F1 containers: la macchina dei trasporti dietro il grande show

Oltre il formidabile rombo dei motori, dopo l’innalzamento della bandiera a scacchi e prima che il semaforo diventi ancora una volta verde, la gente della Formula 1 combatte una battaglia lunga e complessa, che come la base di una piramide, rende possibile l’esistenza continuativa del vertice sotto l’occhio delle telecamere internazionali… Già, il mondo! Forse ci sono altri sport che si spostano e viaggiano da un recesso all’altro dei diversi continenti. Magari. Ma nessuno fino a questo punto, e soprattutto nessuno che comporti il trasporto sistematico di 2.000 tonnellate prima che inizi ciascuna gara, ovvero in altri termini, l’equivalente di 240 elefanti. Elefanti come quello dei pezzi di ricambio, o il pachiderma del paddock, composto di attrezzi, strumenti e chincaglieria tecnica di varia natura. Per non parlare di sedie con la proboscide, tavoli e il necessario per il catering, talvolta inclusivo di alimenti. Nessuno di sicuro, vorrà vedere i membri del team che staccano a pranzo, prima di crollare a terra causa un calo degli zuccheri residui nel sangue versato fino a quel momento. Questo perché tutto, letteralmente ogni cosa nella Formula 1, è determinato e finalizzato dalle norme utili al massimo grado di velocità. Particolarmente in questa stagione 2018 che ci ha riservato, oltre all’introduzione del sistema di rollcage halo per la protezione del pilota e una mescola delle gomme più morbida e performante, un calendario dall’itinerario straordinariamente complesso, inclusivo fino ad ora di una serie di tre gare in week-end successivi in Europa e spostamenti altre l’arco stesso del globo, causa il passaggio diretto da circuiti come Sakhir in Bahrein a quello di Shangai, per poi trovarsi la volta successiva presso Baku in Azerbaijan. Per non parlare del gran finale previsto a novembre, in cui i piloti e tutto il loro seguito si troveranno a fare, nel giro di neanche un mese, una triplice trasferta Città del Messico/San Paolo in Brasile/Abu Dhabi. C’è di che far girare la testa a chiunque debba occuparsi di pianificare tutto questo, sia per quanto concerne i materiali fisici che il viaggio, e il soggiorno di fino a 80 persone per ciascuno dei dieci team partecipanti alle gare, ragione per cui l’organizzazione di ciascun singolo week-end viene curata con molti mesi d’anticipo, ovvero talvolta, l’intero arco di un anno nel caso dei passaggi più complicati. Ciò detto, non ve ne sono davvero di semplici; neppure nella serie di gare dislocate nei diversi paesi d’Europa, per le quali ci si aspetta che tutto il necessario sia pronto all’utilizzo nel giro di letterali tre giorni, quelli che trascorrono tra il finire della gara di domenica e la metà della settimana dopo, affinché gli addetti possano avere la situazione pronta entro le prove di venerdì. Un po’ tutti ne eravamo in qualche misura coscienti. Ma poiché il diavolo risiede, come si dice, nei dettagli, è soltanto approfondendo le specifiche della questione che riusciremo davvero a comprendere quanta straordinaria abilità sia implicata anche nel far girare i più umili tra gli ingranaggi, di un carrozzone che tutti ammiriamo pur conoscendolo, nella maggior parte dei casi, soltanto dall’esterno.
