Le automobili acrobatiche d’Olanda

Rollgolf

“Vedi, quando freno bruscamente, il baricentro del veicolo si sposta verso la sua parte anteriore…” La Volksvagen Golf è ormai tutt’altro che riconoscibile, vista la rimozione del portabagagli, l’innalzamento delle sospensioni e l’aggiunta di un vistoso rollbar, simile ai binari di una montagna russa. All’improvviso, il guidatore inchioda, proprio nel mezzo del vialetto di campagna a Tilburg nei Paesi Bassi, vicino Breda ed il confine con il Belgio. Una piccola buchetta nell’asfalto, non visibile da dietro il parabrezza, poteva pure essersi trasformata nel Grand Canyon, a giudicare dalla forza del brutale contraccolpo, trasmesso immediatamente fino ai due sedili. “Non irrigidirti, potresti farti male. Ecco, se accelero, come puoi facilmente osservare, il muso del veicolo si orienta leggermente verso il cielo, praticamente alla maniera di una rana…” Il piccolo motore del veicolo libera nell’aria un rombo allegro e scoppiettante, mentre le vibrazioni aumentano in maniera preoccupante “…Gracidante, pronta all’atto di saltare per raggiungere una mosca grassa e succulenta. Però, aspetta e mi raccomando, stai pronto. Adesso viene il bello.” Ormai raggiunti i 30 Km/h e con il volante saldamente tra le mani, alza la voce per farsi sentire nonostante quel frastuono: “Su questa bella macchinina…” truktruktruk- “…Quando vai abbastanza forte e all’improvviso blocchi le dannate ruote…” truktrutk-SKREETCH…”COSÌ!” D’un tratto il pavimento si avvicina, sparisce l’orizzonte sopra il cofano. La Rollgolf, questo il suo nome estremamente esplicativo, si è inclinata verso l’alto ed è nel mezzo di un cappottamento. Un’esperienza, nello stato più normale dell’automobilismo, tutt’altro che desiderabile o piacevole da vivere in prima persona. Ma non siamo qui per parlare della semplice normalità…”Ecco, è fantastico! Non sei d’accordo?”
La definizione di scienziato pazzo è da sempre alquanto problematica, persino complicata. Non tanto per la seconda parte del binomio (la follia è un concetto sempre chiaro) quanto per il modo in cui viene impiegato quel nome comune di una professione, che dovrebbe comportare, almeno nell’idea di base, un metodo e finalità precise. Le figure degli studiosi della fisica, della matematica, della chimica, della biologia, o per essere concisi della spuma inafferrabile della natura in ogni sua diversa forma, venivano associati originariamente a quelle dei filosofi, per l’analoga abitudine ad esprimersi attraverso tesi complicate. Ciò che cambiava erano i contenuti. Fu nel 1834, a seguito di una lunga fase di prerequazione, che si giunse all’invenzione del termine “scienziato” un neologismo proposto dallo storico William Whewell in occasione di una recensione letteraria di settore. Scienzista, scienzologo, scienzio-mane, poteva andarci peggio! Ma un postino schizofrenico, affinché possa realmente dirsi tale, si occupa pur sempre di portar le lettere fino a destinazione. Un operatore sanitario sociopatico, con la scopa di saggina in mano, griderà la sua rabbia contro il mondo, mentre pur sempre ripulisce il suo settore. Altrimenti lo chiameremmo pazzo, punto e basta. Allora perché, il tipico cattivo della cinematografia d’azione di alto budget, come pure dei cartoni animati per bambini (due campi tanto prossimi che sembrano toccarsi) svolge una mansione totalmente differente? Intendo, rispetto a quella deputata dai suoi presunti ispiratori: Archimede, Cartesio, Newton, Pasteur, Einstein, Hawking…Dove sono, nella sfavillante carriera di costoro, i raggi della morte, dove, i mega-mutanti/cyborg da combattimento, le macchine del tempo?
La differenza era pur chiara negli obiettivi, chiaramente, perché nessuno di costoro aveva problemi di sanità mentale (tranne, forse…) Ma pure, del resto, nei metodi. Nessuno scienziato costruisce dispositivi o macchine da mattina a sera, altrimenti lo chiameremmo: un congegnumane-meccanicoide-fabbricatore. E questo sono, veramente, molti dei personaggi creati nel mondo della fantasia col ruolo di pericolosi antagonisti dell’eroe: INGEGNERI, non scienziati, pazzi. Oppure…

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Koala, l’animale che trasmette il Suono

