L’incombente possibilità di un auto elettrica capace di spostarsi di lato

Il verde predatore statico sul ramo, attento e con la lingua pronta a srotolarsi nella direzione del ronzante arnese. Oh, vittima di tanta crudeltà efficiente, mosca nera delle atroci circostanze, nulla può salvarti dall’intenso sguardo del camaleonte! Poiché telecamere del tutto indipendenti, che si girano da entrambi i lati allo stesso tempo. L’utile dimostrazione di come un sistema, quando collegato nella funzionalità dei propri singoli componenti, difficilmente può raggiungere la propria reale potenzialità di partenza. E perché mai considerato questo punto, oggi dovremmo accontentarci di automobili con coppie di ruote sterzanti, meramente di concerto, mentre le due controparti retrostanti neanche curvano ma vengono soltanto trascinate, lungo l’arco di una tale geometria semovente… Semplicità progettuale? Facilità di riparazione? Mera resistenza allo sforzo che deriva dai cambiamenti? In un mondo con quasi 8 miliardi di persone, angusti spazi progressivamente asfaltati e luoghi di lavoro logisticamente sovrapposti, sarà probabilmente giunta la necessità di chiedersi: “Non è possibile che sia possibile, magari, mettersi al volante di qualcosa di meglio?” L’uomo chiede. E come tanto spesso è capitato, l’azienda coreana Hyundai risponde, per il tramite della sua sussidiaria H. “Mobis” (Mobile System) fornitrice di servizi e parti di ricambio, che nel caso specifico parrebbe essere andata ben oltre i meri limiti dei propri compiti designati. Rilasciando al pubblico lo scorso gennaio, e finalmente dimostrandoci mediante l’implementazione di un prototipo, una delle possibilità notevoli implicate dall’affermazione progressiva delle auto elettriche: quella di distribuire, e poter conseguentemente riorganizzare, il cuore del veicolo semovente. Il suo motore, o per meglio dire quattro di questi, situati tanto per cambiare dentro il mozzo delle ruote stesse, messo in pratica nel campo automobilistico già dal grande Ferdinand Porsche nel 1897 a Vienna. E che da quel momento era passato necessariamente in secondo piano, per il progressivo affermarsi dei motori a combustione interna. Ma ecco quello che in parecchi, attraverso il corso delle epoche successive, sembravano chiaramente aver dimenticato: che una ruota non più collegata al giogo di un sistema di trasmissione, può essere montata in molti, fantasiosi ed imprevedibili modi. Può persino mettersi a ruotare indipendentemente a 360 gradi! E se non potesse risultarvene immediatamente chiara la ragione, provate un attimo a guardare il video. Sequenza di pochi minuti, all’interno della quale un SUV urbano Ioniq 5, utilizzato come piattaforma dimostrativa, si estrinseca in una serie di quattro manovre, che di concerto potrebbero bastare almeno in linea di principio a rivoluzionare il concetto stesso di automobile. E con essa, la maniera in cui siamo da tempo costretti a progettare gli ambienti urbani…

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La fallibile tecnologia frenante di un carro allegorico da 300 tonnellate