Ci aiuta a comprendere esattamente ciò di cui stiamo parlando Wendover Productions, un canale di YouTube che affronta tematiche per lo più tecniche attraverso l’impiego di immagini di repertorio, diagrammi e la spiegazione pacata della voce del titolare, in questo caso sponsorizzato da una famosa casa produttrice di videogame. Ma pubblicità a parte, come sempre, è la completezza della spiegazione a rendere l’opera meritevole di essere condivisa, anche visto l’argomento di palese e pubblico interesse. Il primo aspetto al centro della sua dinamica, dunque, è la natura triplice dell’approccio logistico al problema: con mezzi, come diceva qualcuno all’incirca 7 decadi fa “Di terra, di cielo e di mare!” ciascuno sfruttato in funzione dei suoi vantaggi inerenti e punti di forza maggiormente efficaci. Ovvero nel caso dei camion usati per i tragitti intra-europei, quasi sempre di proprietà del team, la spesa decisamente minore. Ma nel caso degli spostamenti verso molte delle mete fin quei elencate, Ferrari & company non possono fare a meno di ricorrere ai Boeing 747 forniti tramite il sistema dei voli charter dalla stessa associazione della Formula 1, per i quali pagano una cifra commisurata al numero di container di cui ritengono di avere necessità. Tutto ciò che può essere considerato di minor valore o importanza, nel frattempo, parte verso i diversi scenari di ciascuna gara già con mesi e mesi di anticipo, venendo scaricato in ambienti portuali e tenuto in magazzino, fino al giorno in cui verrà posizionato nel rispettivo paddock di appartenenza. Soltanto in questo modo, è possibile garantire che ogni cosa si trovi al suo posto, nel momento in cui viene dato il figurativo fischio d’inizio e si apre l’accesso del personale di gara alla pista, che dovrà letteralmente ricostruire un ambiente utile a progettare una vittoria sull’asfalto reso incandescente dallo spirito di battaglia e il desiderio eterno di prevalere. E chi può dire, davvero, di avere assistito a un simile spettacolo? Il primo e più lungo dei pit-stop, in cui le vetture fatte a pezzi vengono estratte dagli imballaggi estremamente accurati e gradualmente ricomposte, a partire da motore, trasmissione, alettoni e strumentazione di bordo, proprio mentre a poca distanza gli addetti dei team principali assemblano i loro “uffici mobili” su più piani, composti da pareti ultraleggere e inclusivi di servizi come ristoranti, sale di svago, letti per trascorrere qualche *ora* di riposo ed altre simili amenità. Niente viene considerato eccessivo, per un’industria capace di generare svariati miliardi d’introiti mensili, soltanto attraverso l’estrema precisione ed abilità di alcuni dei più formidabili organizzatori operativi in qualsiasi campo…

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Antica tecnica giapponese per far sgommare le city car

Iizasa Yamashiro-no-Kami spinse in avanti il piede destro, mentre posizionava la spada impugnata con entrambe le mani in maniera precisa sopra la testa, prendendo nota con la visione periferica della posizione di almeno 14 steli di bambù. Ma senza distogliere le sue pupille, dilatate per l’attenzione, dalla sagoma disciplinata del suo avversario, il giovane Wakasa no-Morichika, colui che sarebbe diventato, molto presto, l’erede della sua scuola. I due si scrutarono ancora per un tempo che parve infinito, in realtà consistente in appena 46 secondi e mezzo, quando lo studente, ruotando di 15 gradi a sinistra, balzò in avanti per manifestare la sua personale visione della Via del guerriero. Con un possente colpo vibrato di taglio all’altezza del petto, mirò a disabilitare il maestro Yamashiro prima ancora che potesse sfruttare la sua rinomata tecnica del cinghiale di montagna (yama kujira – 山鯨) consistente di una serie di finte e contromosse che nessun avversario, per quanto versato nell’arte del bujutsu armato, era mai riuscito a contrastare. E questo sia fuori che dentro i campi di battaglia che continuavano a palesarsi sul sentiero del clan Chiba, nonostante l’egemonia shogunale del clan dei Minamoto. Ma il veterano di cento battaglie sotto l’antico stendardo era già pronto, mentre recitava nella sua mente i versi del celebre Fujiwara: “Un altro anno è passato / nessuna primavera riscalda il mio cuore / non è niente per me / ormai sono abituato / a fissare l’alba” così esattamente mentre pronunciava la parola “alba” passò alla sesta posizione del suo repertorio, impugnando l’arma in diagonale verso il basso. Quindi, in un solo fluido movimento in cui veniva parzialmente coperto dalla vegetazione, slittando letteralmente di lato e portando a compimento una mezza rotazione, andò a segno sul fianco sinistro del suo avversario. Dal punto di vista sia teorico che materiale, la vittoria fu confermata istantaneamente, mentre l’avversario cadeva in ginocchio, momentaneamente paralizzato.
