La straordinaria scena di una cellula che crea la vita

Tra il dire e il fare, è usanza dirlo, s’interpone una distesa di acqua blu cobalto, più profonda di una Valle nel bel mezzo del deserto del Nevada per l’appunto definita (non è un caso) della Morte. E lo stesso vale, d’altra parte, per il cambiamento che intraprende tra chi sente così a lungo discutere di un qualcosa, quando finalmente, riceve l’occasione di vederlo coi suoi stessi occhi. E sia chiaro che non stiamo qui parlando, come lascerebbe presagire il tema, di semplici illustrazioni su un libro di scuola, o l’animazione disegnata di un documentario esplicativo. Bensì la ripresa diretta, senza nessun tipo d’intermediario, di uno dei fenomeni più importanti di questo intero vasto pianeta: la creazione, a partire dal vuoto di un fondale totalmente nero, di quella cosa che potremmo definire in via sommaria un “essere vivente”. O volendo entrare nel particolare, l’anfibio del Centro Europa e Nord Italia noto come Ichthyosaura alpestris o volgarmente, il simpatico tritone alpino. Verso cui aveva puntato la telecamera, nelle primissime ore della sua esistenza, il regista olandese Jan van IJken, nella creazione del suo pluripremiato documentario Becoming. Ed ora che sono trascorsi alcuni mesi, finalmente, tale opera creativa è stata resa pubblica anche fuori dai circuiti privati, mediante il sito di divulgazione tecnica e scientifica Aeon Magazine a cui si riferisce il mio collegamento d’apertura. Offrendoci l’occasione di vedere qui un qualcosa che probabilmente, in molti, non ci saremmo mai immaginato in tale veste.
Al principio c’è una cellula in un uovo. Il cui colore giallo pallido, forse volutamente, è già simile a quello della forma neonata dell’animale, che trascorrerà un tempo variabile come creatura acquatica in pozze, stagni e piccoli ruscelli del suo areale di appartenenza. Quindi quasi subito, su di essa inizia a figurare un taglio verticale. In molti saprete già di che si tratta: è la mitosi, ovvero divisione, seguita dalla crescita, del più basilare componente della vita. Tale opera viene immediatamente replicata, quindi, perpendicolarmente, creando gli altri due quadranti di una forma più che mai simmetrica, immediatamente intenta a crescere nelle sue dimensioni. Un processo che si ripete ancora, e ancora, finché finalmente, qualcosa di diverso inizia ad avvenire sullo schermo. Sto parlando di quando, verso il minuto di video, l’azione accelera d’un tratto (si tratta di un time-lapse) mentre la materia interna al guscio gelatinoso & trasparente inizia a rapprendersi, per non dire concentrarsi, creando la ragionevole approssimazione di un “buco”. Sarebbe questo in effetti, il fondamentale momento alla generazione della vita noto come gastrulazione, durante il quale lo strato unidimensionale di cellule della blastula si piega su se stesso, riorganizzandosi nella struttura più complessa entro cui troveranno modo di formarsi gli organi interni della neonata creatura. Ed è allora che un poco alla volta, ciò che era una massa informe inizia a mutare, assomigliando finalmente a ciò che abbiamo, poco sopra, già identificato con il termine latino: un animale. E che creatura, signori…

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Scie di fuoco intiepidiscono i binari americani? C’è un perché