Nei diari di viaggio di Odorico da Pordenone, missionario francescano del quattordicesimo secolo, spicca in modo particolare l’interessante e terribile descrizione di una celebrazione a cui egli assistette presso la città di Puri, nella parte orientale dell’India. Occasione durante cui gli abitanti del posto si erano riuniti per rendere omaggio alla divinità suprema Jagannath, una delle possibili incarnazioni di Vishnu, mediante la sfilata di un tempio mobile su ruote grande quanto un edificio di diversi piani, da spingere laboriosamente lungo il viale principale in mezzo alla gente. Persone il cui destino, dinnanzi allo sguardo sconvolto del religioso, pareva essere quello di gettarsi intenzionalmente sotto le sue ruote, perendo orribilmente per la maggiore gloria della divinità. Inutile dire come oggi si ritenga, grazie alla logica, che l’impressione riportata dal viaggiatore medievale possa essere stata un mero fraintendimento, a seguito di uno o più incidenti che potrebbero essersi verificati durante la suddetta occasione. Eppure a seguito di tale racconto, successivamente confermato dalle opere dell’esploratore inglese John Mandeville (tra il 1357 e il 1371) la connotazione impressionante del prestito linguistico della lingua anglofona juggernauth sarebbe rimasto come antonomasia di qualcosa d’imponente ed inarrestabile, la cui presenza incombe minacciosa contro l’incolumità di chiunque sia abbastanza folle da mettersi sul suo cammino. Una visione che, sebbene poco rispettosa dell’effettivo intento e logica di un evento come questo, in genere proporzionato all’effettiva popolazione e quindi portata massima di ciascuna comunità, certamente trova almeno una parziale riconferma nel più imponente esempio di oggetto votivo mobile esistente al mondo, l’Azhi Ther con le sue 300 tonnellate e 30 metri d’altezza. Praticamente un’intera palazzina su imponenti ruote costruita presso la città di Thiruvarur con la sua popolazione superiore a 58.000 anime nello stato meridionale di Tamil Nadu, la cui citazione più remota è risalente addirittura al 1123 d.C, in un’epigrafe risalente al regno di Vikrama dell’impero dei Chola. Dove viene identificato come il punto principale della celebrazione tenuta all’inizio di aprile, durante cui una statua del santissimo Veethividangar, ovvero l’avatar venerato localmente di Shiva in persona viene tutt’ora portato fuori dal grande tempio di Thyagaraja Swamy, grazie alla pura energia muscolare dei suoi devoti. Mentre i guru ed altri membri del clero si abbandonano a una danza silenziosa e dal significato mistico tutt’altro che evidente. Ed è una visione straordinaria ed impressionante, quella della cupola multicolore che oscilla imprevedibilmente nel vento, in mezzo ad edifici che non raggiungono neppure la sua altezza, le lunghe corde che si estendono in mezzo alla folla, ciascuna saldamente mantenuta in pugno da una schiera apparentemente senza fine di entusiastici ed infaticabili partecipanti. Il cui sforzo e senso di abnegazione, tuttavia, non raggiunge neanche lontanamente quello degli esperti addetti ad una delle operazioni più difficili e rischiose immaginabili: trovare, in qualche maniera, l’effettiva maniera di fermare il carro.

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Avveniristico, argentato aliscafo, retaggio di una Russia che sognava il domani

Lungamente abbandonate per corrodersi nei depositi di rottami, lungo gli affluenti della Volga oppure nelle piazze dei paesi, trasformate in bar, edicole, centri visitatori. Le metalliche astronavi oblunghe dell’epoca sovietica, dalla plancia di comando a forma di U ed un caratteristico ponte panoramico nella parte posteriore, paiono a tutti gli effetti i prodotti collaterali di un set di fantascienza, tanto sono caratterizzate da una sensibilità estetica insolitamente futurista, caratteristica nel suo evidente tentativo di creare presupposti di distinzione. Eppure i membri delle più longeve generazioni, dinnanzi ad una tale vista familiare, non sviluppano alcun senso di disagio o d’inquietudine bensì la tipica malinconia dei tempi andati, ritornando con la mente a un’epoca in cui simili battelli erano letteralmente ovunque, permettendo agli utilizzatori di accorciare le distanze in un paese dove queste si attestavano su cifre largamente superiori alla media. Facendolo con stile ed efficienza, grazie alla comprovata capacità di sollevarsi in larga parte fuori dall’acqua, mediante l’utilizzo di convenienti ali idrodinamiche, in altri luoghi utilizzate come sinonimi del concetto di aliscafo. Nella nazione dove, tra l’altro, al termine della seconda guerra mondiale ogni risorsa infrastrutturale era stata deviata, in base alle semplici e apparenti necessità operative, nello sforzo bellico contro i tedeschi, i quali erano stati fin troppo propensi ad accelerare il disfacimento della rete dei trasporti sovietici, prima della loro catartica e del tutto inevitabile ritirata. Fu però la risultanza di un lungo percorso iniziato oltre due decadi prima quando, nel 1957, il rinomato ingegnere nautico nonché premiato praticante della vela sportiva Rostislav Alexeyev presentò dopo un primo viaggio di prova di oltre 420 chilometri la sua nuova barca Ракета (Razzo) al premier Nikita Khrushchev in persona, per poi procedere a guidarlo fino a Mosca con orgoglio durante il VI Convegno della Gioventù e degli Studenti dell’estate di quello stesso anno. Partendo da quella stessa fabbrica di Gorky Sormovo, nel distretto di Novgorod, dove al culmine del conflitto globale gli era capitato di essere inviato di stanza per supervisionare la costruzione di carri armati T-34, subito dopo il conseguimento della laurea nell’ottobre del 1941. Ottenuta con una tesi che, in effetti, aveva ben poco a vedere con tale mansione vertendo sull’applicazione di una serie di teorie risalenti all’inizio del Novecento, relative al comportamento di una superficie generativa di portanza all’interno di un fluido più denso dell’aria. Come quello, per l’appunto, tra le sponde di una funzionale idrovia naturale…