Ora, credete forse che un samurai, nel corso di un incontro di addestramento, affrontasse il suo avversario con una vera e propria katana, bastante a tagliarlo istantaneamente a metà? Ciò avrebbe comportato allo stretto giro dei termini, non pochi problemi. Così che nella pratica delle arti marziali, fin dall’epoca della loro prima pratica effettiva, era stato inventato uno strumento fondamentale, quello del bokken (木剣 – lama di legno) ovvero un bastone lievemente ricurvo, di noce o quercia, che tendeva a ferire, ma non uccidere l’avversario. Il quale successivamente si sarebbe trovato sostituito dall’ancor più efficiente e ragionevole shinai (竹刀 – bambù flessibile) costituito da un fascio di stecche del suddetto materiale, letteralmente incapace di arrecare lesioni gravi. Con il declino formale di un ideale, quindi, e l’insorgere di nuove tecniche belliche, il vero significato della mentalità samurai andò incontro a significativi slittamenti. Nell’epoca dei Tokugawa, oltre 100 anni dopo il momento immaginato in apertura, le antiche famiglie diventarono poco più che dei segni di riconoscimento, mentre il combattimento dei guerrieri itineranti, condotto per esprimere la superiorità di un dojo rispetto ad un altro, diventava l’unico sfogo di una classe oramai in declino. Finché ai giorni nostri, finiti il tempo delle spade, iniziò a diffondersi un concetto diverso per far prevalere la propria visione in combattimento. Sotto il segno degli pneumatici, mentre il rombo dei motori definisce il nuovo significato del termine Bushido ovvero il sentiero, o la strada (asfaltata) del samurai.
K-Soul è il nome del clan automobilistico preso in esame al termine del mese scorso da Noriyaro, grande appassionato di motori gaijin (di etnia e provenienza occidentale) che ormai da anni rappresenta la principale autorità di Internet nel campo più eclettico della cultura motoristica giapponese. Largamente fondata, come ormai tutti sanno grazie alla serie di film Fast & Furious, su un approccio per così dire onorevole alle curve, che prevede il posizionamento trasversale dell’automobile, mentre le ruote posteriori slittano liberamente grazie all’applicazione di una quantità generosa di potenza. Come fatto da questo gruppo di giovani, e non tanto giovani piloti, che grazie all’elaborazione momentanea di un’idea, seguita da un lungo periodo di perfezionamento, si propongono di offrire al loro mondo la versione su quattro ruote dell’originale bokken: praticare il drifting (o ドリフト – do-ri-fu-to) senza rischiare costantemente l’osso del collo, semplicemente perché le velocità raggiunte sono molto minori. Chiunque dovesse in effetti fare il suo ingresso nel circuito di Fuji mentre la squadra è in sessione, noterà in primo luogo qualcosa d’inaspettato: un insolito, impossibile e relativo silenzio. Finché raggiunti gli spalti, non finirà per trovarsi di fronte alla più surreale delle scene: un’ordinata sfilata di Daihatsu, Toyota e Mazda a trazione anteriore, con meno di 64 cavalli di potenza, che piroettano attorno al tracciato con un’orientamento trasversale simile a quello della tecnica del cinghiale del maestro Yamashira-no-Kami…

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Gli aerei di Düsseldorf che atterrano durante la tempesta Friederike

Tutte le notizie dei telegiornali, i reportage cartacei, le testimonianze radiofoniche e il sentito dire sul Web, non possono sostituire l’esperienza diretta di una situazione critica, per il modo in cui essa può riuscire a condizionarti, o rovinarti totalmente la giornata. E può sembrare fin troppo spesso che le alterne vicende di nazioni relativamente distanti, in quanto situate all’altro lato di un continente, possano riguardarti ben poco. Finché, alla velocità di un viaggio che ti porta oltre le nubi (per ragioni di famiglia, di lavoro etc…) non ti trovi nel velivolo che dovrà posare le sue stesse ruote in mezzo a quello che potremmo anche definire, non del tutto metaforicamente, l’occhio stesso del ciclone. Nove morti all’attivo, case scoperchiate, autotreni rovesciati, interi boschi sradicati, coi tronchi gettati sulle strade come fossero stuzzicadenti. Scene di persone intente a camminare per la strada, quando una raffica improvvisa non soltanto le getta a terra, ma inizia a trascinarle via sul ruvido asfalto. Ciò che questo inizio del 2018 ci ha portato, o per meglio dire ha portato ai nostri vicini francesi, tedeschi ed olandesi, è una manifestazione del terrore stesso che si è fatto vento, semplicemente il caso più grave, in tal senso, verificatosi nel periodo degli ultimi 11 anni. E saranno in molti, al termine dell’episodio, a poter dire di aver vissuto tutto questo in maniera fin troppo diretta e coinvolgente. Ma forse nessuno quanto quel gruppo di malcapitati viaggiatori che, per uno scherzo del destino, avevano in programma di arrivare con l’aereo in una delle zone colpite proprio nella giornata del 18 gennaio, ovvero prima che entrassero in vigore i blocchi per precauzione di tutto il traffico volante in arrivo.
