tokugawa, imminente fondatore della nuova, ed ultima dinastia shogunale. Così lo ritroviamo nel folklore semi-storico, con l’armatura cupa del suo clan dal mon (emblema) dorato per noi del tutto indistinguibile da una croce celtica, che sbarra la strada al potente condottiero Ii Naomasa, supremo cancelliere nonché uno dei “quattro guardiani” dello schieramento nemico, intento ad inseguire le forze rimaste isolate sotto il comando dello zio. “Fai un altro passo, e sarò io ad avere la tua testa” disse quindi Toyohisa, prima di lanciarsi alla carica, coi pochi uomini rimastogli, contro le schiere molto superiori del suo potentissimo avversario. Finendo così tragicamente ed eroicamente impalato sulle lance della fanteria di prima linea, con tutto il suo cavallo, i vessilli e le speranze di vittoria. Ma non prima, almeno questo narra la leggenda, di riuscire a sparare un singolo colpo con il suo moschetto ad avancarica teppo dritto all’indirizzo della spalla di Naomasa, sfruttando in questo modo al meglio una delle innovazioni occidentali importate segretamente presso l’isola del Kyūshū dagli uomini del suo clan incline ai commerci internazionali. Caso volle, quindi, che al posarsi delle polveri della battaglia e trascorsi alcuni mesi, il vittorioso Tokugawa avrebbe collocato il suo cancelliere al comando di un enorme feudo per ricompensarlo, esattamente pochi giorni prima che complicazioni di salute dovute alla vecchia ferita, mai completamente rimarginata, lo portassero a una morte lenta e dolorosa.
Nel decesso di Toyohisa, capace di salvare lo zio e i vessilli ritardando l’inseguimento, è quindi possibile rintracciare tutta la saldezza d’ideali e la coerenza degli Shimazu del dominio di Satsuma, così drasticamente differente dal comportamento di altri clan sulla pianura di quella battaglia finale, noto teatro di ritardi intenzionali, rinforzi mancati e tradimenti all’ultimo momento dietro la promessa di retribuzioni future. Tornato presso la sua isola, quindi, lo zio Yoshihiro avrebbe avuto modo di consolidare nuovamente il suo potere dall’imprendibile castello di Kagoshima. Già impegnato in un lungo e difficoltoso assedio presso la città di Osaka, Tokugawa non l’avrebbe mai punito, relegandolo piuttosto nella schiera dei signori feudali cosiddetti tozama, ovvero degni di poca fiducia, in quanto lontani dalla visione del nascente governo shogunale sotto l’egida del suo sconfinato potere. Con la cessazione delle guerre e un ruolo amministrativo soltanto locale, dunque, i suoi eredi avrebbero cercato i piaceri di un diverso stile di vita, forse meno di rilievo, certamente non incandescente per la furia della battaglia. Ma carico di un tipo di calma che fin dal remotissimo principio, era stato un elemento determinante nella creazione degli ideali dei samurai.
Fu quindi il diciannovesimo capo del clan rinominato Satsuma, Shimazu Mitsuhisa, a far materializzare la necessità di un nuovo tipo di residenza, così radicalmente differente dalle orgogliose ed alte mura del castello di Kagoshima, in quanto costruita direttamente sulle assolate coste antistanti all’alto vulcano di Sakurajima, situato (allora) su di un’isola sul ciglio meridionale più estremo dell’intero Giappone.
Ed il nome di una simile tenuta: Sengan-En (仙巌園). Nell’opinione di molti, un giardino simile non c’era mai stato. Né sarebbe stato mai creato uguale…

Nell’area dedicata alla ricostruzione storica dell’importante complesso campeggia un impressionante cannone di 150 libbre, il maggiore mai costruito nell’epoca Edo, usato dal clan di Satsuma per difendersi da una flotta inglese che attaccò la baia di Kagoshima nel 1863, come ritorsione per l’uccisione di un mercante. Un episodio ricordato dal romanziere storico americano James Clavell, nella sua celebre Asian Saga.

