La prima regola per l’estrazione dell’uranio

Sotto il suolo del Saskatchewan settentrionale, nella parte gelida del Canada, un tesoro senza tempo né confini: il più grande giacimento mai trovato al mondo del minerale uranio. Un metallo bianco-argenteo, un tempo trasportato dai numerosi affluenti del fiume McArthur, oggi ritornati nelle viscere del mondo. Ma i suoi depositi residui, no. Terreno ben compatto, tutt’altro che friabile, rimasto in pace per generazioni. Finché nel 1988 qualcuno, finalmente, non si è armato di contatore Geiger. E giungendo presso questi luoghi, ha iniziato a udire il suono tic-tic-tic-tic […] subito seguìto dalle ruspe, le trivelle, i mezzi da cantiere della Cameco (Canada Mining and Energy Corporation) usati per costruire una delle miniere più famose, e redditizie, dell’intero panorama estrattivo nordamericano. E adesso…Chi lo sa, come funzione tutto questo? Come può essere acquisito quel segreto di un successo che parrebbe destinato a durare ancora molto a lungo, vista la riserva stimata di 1.037.400 tonnellate di U3Opuro al 15,76%, più che conforme agli standard medi del settore. Quasi nessuno, a quanto pare, fino a poco tempo fa. E adesso tutti, pressapoco, grazie all’episodio dedicatogli dall’ultra-popolare trasmissione canadese “How it’s Made” (Come è Fatto) andato in onde in dozzine di paesi del mondo. Il 360° per essere precisi, dopo due segmenti dedicati rispettivamente agli endoscopi ed ai megafoni, rigorosamente pubblicati con intento divulgativo sul canale YouTube dello show. Ma qui andiamo oltre la semplice curiosità relativa alla produzione dei principali oggetti di uso quotidiano… Qui si sta svelando uno dei processi più importanti dell’energia contemporanea, destinato a diventarlo sempre di più con l’esaurimento dei carburanti fossili e il ritardo nell’adozione delle rinnovabili, mentre la civilizzazione tenta di aggrapparsi disperatamente alle ultime risorse del pianeta Terra. Scegliere di sfruttare un tipo d’energia piuttosto che un altro, in questa chiave d’analisi, diventa futile, semplicemente perché prima del momento finale, tutto dovrà essere trasformato e metabolizzato, pena orribili conflitti per accaparrarsene il controllo. Il ritrovamento dell’uranio, più che una gradevole sorpresa, è un impegno ed un dovere. Che presuppone un’ampia serie di processi ingegneristici più che mai collaudati.
La miniera di McArthur River funziona ha trovato i suoi ritmi grazie all’impiego di un processo di lisciviazione, ovvero separazione chimica, tramite l’impiego di sostanze acide corrosive, della roccia attentamente sminuzzata e trasportata fino ad un impianto di lavorazione non troppo distante. Ciò è conforme ai metodi impiegati in molti altri siti. Ma è l’estrazione in se, a trovarsi connotata da un procedimento assai particolare: l’AGF, o Artificial Ground Freezing, che consiste nell’inserire una serie di tubature nell’area soggetta a trivellazione in una sorta di griglia tridimensionale, collegati ad un impianto refrigerante di superficie. All’interno dei quali, quindi, vengono pompate grosse quantità d’acqua salata (che non può congelarsi) a -25, -35° C con la finalità di compattare e rendere meno cedevole il terreno. Tale approccio, considerato una best practice di qualsiasi miniera sotterranea, ha qui costituito la base degli svariati riconoscimenti ricevuti dalla Cameco per l’attenzione dimostrata nel ridurre l’impatto ambientale. Il raffreddamento del suolo infatti, oltre a renderlo più facile da lavorare, impedisce la circolazione delle falde acquifere filtranti e la loro conseguente contaminazione. Una volta completato tale passaggio per ciascuna nuova zona da trivellare, attraverso una fase che può anche durare svariate settimane di duro lavoro, si trasporta in posizione uno dei trapani più grandi che abbiate mai visto. Il quale, da un passaggio superiore al giacimento, inizia a realizzare quello che viene convenzionalmente definito il “buco pilota” un pertugio destinato a trapassare, come la lancia di un eroe medievale, l’area giudicata sufficientemente radioattiva, prima di sbucare in un’ampia area di lavoro sottostante. Alla colonna di perforamento, quindi, viene attaccata una punta del tutto diversa, definita reamer, molto più larga e con protuberanze metalliche nelle sue parti laterale e superiore. Essa viene quindi trascinata nuovamente verso l’alto, spaccando la pietra e lasciandola cadere fragorosamente verso il basso, dove una serie veicoli comandati a distanza la raccolgono e trasportano fino al segmento successivo della filiera. Nel corso dell’intero processo lavorativo, nessun essere umano viene in contatto con l’uranio radioattivo, garantendo quindi il più alto grado di sicurezza procedurale. Si passa, a questo punto, alla vera e propria fase di sminuzzamento…

Molto prima della puntata di How It’s Made, la minera della Cameco aveva rilasciato questo video di reclutamento, con una spiegazione sommaria dei metodi e i diversi ruoli dell’impianto. La gioia e l’atmosfera gioviale dei dipendenti intervistati fanno pensare a certi spot immaginifici di strane ed inquietanti distopie.