Dialogo dei koala

Le ginocchia anteriori, se si possono in tal modo definire, o per meglio dire le articolazioni, dell’ensifero, l’insetto salterino. Che si flettono e con esse anche le tue, mentre trasporti fra le mani la perfetta equivalenza di una piccola campana di cristallo. Trasparente, che riecheggia, fatta in plastica e con sotto un foglio di giornale? Cos’è questa nota fastidiosa? CRI-CRI-CRI-CRI-CREEK-cri-cri-cri…La ridondanza reiterata, di un “batacchio” con sei zampe e ben due antenne, preso per bisogno nel bicchiere, solamente per condurlo fuori casa; il suo canto che rimbalza, da ginocchia dell’artropode (sede proprio, guarda caso, dei suoi organi auditivi) e i fori che si trovano sui lati della propria testa umana. Salta, bestia musicale, e canta. Mentre apriamo questi…
Grandi Padiglioni. Strumenti per l’acquisizione del sapere, sede di un senso nobile, quasi come l’occhio che può de.codi-ficare l’energia fotonica dell’Universo stesso. Per vedere, chiaramente, la natura fisica della realtà. Come un prisma che scompone, soavemente, il raggio mattutino dell’aurora, nel settuplice bagliore dell’arcobaleno; così è l’animale. Col suo verso che ha funzioni spesso varie, nasce da organismi fonatòri di ogni foggia e dimensioni. Eppure rende zampillante, nella sua forma maggiormente pura, l’unico e mirabile Messaggio, ancora e ancora e ancora – Si, ci sono, ci sono ancora, si cisonoancora. Splendono le stelle. Scorre l’acqua di una simile presenza. Dal passero fin troppo solitario, verso aprile, poco prima di trovare la pulzella pigolante. Poi dai becchi di quell’affamata prole, frutto della sospirata unione, per sollecitare un beneamato portatore dell’avanzo di panino, la briciola della giornata. Come il grillo di cui sopra, alla stagione degli amori. Per non parlare dell’orsetto dell’Australia, il caro e piccolo Koala.
Chissà quale arcano accenno di linguaggio, che oscura formula di comunicazione, stavano adottando questi criptici e pasciuti marsupiali. Che seduti ben composti, sopra l’erba di un ventoso prato, si sussurrano i segreti. I grandi musi neri spinti l’uno contro l’altro, coi ciuffetti delle orecchie ben divisi, onde meglio discernere la piazzata della controparte. Epiglottidi vibranti d’entusiasmo, mistico e profondo. Parte qualche accenno di zampata, mentre l’uno, poi l’altro, tenta di spuntarla nella discussione. Ma nessuno si allontana, come per l’effetto di una foza misteriosa. Convitati di una cabala spirituale: i fascolarti non conoscono misantropia. E faticosamente, uno scambio sopra l’altro, tornano alla stasi soddisfatta di chi ha detto tutto quello che doveva. Sulla cima dell’abero dell’eukalypto, da qui scaturisce un senso collettivo di soddisfazione. Chissà che non fosse, in fin dei conti, proprio questa l’intenzione.

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Per aprir l’anguria, la pannocchia e il melograno

Aprire il cocomero

Avete scozzonato il duro involucro del frutto gigantesco. L’avete sconquassato, suddiviso in spicchi, neanche si trattasse di un limone. Il sugo acquoso, schizzando da ogni parte, ha reso appiccicoso il tavolo, il lavandino. Pezzi e filamenti, tocchi granulosi. Da ogni parte, incluso il pavimento e la parete. Fin sulla punta stessa delle vostre scarpe. Gronda sopra il bavero e la manica macchiata! State giusto per mettervi a mangiare, che già avete voglia di pulire.  Peccato. Questa vostra fame, invero è stata una cattiva consigliera. Per secoli e millenni  si è perfezionato il metodo di consumare ciascun dono della terra, con un minimo di spreco e il massimo dell’efficienza. Ma persistono svariati esempi di questioni ancora inestricabili, massimamente avverse al regno della metodologia. Sono trappole, tali prodotti vegetali, difficili da percepire. Pericoli da superare un po’ alla volta. Come un saggio samurai, che praticava le arti della spada sulla base di precise geometrie, un vero chef studia le diverse circostanze, prima di applicarsi nel risolverle con stile. Decapitare l’anguria. Sezionare la pannocchia. Sfaccettare il melograno. Zac! Perché mai l’uomo della strada, spinto innanzi dal bisogno…Prima taglia, solo poi ragiona!
Lo scenario: un’estate poco calda, umida e piovosa. Senza validi colori, tranne il bianco e nero delle strisce in alternanza, ben delineate su implacabili zanzare: tigri contro lupi, sangue chiama sangue, rosso, splendido e gustoso. Concediamoci un Citrullus, troppo a lungo rimandato. Verde a strisce. Il tondo grande come il mondo, duro fuori e liscio dentro, saporito all’eccellenza. Un degno emblema degli eroi. Che mai fu sommerso, per fortuna, nell’Atlantico di antiche e sfortunate civiltà, assieme ai continenti delle origini dell’uomo. Cocomero che portavano gli scarabei, fin sulla cima di piramidi dimenticate, sotto gli occhi delle grandi sfingi di granito. Che soprattutto Apollo collocava nel suo carro, ogni mattino e prima di raggiungere le nubi, risvegliando l’appetito dei mortali, poi degli altri (giacché Ambrosia, si usa dire, con la frutta ci sta sempre bene). Dell’aquila gioviana, simbolo di Roma, non si sa. Probabilmente lo teneva ben nascosto, dentro ai templi e nei sacelli dell’Imperatore. Odino, secondo i saggi naviganti delle sue gelide lande nordiche e innevate, lo aveva conosciuto solamente di seconda mano. Assai difficile, del resto, sarebbe stato coltivarlo presso gli orti del Valhalla, questo frutto che proviene dalle lande calde poste presso l’equatore. Una capsula della memoria, giunta infine qui, dal deserto arido del Kalahari, pronta sotto il taglio di un coltello immacolato, freddo acciaio inossidabile, affilato quanto basta e non di più.

