Sede dell’anima, nucleo dell’appartenenza, simbolo profondo dell’identità pensante. Ma non è il cervello; piuttosto il singolo motore, mera pompa idraulica di quel sistema funzionale che siamo soliti chiamare “umano”. Le valenze filosofica e allegorica del muscolo cardiaco rappresenta molto probabilmente un’eredità acquisita, risalente a quando gli antichi filosofi ne intuivano l’importanza, ma non necessariamente la sua funzione. Eppure tanto interessanti come associazioni, così congrue, da essersi dimostrate durature al di là di molte altre notazioni simili, rimanendo parte dell’immaginario collettivo nell’epoca post-moderna. Tra le cui ragioni, e ce ne sono molte, riesce facile individuarne una principale: il “cuore” è Bello. Affascinante nelle sue figurative allegorie, come quando viene disegnato nelle tavole anatomiche, con pratiche didascalie per i suoi atri, valvole e grandi vene di rifornimento. Magnifico durante la catarsi del trapianto, quando la prosecuzione del suo battito, assieme alla preziosa vita che tutela, può essere tenuto in mano e sollevato dal chirurgo che si appresta a compiere l’impresa cruciale. Un dottore come quelli che hanno elaborato la trafila, ed acquisito la preziosa laurea, tra le mura prestigiose della Facultat de Medicina, nella grande capitale della Catalogna. Graziata in occasione dello scorso 29 settembre, giornata mondiale dedicata alle malattie cardiache, da un’incombente, variopinta opera monumentale dell’artista internazionale Jaume Plensa i Suñé; il celebre creatore d’inusitate sagome e altrettante impressionanti suggestioni, con le sue numerose statue in luoghi pubblici e teste di donna dalle proporzioni distintamente allungate. Che nel caso di questa sua notevole creazione, realizzata nel 2015 per un contesto totalmente differente in Germania, ha deciso piuttosto di attenersi alla realtà esteriore del soggetto rappresentato, niente meno che il cuore stesso. Di un’altezza pari a circa 10 metri, perfettamente adatti ad incastrarsi tra le costole temporanee di un colonnato di ordine corinzio che potrà anche non essere il più famoso della città, ma rappresenta senz’altro uno dei più scenografici. Nonché l’ingresso maggiormente fotografato dell’Hospital Clínic de Barcelona, pregevole struttura neoclassica dei primi del Novecento dell’architetto Ignasi Conrad Bartrolí i Puigventós, modellata sui nosocomi francesi del XIX secolo. Già graziato all’epoca da un frontone scultoreo sull’evoluzione della medicina di Rafael Atché Farré, ma destinato in questo caso a diventare, almeno per qualche giorno, una cornice caratterizzante dell’arte ben più Moderna…
catalogna
Il notevole villaggio costruito in bilico sopra una colata lavica pietrificata
La regione spagnola della Catalogna assomiglia talvolta a un regno fantastico, che si dipana all’ombra e in mezzo alle pendici della catena montuosa dei Pirenei. Muovendosi verso settentrione fuori da Barcellona, parallelamente al confine con la Francia, l’ipotetico visitatore troverà una serie di comunità risalenti all’epoca medievale, o persino più antiche, ciascuna degna di un’intera pagina all’interno di un’antologia sui luoghi più affascinanti d’Europa: Peratallada con le sue alte mura, le strade angolari e piazze dalla pavimentazione a cubetti cariche dell’atmosfera di un tempo remoto; Guimerà dai soli 300 abitanti, costruito tra una collina ed un fiume, l’alta torre del castello posta lungo l’estendersi di un’importante punto di snodo commerciale… Ma per quanto riguarda le circa 1.000 persone che vivono a Castellfollit de la Roca nella comarca (regione) e zona vulcanica di Garrotxa, è stato semplicemente l’intero villaggio, ad essere posto fin da tempo immemore in corrispondenza di un sito particolarmente inaspettato. Ovvero l’alto sperone basaltico, lungo più di un chilometro, che si erge per 50 metri dalla valle formata dai fiumi confluenti di Fluviá e Toronell. Una caratteristica del paesaggio risalente a niente meno che 217.000 anni fa, frutto dell’attività del vulcano ormai spento di Begudá. Per certi versi terrificante, ma anche un’importante risorsa per chi avesse l’intenzione di sentirsi maggiormente al sicuro. Perché, dico, ve l’immaginate assediare un luogo simile, con il tipo di strumenti che c’erano a disposizione tra il decimo ed il tredicesimo secolo, quando per la prima volta una struttura umana cominciò a prendere forma in una tale posizione sopraelevata?