Secondo quanto orgogliosamente dichiarato dall’ufficio stampa della miniera, a MacArthur River è presente il più capace impianto sotterraneo di triturazione mineraria dell’intero settore dell’estrazione. Si tratta essenzialmente di un mulino ultra-tecnologico, che riduce la pietra con alto contenuto d’uranio in materiale finissimo, simile a una sabbia, il quale viene quindi trasferito fino a grossi serbatoi e miscelato con l’acqua, per la creazione di uno slurry o fanghiglia, inerentemente più facile da trasportare. Tutto ciò che resta da fare a questo punto, è pompare tale fluido fino in superficie, dove camion appositamente attrezzati si occupano di spostarlo fino alla fabbrica, dove riceverà il resto del trattamento necessario a trasformarlo in carburante per la produzione di energia elettrica (auspicabilmente) pulìta. L’uranio in questa fase, come dicevamo, è ancora puro solamente al 15% e non utilizzabile per la finalità che ne ha richiesto l’estrazione. Ciò che occorre fare, dunque, è trasformarlo in quella che viene convenzionalmente definita “yellowcake” una polvere giallo ocra un tempo usata come pigmento, pericolosamente radioattiva e quindi da maneggiare con estrema cura. Per separare tale sublime sostanza dalle impurità, il metodo impiegato prevede l’impiego di diversi tipi di acidi all’interno di vasche, nelle quali si depositerà naturalmente la componente indesiderata del minerale, poi sottoposto ad una serie di reazioni chimiche a temperature di circa 800° C prima di essere accuratamente “imbottigliato” negli stereotipici barili a chiusura stagna, destinati allo stoccaggio, al trasporto o all’immediata processazione ulteriore.
In questo stato, benché puro, il carburante di molte future reazioni nucleari non è ancora pronto a servire al suo scopo. C’è in effetti il processo assolutamente fondamentale, che purtroppo non viene mostrato nel documentario di How It’s Made, consistente nella separazione degli isotopi, al fine di creare i due prodotti separati dell’uranio arricchito ed impoverito. Un passaggio che può essere compiuto attraverso diversi metodi, tra cui la diffusione gassosa, il trasferimento termico o l’impiego di speciali centrifughe di vario tipo. Passaggi dopo i quali, si potrà disporre di due tipi di polveri, entrambi utili benché dal valore notevolmente diverso. Particolarmente noto, ed esecrabile, risulta essere in modo particolare l’impiego in campo bellico della parte meno radioattiva risultante dalla lavorazione, per la produzione di munizioni che tendono a rivelarsi, a lungo termine, più pericolose per gli utilizzatori che i loro nemici. Mentre per quanto concerne l’uranio arricchito, è importante notare come oggi esso non sia più utilizzato unicamente, né principalmente dai sistemi d’arma, risultando esso in effetti molto più efficiente anche per l’induzione della reazione finalizzata alla produzione di energia elettrica. Megatoni o Megawatt, alla natura ed alle leggi universali della fisica importa decisamente poco. Dovrebbe essere la nostra coscienza, a guidarci nel comprendere quale sia il merito inerente di entrambi.

Prima di passare alla successiva solidificazione in pastiglie, la polvere (triossido d’uranio) viene attentamente miscelata in una betoniera, per assicurare una più uniforme diffusione delle singole particelle costituenti.

Il video di How It’s Made, come sempre molto completo, si inoltra anche nel passaggio successivo della lavorazione, quando la polvere d’uranio viene trasformata in pellets, incapsulati in barre di zirconio che diventeranno il combustibile nucleare propriamente detto. Finché, per citare il testo del documentario “In questo ensemble fatto e finito, grande quanto un ciocco di legna da ardere nel camino [ed anche simile esteticamente NdA] c’è abbastanza energia da alimentare 100 abitazioni per il periodo di un anno.” Niente male, vero? Onestamente, pensavo anche di più. Ma resta indubbio che l’energia nucleare, con tutto il bagaglio di problematiche potenziali che inevitabilmente finisce per accompagnarla, costituisca un componente importante di quella che noi amiamo definire “la modernità.” Giacché molto spesso, de-nuclearizzare un paese tra l’esultanza del plebiscito popolare significa semplicemente scegliere di acquistare la propria energia [nucleare] altrove. Continuando rigorosamente, qualora possibile in funzione del proprio patrimonio sotterraneo, ad estrarre l’uranio ed inviarlo fin laggiù. Il che trasforma la scelta, per lo più politica, in null’altro che un’espressione su larga scala del diffuso e comprensibile atteggiamento umano del NIMBY (Not In My Backyard – Fuori dal mio cortile!) il quale consiste nel rimuovere semplicemente il “problema” scegliendo di spostarlo altrove. Soltanto che l’energia nucleare non è un problema, bensì un’opportunità. Pericolosa. Indesiderabile sotto molti aspetti. Ma inesorabile, come il progressivo esaurirsi di tutto il carbone e il petrolio a disposizione.
Certo, verrà un giorno in cui l’umanità navigherà per gli oceani, guiderà per le strade e volerà in cielo sfruttando mirabolanti pannelli solari. Cuocerà o conserverà i suoi pasti grazie all’energia naturale del vento. Le maree, nel frattempo, faranno funzionare le nostre fabbriche e i calcolatori. Ma pensate forse che tutto questo possa bastare a spingerci nello spazio? Condurre potenti astronavi fino a Marte, e di lì verso un infinito domani? Lo stesso studio del nostro Sistema Solare dimostra come il tempo a disposizione per farlo, in effetti, sia tutt’altro che illimitato. Ama ripeterlo il celebre fisico affetto dalla malattia dell’ALS, Stephen Hawking. E lui, fra tutti, dovrebbe saperlo dannatamente bene…

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