Il 24 gennaio del 2019, senza nessun altro preavviso che una vaga preoccupazione tra i principali interpreti dei dati meteorologici a disposizione, il vortice polare si è abbattuto sugli stati del Midwest e il Canada Orientale, causando effetti ad ampio spettro e conseguenze largamente deleterie. Nel giro di una settimana appena, le temperature sono scese fino ed oltre il punto d’incontro tra i gradi Celsius e Fahrenheit (-32) in diverse regioni del Michigan, l’Indiana e il Minnesota, mentre il record veniva raggiunto dall’Illinois, presso la cui capitale Chicago il vento gelido faceva registrare una temperatura percepita di -41 gradi. Sensibilmente più bassa di quelle registrate attualmente in Antartide, dove tra l’altro, trattandosi del punto più meridionale del nostro intero pianeta, è al momento estate. Nel corso della scorsa settimana quindi, i media locali e internazionali hanno potuto assistere alle misure preventive messe in atto da un centro amministrativo il quale, pur trovandosi alle prese con un caso limite, possedeva ben più di una nozione per far fronte alle ondate gelide, essendosi trovato più volte nel corso delle ultime decadi a far fronte a simili anomalie. Come ci si sente, dunque, ad essere il più precoce baluardo che deve affrontare per primo gli effetti geopolitici del mutamento climatico terrestre? Saldi, forti nei propri principi e lievemente bruciacchiati. Come avranno certamente pensato i pendolari ferroviari che, nel corso della scorsa settimana, si sono ritrovati ad assistere a uno spettacolo piuttosto insolito: il personale della Metra, principale linea ferroviaria cittadina, che in preda ad una sorta di follia collettiva sembravano gettare kerosene ed altri liquidi infiammabili sui più remoti recessi della loro preziosissima strada ferrata. Mentre con un ghigno indotto dallo sforzo psicologico e sentimentale, appiccavano un incendio nella pozza risultante, per poi starsene a guardare i risultati.
Ora tutto questo può sembrare strano, ma il fatto è che per quanto concerne un treno elettrico o alimentato a diesel, non c’è semplicemente nulla che possa prendere fuoco nella sua parte inferiore: soltanto il metallo delle ruote e potenzialmente le condotte di alimentazione di un fluido il quale, per ardere, non può accontentarsi delle sole temperature elevate, ma necessita di fiamma “e” pressione. Ciò che in molti hanno tardato a interpretare, dunque, non era una sorta di atto vandalico indotto da una sorta di follia collettiva, bensì una procedura di assoluta urgenza, pena il letterale disgregamento della ferrovia.
Tutto inizia dalla reale natura di un binario, un concetto ingegneristico che da sempre appare, erroneamente, certo ed immutabile lungo il sentiero. Quando la realtà dei fatti è che l’acciaio utilizzato, fin dalle origini di un simile dispositivo, è assai flessibile ed al tempo stesso, capace di espandersi e contrarsi in base alla temperatura. Il che porta a un procedimento d’installazione che potremmo paragonare, con una similitudine efficace, a quello di un elastico allungato fino all’estensione massima, per poi essere fissato tramite una serie di puntine. Si chiama, in lingua inglese, rail stressing e prevede il surriscaldamento entro linee guida molto generose dell’intera estensione di strada ferrata ben prima della sua inaugurazione, spesso mediante il fuoco stesso, al fine di evitare il caso limite peggiore: un binario che, allungandosi per il calore estivo, possa deformarsi e causare un qualche tipo di deragliamento. Caso vuole, tuttavia, che il freddo eccessivo di questi giorni, almeno senza nessun tipo di contromisura, possa causare danni forse meno gravi ma altrettanto duraturi…

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Il doppio volto dei mostri di neve del monte Zao

Nella lunga e stratificata tradizione mitologica del Giappone, innumerevoli luoghi nascondono uno spirito ulteriore o l’aspetto intangibile del mondo segreto, da cui Dei e creature sovrannaturali possono influenzare l’esistenza degli umani. E il più caratteristico dei fenomeni atmosferici, capace di un alto strato candido le più svariate superfici, non fa certamente eccezione. Esistono almeno due macro-gruppi di yōkai (妖怪 – apparizioni) appartenenti in via specifica a quel tipo di paesaggio: la Yuki Onna, donna della neve, e il Yuki Jiji ovvero il vecchio, oppure nonno, dello stesso gelido elemento. Sulla base di questi due personaggi, o vere e proprie maschere del teatro popolare, si affollano varianti: lo spettro che cavalca le valanghe in occasione di speciali ricorrenze; la strega dalla testa enorme che saltella su una gamba sola, poco prima di rapire e divorare gli incauti bambini del posto; la diafana fanciulla che incontrato un samurai presso il sentiero, gli mette in braccio il suo bambino, il quale diventa progressivamente più pesante fino ad immobilizzare il malcapitato e portarlo ad una lenta morte per congelamento.
È perciò del tutto naturale, nonché stranamente rassicurante in maniera inversa, che ogni essere inumano che trova collocazione nel sostrato di acqua congelata debba necessariamente avere intenzioni malevole, come si confà a questa ricca categoria di prodotti della mente immaginifica di lunghe generazioni d’artisti e poeti. Tutti tranne uno specifico tipo di mostro, che è possibile incontrare in molti luoghi ma che resta strettamente interconnesso, nell’immaginario comune così come nei fatti, alle ripide pendici del monte Zao, vulcano ormai soltanto lievemente attivo nella prefettura di Yamagata al confine con Miyagi, in quella stessa regione del Tohoku che venne colpita, nel 2011, da uno dei terremoti più terribili a memoria d’uomo. Abbastanza forte da distruggere edifici, rendere deserti interi villaggi, spazzare le coste con la furia delle onde che ogni cosa annientano mentre liberava la furia di un potenziale disastro atomico a Fukushima, ma NON cambiare le antichissime e immutabili regole della natura. Parte di un sistema per il quale, ogni anno tra ottobre e marzo, il vento siberiano soffia verso meridione inerpicandosi su tali pendici dopo aver attraversato il Mar del Giappone, per causare, senza falla, lo spaventoso ritorno dei Juhyō (樹氷). Mostri di neve, come vengono chiamati a beneficio dei turisti, benché i due caratteri da cui è formato il loro nome abbiano il significato ben più descrittivo di “alberi ghiacciati” e i locali preferiscano impiegare la metafora della coda di un gambero, vagamente richiamata dalla sagoma che formano tali misteriose presenze. Dovete sapere a tal proposito che l’intera regione del monte di Zao è un’importante resort sciistico nonché una rinomata onsen (温泉 – stazione termale) ragion per cui, come succede spesso in queste terre, i visitatori negli anni hanno fatto il possibile per individuare un carattere specifico, ed in qualche modo capace di caratterizzare un viaggio fin quassù, dove le aspettative non potevano, semplicemente, restare deluse. E c’è da dire che sulla base di una simile interpretazione, il fitto manto boschivo che incapsula le piste del vulcano, tale da prevenire ogni accenno di creatività sciistica da parte dei visitatori, assume in tale modo un merito bizzarro ed ulteriore, che può essere inserito con orgoglio nelle guide e le brochure locali. Non che i Juhyō, del resto, possano essere descritti come altro che un prodotto di condizioni estremamente raro delle condizioni atmosferiche vigenti…