Ora per chi non avesse mai avuto occasione di conoscerlo, l’Aeroporto Internazionale della città di Düsseldorf, base operativa della compagnia aerea Eurowings, è una struttura spaziosa, moderna e conforme ai più severi standard di sicurezza contemporanei. Le sue due piste, lunghe rispettivamente 3 e 2,7 Km, sono sufficientemente ampie da ospitare l’atterraggio dei più grandi aerei passeggeri attualmente in servizio, caratteristica che gli permette, inoltre, di restare operativo al 100% con venti di traverso di fino a 30-35 nodi, ovvero il limite operativo massimo di aerei come il Boeing 737, il bimotore più diffuso al mondo. Ma che succede quando le condizioni meteo s’inaspriscono improvvisamente, e le alte e basse pressioni causano degli spostamenti d’aria che iniziano a spostare l’aria a una velocità anche due volte superiore? Per prima cosa, si comunica la situazione ai piloti, affinché questi ultimi possano prendere una decisione informata in merito al fatto che sia il caso di proseguire, nonostante tutto, verso l’obiettivo designato, oppure cambiare l’ultima sezione della rotta, per portare i propri passeggeri al sicuro presso piste di atterraggio più tranquille. Ma poiché questa non è sempre la scelta effettuata dai diretti interessati, a volte per direttive  della linea aerea, altre per semplici considerazioni relative al carburante rimasto (è sempre presente, ovviamente, un margine) potrà capitare che pochi, o molti coraggiosi, si ritrovino a tentare nonostante tutto di arrivare a destinazione nel prefissato luogo ed orario. Ed è allora, volenti o nolenti, che s’iniziano le danze.
In questo video caricato sul canale Cargospotter, in realtà parte di un’ampia collezione di scene simili che stanno comparendo da una parte all’altra di YouTube, alcuni appassionati di aviazione hanno compilato una compilation delle riprese dirette, effettuate con cellulari o videocamere, da coloro che hanno deciso di offrire una testimonianza di questo momento critico e, a dir poco, assolutamente estremo. È semplicemente illuminante la maniera inversamente proporzionale alle dimensioni in cui i diversi aeromobili reagiscono alle forze in gioco, con un Bombardier Dash 8 (circa 70 passeggeri) che si avvicina al suolo alla maniera di un pianeta che sta per essere inghiottito da un buco nero. Mentre l’unico Airbus A380 della sequenza, il singolo più grande aereo passeggeri al mondo (fino a 853 persone a bordo) non sembrerebbe neppure risentire del vento, se non fosse per i rapidi movimenti osservabili del suo timone di coda. Fermo restando che siamo in una di quelle situazioni per cui, una volta che si fermano i motori, nessuno potrebbe fare a meno di trattenere un sincero respiro di sollievo…

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Gara di auto elettriche, svanisce la zavorra del pilota

Se funziona nei videogiochi, perché non dovrebbe farlo anche nel mondo reale? Beh, “funziona” è una parola grossa. Nel vasto catalogo di esperienze digitali interattive in cui siamo chiamati a dirigere un missile su ruote lungo i percorsi soliti noti, l’intelligenza artificiale è sempre un gran punto interrogativo. Poiché può basarsi, essenzialmente, su due direttive molto differenti, seguire semplicemente la linea di gara, oppure interpretarla. La differenza non potrebbe essere maggiore: nel primo caso, al giocatore sembrerà di essere come una scheggia impazzita, inserita artificialmente nel bel mezzo di un ingorgo a più di 300 Km/h. I diversi concorrenti, in realtà avatar dello stesso pilota privo di un corpo, marceranno ordinatamente lungo il tracciato, inscenando qualche volta la figura di un sorpasso. Neppure urtarli, accidentalmente o di proposito (magari per la frustrazione) potrà fare molto per alterarne il rigido copione. Fu questo il caso del primo, storico Gran Turismo per PSX, e di un buon 80% dei driving game venuti dopo quel momento. Ma c’è stata un’epoca, costellata di nomi come il game designer Geoff Crammond, la compagnia Papyrus e Simbin dei tempi d’oro, in cui le automobili venivano effettivamente programmate. Con una serie di comportamenti, non soltanto direttive, talvolta inclusivi di “episodi” umani, come