Stando al sito ufficiale del comune dunque, oggi recuperabile soltanto grazie all’Internet Archive, il paese viene documentato per la prima volta nel 1096, come “kastro fullit” o “castro-follito”, all’interno dei possedimenti del locale visconte di Bas. Luogo di relativa importanza strategica, benché certamente ben difeso, l’insediamento ricompare saltuariamente nelle cronache dell’epoca, nel 1278 sotto il controllo della viscontessa di Empúries, quindi in qualità di feudo diretto del re Giacomo II d’Aragona (1267-1327) che nel 1315 lo fece passare sotto il controllo di Malgaulì, conte di Bas. Nel 1339 Pietro IV d’Aragona, in seguito, lo riconobbe tra i possedimenti del ducato di Girona, che aveva attribuito a suo figlio maggiore. Poi, nel 1426, avvenne qualcosa di terribile: un forte terremoto distrusse completamente il villaggio. E mentre gli abitanti erano intenti a ricostruire, soltanto due anni dopo ce ne fu un secondo. Ritornata soltanto in parte ai fasti ed alla difendibilità di un tempo, la comunità sarebbe caduta senza troppa resistenza durante la guerra civile catalana, passando di nuovo nel 1462 sotto il controllo diretto di un re aragonese, Giovanni II el Sense Fe ( il Senza Fede). Si trattò di un importante punto di svolta nella storia di questo luogo, poiché da quel momento, le ragioni della guerra non l’avrebbero lasciato più solo.
La moto che sale sugli alberi e colui che la guida
Non sarebbe fantastico, almeno una volta nella vita, sperimentare la giornata di un supereroe? A giudicare dalla quantità e qualità di alcuni dei video giunti ai vertici di Internet, nei quali il protagonista costruisce o indossa una ragionevole imitazione dell’armamentario di Batman, Deadpool o Iron Man, non sono in poche le persone che hanno provato un tale desiderio. Naturalmente, una cosa è la parte esteriore dell’intera faccenda, tutt’altra la forza effettiva dell’individuo. Ovvero, ciò di cui egli può effettivamente disporre nella realizzazione del suo progetto. Un uncino per arrampicarsi non è nulla, senza i muscoli nelle braccia per riuscire a tirarsi su. Una katana a cosa serve, se non si ha l’abilità di manovrarla adeguatamente? E il persino più potente degli jet a razzo incorporato nella propria armatura metallica non basterebbe ad alzarsi neppure di un metro, a meno di essere dotati del sufficiente senso dell’equilibrio e una notevole prontezza di riflessi. Allo stesso modo, salire su una moto da trial non farebbe di noi Toni Bou. Certamente avrete presente il paradigma del grande campione degli sport motoristici. Quella figura che per ogni generazione, giunge come una meteora infuocata tra le schiere di uno di questi particolari sport, ottenendo prestazioni così al di sopra della sua concorrenza, da essere apparentemente favorito dallo sceneggiatore del film della vita stessa.
In tempi recenti, la Formula 1 ha avuto Schumacher. Il motociclismo, Valentino Rossi. E se vi siete mai chiesti su chi potesse contare la specialità su due ruote che consiste nel mantenersi in equilibrio, attraverso alcuni dei percorsi da fuoristrada più difficili immaginabili da un commissario di gara, ebbene lasciate che ve lo presenti. Il pilota catalano, originario dell’affascinante cittadina di Piera, che fin dall’età di 6 anni ha fatto il possibile per violare la forza di gravità a bordo della sua bicicletta. E dall’età di 14, finalmente, non ha scelto di dedicarsi completamente a quella che sarebbe diventata la vera passione della sua vita. Partecipando inizialmente alle competizioni a bordo di una moto Aprilia, prima di passare a quella che sarebbe diventata il sinonimo stesso della sua carriera: l’ormai leggendaria Montesa Honda Cota a quattro tempi, di un produttore acquistato nel 1982, ovvero quattro anni prima che lui nascesse, dalla multinazionale giapponese dei motori. Ma che trae l’origine, e resta legata fin dal distante 1944, alla sua stessa regione d’origine nel nord-est della Spagna. Prendere atto delle sue gesta sportiva è un’esperienza che si sviluppa in una fulminea e rivelatoria presa di coscienza: basta osservare una tabella con gli annali dei vincitori delle due specialità del trial a livello internazionale: l’indoor e l’outdoor. A partire dal 2007, l’unico nome che si trova replicato, una volta per riga e in associazione al team Repsol, è semplicemente il suo. Campione quell’anno, campione quello immediatamente successivo…Campione nel 2009 e così via fino al presente. Nessuno, fra tutti gli abilissimi piloti di questa generazione, è mai riuscito a superarlo, neppure una volta. Il che significa, tradotto in termini numerici, che allo stato attuale ci troviamo di fronte al vincitore di 20 titoli mondiali, 10 per ciascuno degli ambiti rilevanti. Qualcosa di semplicemente mai visto, negli sport di corsa “convenzionali” dove parimenti all’abilità del pilota, contano fattori contingenti come la sfortuna di un guasto tecnico o le condizioni dell’asfalto di gara. Mentre c’è questa visione convenzionale dello sport del trial, giusta oppure sbagliata, secondo cui tutto quello che conta sia unicamente la preparazione fisica e mentale del pilota. O forse a questo punto dovremmo chiamarlo, più appropriatamente, un atleta.
Per ciascun grande campione, tuttavia, viene anche il momento di divertirsi. Specie al giorno d’oggi, in cui una sequenza di acrobazie può facilmente fare la fortuna di uno o più sponsor coinvolti, come ben sanno alcune delle bibite energetiche di maggior successo sul mercato (e anche Toni, a giudicare dalla tuta, sembrerebbe avere la sua…) E allora ecco la risposta alla domanda del cosa possa realmente fare, una simile figura, al di sopra del contesto stringente e severo di una gara precisamente regolamentata. Letteralmente, spiccare il volo…