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Gli spettacolari ombrelli giganti che proteggono la città di Medina

Quando il fondatore dell’Islam Maometto lasciò la Mecca nel 622 d.C, con i 75 mussulmani che l’avrebbero accompagnato nel viaggio a dorso di cammello noto come ègira fino alla città di Medina, l’ispirazione divina di cui era stato investito gli permise subito di capire come il passaggio successivo sarebbe stato costruire l’importante luogo di culto destinato a diventare Al-Masjid an-Nabawi (la Moschea del Profeta). Originariamente una piazza esposta alle intemperie delimitata da tronchi di palma, in un luogo precedentemente utilizzato come cimitero ed in parte per essiccare i datteri, essa dovette entro pochi anni venire ampliata e dotata di un tetto fatto con le foglie intrecciate assieme. Questo perché, con una temperatura media estiva in grado di raggiungere e superare i 40 gradi, la sua intera regione oggi appartenente all’Arabia Saudita non è propriamente tra le più adatte per soggiornare all’aperto, sopratutto mentre si compiono i lunghi e complessi riti opportuni per rendere omaggio ad Allah. Attraverso le generazioni questo importante punto di riferimento per l’intero mondo islamico quindi, iniziò ad essere considerato il secondo più santo dopo la Grande Moschea della Mecca che custodisce il nero edificio della kaʿba, in virtù del fatto che proprio qui venne sepolto Maometto stesso, nel luogo successivamente abbellito con la celebre cupola verde edificata in epoca più recente dal sultano ottomano Mahmud II (anno di costruzione: 1837). Ciò la rese una meta essenziale, per qualunque pellegrino che fosse degno di tale qualifica, aumentando esponenzialmente la quantità di persone pronte a raggiungerla al punto che la moschea, per quanto sottoposta a successive grande opere d’ampliamento, non avrebbe più potuto, semplicemente, riuscire a contenerle. Nonostante le migliori intenzioni, non c’era molto che si potesse fare in epoche precedenti alla nostra per impedire alle moltitudini di prostrarsi sulla pubblica piazza antistante, rischiando più d’un malore a causa delle temperature elevatissime dei suoi pavimenti ornati. Questo finché al re di epoca contemporanea Abdullah bin Abdulaziz Al Saud (in carica: 2005-2015) non venne l’essenziale idea di trovare una soluzione convocando alcuni dei più abili architetti e ingegneri a disposizione sotto la supervisione del tedesco Mahmoud Bodo Rasch, affinché progettassero la serie di 250 installazioni dall’alto grado di funzionalità note come ombrelli dell’Haram (Luogo Sacro).
Per chiunque visiti la prima volta questa importante capitale, quindi, sarebbe difficile sopravvalutare la vista inimmaginabile e quasi surreale di una simile pletora di strutture, individualmente alte 15,30 metri o 21,70 da chiusi, con un’area ombreggiata di esattamente 25 metri quadri. E complessivamente, la capacità di coprire tutti e 143.000 quelli occupati dalla vasta piazza, offrendo un’area climaticamente controllata e al sicuro dai malanni causati dal grande caldo, anche grazie a un sofisticato sistema di ventilatori con nebulizzatori d’acqua installati sulle loro colonne di sostegno. Con l’avvicinarsi della sera quindi, chiudendosi con una sequenza automatica per non urtarsi a vicenda, gli ombrelli lasciano salire il calore accumulato dal pavimento verso il distante cielo. Affinché il giorno successivo, ancora una volta, i pellegrini della Moschea possano condurre le loro attività nella sicurezza garantita da uno stato costante d’ombra e ragionevole refrigerio.

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