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Buca un palloncino da 914 metri di distanza

Jerry Miculek

La sfida all’O.K. Corral non fu nulla rispetto a questo miracolo del mezzogiorno fiammeggiante: l’uomo è Jerry Miculek, esperto di armi da fuoco, addestratore delle forze speciali, già detentore di ben sei primati, oltre a questo, nel suo campo di fermezza e precisione pressoché assolute. Tutt’altro che pensionato, nonostante la significativa età. Una personalità di spicco della tv americana (c’era bisogno di dirlo?) E di Internet, dove pubblica i migliori video dei suoi ultimi exploit sparatòri. Tra cui questa, la prima volta in assoluto in cui un essere umano, con le sue proprie mani, ha impugnato una pistola. Ha mirato contro il nulla assoluto, di una distesa erbosa e senza vento. Ha sparato. E dopo tre secondi ha colpito, senza neanche avere modo di vedere esattamente cosa.
Ma non sembrava possibile, un simile successo. La maggior parte dei nuovi record del mondo, di questi tempi televisivi e appariscenti, sono estremamente specifici: una persona con il cranio particolarmente duro, ad esempio, piuttosto che competere in una specialità valida in senso universale, tenterà di frantumare a testate, sulla base delle preferenze personali: zucche, cocomeri o  noci di cocco. Una volta esaurite le alternative troppo accessibili ed inflazionate, si dedicherà quindi a qualcosa di inimmaginabile o mai visto prima. Come il massimo numero di pezzetti di asteroide polverizzati fra i denti o i ferri da stiro frantumati con la fronte. E così via. Non c’è limite alla creatività; tutto il contrario, all’apparenza, dello sport del tiro a segno. Dove che tu impieghi dei bersagli di metallo, oppure in carta, tondi o quadrati, c’è ben poca differenza procedurale. I punti chiave sono “solo” la distanza e l’arma. Ciò che non ha più un’entità massima misurabile, dunque, diventa la difficoltà.
Esistono, a questo mondo, determinate postazioni per chi voglia cimentarsi nell’uso eccellente di pistola o fucile. La prima categoria, come ampiamente documentato al cinema e in televisione, opera generalmente all’interno di un cupo edificio, magari nel seminterrato, ben ventilato per portare via gli scarichi venefici del piombo appena esploso. Sono luoghi estremamente fragorosi, dove in pochi metri attentamente misurati si realizza il senso quotidiano dell’addestramento delle forze armate o della polizia. Per chi dovesse preferire una più lunga canna, invece, si consiglia l’aria aperta. E qui davvero, i limiti svaniscono nell’orizzonte. Nel tiro a lunga gettata contro bersagli fissi, ciò che conta è la precisione: il comitato olimpico valuta, allo stato attuale delle cose, tre possibili distanze: 300 metri, 600 metri e queste fatidiche 1000 yarde, che corrispondono alla cifra di cui sopra (914 ca.) Nel campo agonistico, per tale ardua prova, si prevede che il tiratore si distenda a terra, nella migliore posizione possibil, ben sfruttando l’appoggio immobile del suolo. Ah, troppo facile per lui! Palloncino rosso, non avrai il suo scalpo, ne oggi ne domani…

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