Risulta molto rappresentativo, così come la vicenda qui narrata, il fatto che alcuni dei maggiori lasciti architettonici dell’epoca Edo (1603 – 1868) siano definiti da elementi transitori come case in legno, giardini ricchi di vegetazione o il corso sinuoso di canali artificiali, usati per riprodurre in piccolo elementi del paesaggio innanzi alla grande sala di una signorile magione. Ma è proprio il fatto che in queste ultime la prassi prevedesse, a seconda della stagione, l’utilizzo di pareti rimovibili, a dar luogo alla necessità di creare ambienti esterni attentamente arredati e al tempo stesso selvatici e fuori controllo in apparenza, come il cuore di un eroe alle prese con l’eterna rivalità della natura. Così che, al giorno d’oggi, nel Sangan-en non c’è un singolo arbusto che possa dirsi esattamente identico a quelli utilizzati originariamente per dar corpo alla visione di Mitsuhisa. Eppure essa sopravvive, indefessa, grazie alla memoria che permane dentro al cuore e l’anima (kokoro) delle persone.
Elemento estremamente utile a definire la magione, dunque, sarebbe stato proprio quel vulcano temporaneamente spento di Sakurajima, usato come filo conduttore e invero parte del paesaggio artificiale stesso, tramite la tecnica decorativa del “paesaggio in prestito” finalizzato ad integrarlo e qualche volta addirittura incorniciarlo, mediante un gioco di prospettico per lo più istintivo, tra i principali elementi del Sangan-en. Così come l’alta porta col tetto di stagno, da dove soltanto il signore col suo seguito aveva il diritto di fare il proprio ingresso in un simile luogo, pensato al tempo stesso con finalità meditative e al fine di rilassarsi, allontanandosi occasionalmente dai complessi giochi politici della burocrazia samurai. Il tutto prima di dirigersi verso la casa principale, col suo giardino interno dotato di laghetto con una rientranza ottagonale al centro esatto, un diretto e chiaro riferimento alla simbologia taoista d’importazione cinese. Una vicinanza geografica con le terre situate direttamente ad Ovest del Kyushu, questa, che si rispecchia in altri elementi del giardino, come il boschetto di bambù Moso creato a partire da piante ricevute in dono dalle isole Ryukyu (Okinawa) nel 1736, fatte includere formalmente nei domini del clan dai successori di Ieyasu, al fine di placare alcuni tra i suoi più orgogliosi e imprescindibili nemici sin dai tempi di Sekigahara. Ed ancor prima di questo, il tempietto dedicato ai gatti fatto trasportare sin qui dal castello di Kagoshima, secondo una leggenda al fine di onorare gli otto felini trasportati dallo stesso Yoshihiro in battaglia come letterali orologi viventi, durante la sua storica campagna in Corea condotta tra il 1592 e il 1597, prima che la sconfitta in quel fatidico giorno portasse alla fine dei suoi sogni d’egemonia. Pare infatti che in Giappone a quei tempi, si pensasse che osservando l’iride dei gatti fosse possibile conoscere l’ora esatta del giorno, al fine di pianificare attacchi combinati o altre ingegnosi approcci strategici al conflitto in armi, idea estremamente distante, possiamo soltanto presumerlo, dagli odierni visitatori di un simile luogo, raccolti in preghiera per il benessere dei propri amici a quattro zampe. Con una matrice decisamente più nipponica si presenta invece il secondo tempio, in ordine di tempo, di Tsurugane, dedicato agli antenati del clan Shimazu e collegato in modo particolare alla figura di Kamujuhime, figlia di Yoshihiro dalla leggendaria bellezza famosamente lodata dallo stesso Hideyoshi, grande capo militare il cui figlio aveva costituito il casus belli all’epoca di Sekigahara. Così come l’area del giardino del kyokusui (fiume serpeggiante) ove il ventunesimo signore del clan Shimazu, Tsunataka, era solito organizzare gare di poesia riconducibili alle tradizioni medievali di epoca Heian (794-1185) durante le quali i partecipanti erano chiamati a comporre versi prima che una coppa di saké galleggiante giungesse fino a loro, pena la necessità di berne in un sorso l’inebriante contenuto (forse non la peggiore punizione immaginabile, in fin dei conti).
Attraverso il procedere delle decadi, quindi, la villa di Sangan-en sarebbe diventata, anche a causa della sua collocazione strategica alle porte del Giappone, un importante luogo per accogliere dignitari e capi di stato stranieri…

Il giardino del Sang-en è un notevole susseguirsi di scorci memorabili ed all’apparenza privi di elementi distintivi, finché non si avvicina lo sguardo ai più minuti e notevoli dettagli.

Conclude il giro di una simile località d’importanza culturale straordinaria, un’area dedicata al museo commemorativo del clan Shimazu, costruita a ridosso di una fonderia con forno a riverbero e l’antistante officina di lavorazione del vetro, ancora operativa e particolarmente famosa in Giappone. Un doppio riferimento all’elemento incandescente del fuoco, che in qualche maniera, nelle epoche successive, avrebbe portato bene alla scintillante magione.
Avvenne infatti nel 1914 che il Sakurajima, un vulcano ancora oggi considerato tra i più potenzialmente pericolosi del mondo, eruttasse con furia senza precedenti, riversando copiose colate laviche all’indirizzo delle coste del Kyushu meridionale. Annunciate da un’esplosione piroclastica e colonne di cenere, capaci di radere al suolo un’intera cittadina periferica, e finendo per costare la vita a 35 persone. L’intera baia di Kagoshima venne quindi modificata e i suoi fondali diventarono più bassi per l’effetto della pietra solidificata, mentre l’isola/montagna usciva trasformata, da un simile evento, in penisola direttamente collegata alla terra ferma.
Fatto sta che un simile disastro, fortunatamente e per i casi alterni della storia, mancò di dare sfogo a tutta la sua furia verso le vulnerabili regioni amene del Sangan-En, in grado di cavarsela miracolosamente illeso, ancora una volta, dall’intento apparentemente distruttivo degli accadimanti. Così come il clan Shimazu era riuscito a sopravvivere all’apocalisse finale della grande battaglia di Sekigahara: per la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra. Poiché esistono valori estetici, chiaramente irrinunciabili, che sembrano mancare di simili confini o cognizioni. Essi semplicemente resistono, immutati, alle inclementi maree delle epoche trascorse.

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