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Due ruote d’avanguardia: la storia poco nota della Vespa con il muso da delfino

Esiste un assioma relativamente celebre per quanto concerne l’ambito della tecnologia, facilmente riassumibile nell’espressione: “Un nuovo sviluppo può effettivamente dirsi realizzato, soltanto quando tutti potranno accedervi senza barriere significative di natura economica, pratica o di reperibilità.” Ovvero il tipo d’ostacoli che può essere del tutto insormontabile, come anche attribuibile a particolari preconcetti ereditari, che ne prevengono ostinatamente la diffusione. È largamente acclarato ad esempio come verso il primo quinto del Novecento, nonostante l’ampia e progressiva diffusione di ogni tipo di mezzo a motore, nessuno sembrasse interessato al concetto di una moto di piccola cilindrata, leggera e maneggevole, pensata principalmente per lo spostamento all’interno dei contesti urbani. I primi motorini dotati di sellino, inventati nel 1919 in Inghilterra con la cosiddetta Skootamota e successivamente evolutasi fino a una forma riconducibile a quella attuale, erano inaffidabili, incapaci di affrontare gradienti significativi ed inoltre dispendiosi da produrre, a causa delle carenature monoscocca che servivano a coprirne la parte ingegneristica, elemento incline a complicare non poco qualsivoglia tipo d’intervento periodico di manutenzione. Una situazione destinata a cambiare sensibilmente con il termine della seconda guerra mondiale, quando soprattutto nei tre maggiori paesi sconfitti, Italia, Germania e Giappone, l’acquisto di un’automobile diveniva progressivamente complesso per buona parte degli strati sociali, proprio quando le fabbriche distrutte dai bombardamenti cominciavano ad essere ricostruite in base alle necessità del momento. Il contesto da cui nacquero, per citarne soltanto un paio delle nostre, miracoli di progettazione e marketing come la Vespa e la Lambretta, ma anche una schiera di alternative molto meno note, alcune delle quali sembrano provenire da un letterale universo alternativo, dove i crismi del design rispondono a ragionamenti simili, ma diversi. Uno di questi è senz’altro la creazione più celebre di Vincent (Vincenzo) Piatti, ingegnere di origini milanesi capace di formarsi sotto la supervisione di Ettore Bugatti e successivamente emigrato in Inghilterra, con il nome collegato ad una pletora d’importanti brevetti in campo motoristico, ma la cui celebrità deriva principalmente da una strana e memorabile proposta, quasi anacronistica dal punto di vista estetico e funzionale. Lo “scooter”, chiaramente o per esteso il Piatti Scooter da 125 cc, concepito a quanto pare inizialmente nel 1949 sull’ondata delle molte imitazioni dei prodotti più famosi che proliferarono in quegli anni in Europa, ma con l’aggiunta di alcuni significativi espedienti tecnologici di sua personale ed esclusiva concezione. A partire dalla forma stessa del veicolo, non facilmente riconducibile ad alcun tipo di forma ciclistica, bensì costituito da una forma a sigaro con ruote molto piccole e quasi del tutto coperte, da cui emergeva lo scudo verticale per le gambe ed un sellino strutturalmente simile ad un fungo, abbastanza ampio da ospitare il passeggero di turno. Soluzione, questa, che permetteva di regolarlo facilmente in altezza, così come lo stesso poteva essere fatto col manubrio e le sospensioni della ruota posteriore con trasmissione a catena in un bagno d’olio, che potevano essere regolate su tre livelli in base alla propria preferenza. Il motore stesso, inoltre, era ammortizzato indipendentemente dal guidatore, aumentando sensibilmente la confortevolezza durante la marcia. Notevole anche il sistema di raffreddamento, concepito per incanalare l’aria e veicolarla a partire dalla griglia frontale, superando teoricamente in questo modo uno degli ostacoli principali all’utilizzo di motociclette simili in estate, sebbene tale approccio sarebbe stato destinato a rivelarsi occasionalmente insufficiente nel clima caldo dell’Europa meridionale. Il che ebbe un’importanza soltanto relativa, quando il primo produttore a interessarsi al suo progetto si rivelò essere soltanto nel 1954 una fabbrica e società d’investimenti in Belgio, la D’Ieteren già celebre per le sue carrozze verso la metà del XIX secolo poi trasformatasi in rinomata importatrice di veicoli a motore provenienti da una significativa parte del mondo di allora…

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