errori di calcolo, pressione psichica o paura. Ecco, quest’ultima parte, sconsiglierei di eliminarla dal futuro della quattroruote Robocar. Dopo tutto, stiamo parlando di un bolide che dovrà girare nel mondo fisico, con tutti i rischi connessi ad una tale finalizzazione. Tranne quello, fino ad ora, considerato inevitabile: le gravi conseguenze per chi guida. Per il semplice fatto che non ci sarà più un “Chi”. Avete capito di cosa sto parlando? A partire dal 2014, nello scenario automobilistico mondiale esiste questa realtà in grado di rompere con il passato, identificata con una singola lettera dell’alfabeto. Formula E, ha deciso di chiamarla la FIA organizzatrice, dove la E vorrebbe simboleggiare, ovviamente, la parola ed il concetto di Elettricità. Il che sottintende assai evidentemente, questa serie di gare in cui il rombo del motore viene sostituito da un sibilo intenso, che sottintende una velocità massima inferiore ma il più delle volte, un’accelerazione niente meno che bruciante. C’è poi l’altro piccolo dettaglio di sfondo: la stessa macchina per tutti i team. Benché nell’ultima edizione, ci si stia muovendo in direzione diametralmente opposta, con la nuova regola che consente qualche grado di personalizzazione al gruppo motopropulsore, cuore stesso del veicolo in questione. Ma questo non è l’unico punto di rottura netta della serie, caratterizzata da un certo numero di altre caratteristiche distintive: intanto, i tracciati. Nove proposte disseminati tra altrettante città di larga fama, come Parigi, Hong Kong e Marrakesh (l’ottava, la decima e la dodicesima gara riutilizzano per la seconda volta, rispettivamente, Berlino, New York e Montreal) . Senza mancare ovviamente, di fare una visita al celebre circuito di Monaco, con prospettive ancora più intriganti all’orizzonte. Chi non sa ormai quasi tutto, ad esempio, del progetto confermato di portare presto questo grande show a Roma?
Tutto il caravanserraglio inclusi gli elementi di contorno, tra cui dovrebbe figurare, entro la fine di quest’anno, anche il campionato collaterale di Roborace. O almeno questo è ciò che sperano gli organizzatori. Di certo. a guardare il video appena rilasciato, proveniente dal circuito tedesco dell’ex-aeroporto Templehof situato nella capitale berlinese, sembra oggi di essere notevolmente più vicini all’obiettivo. L’automobile impiegata per la prova, in realtà non quella definitiva prevista dagli organizzatori, sfreccia ad ottime velocità lungo le 17 curve di questo vero e proprio labirinto d’asfalto, tutt’altro che un circuito veloce, ma proprio per questo, anche molto tecnico dal punto di vista di coloro che dovrebbero guidare. La Devbot, in realtà nient’altro che una Ginetta LMP3, ovviamente con motore al 100% elettrico, guida con una cautela pari a quella di un pilota di abilità medio-bassa. È stato dichiarato a tal proposito che la velocità complessiva sia inferiore dell’8% a quella media dimostrata dai partecipanti umani; ma questo non è necessariamente disastroso. Poiché, per tornare alla questione dell’IA (Intelligenza Artificiale) che si occupa di pilotarla, questo non è un veicolo che segua un copione particolarmente stringente. Altrimenti, cosa avrebbe di speciale? Forse ricorderete l’incredibile realizzazione dell’Università di Stanford a partire da un’Audi TTS nel 2010, che venne fatta girare sul circuito di Pikes Peak con punte di 209 Km/h ed un tempo finale, comparabilmente, decisamente più notevole di quello della Devbot. Per poi replicare il successo sul circuito di Top Gear, in una precedente puntata del famoso programma Tv inglese. Ma il punto è proprio questo: l’Audi andava tanto forte, poiché la sua navigazione si basava su una speciale tipologia di GPS reattivo, in grado di determinare la sua posizione sulla pista con pochi centimetri di errore. Questione ben diversa dal proposito di questa erede, che piuttosto alla maniera delle driverless cars di Google ed Uber, si propone di fare affidamento su telecamere a infrarossi, radar e lidar, finalizzati ad uno studio in divenire degli eventuali pericoli su strada, nonché un presa di coscienza, a livello di algoritmo, dell’effettiva linea da seguire. In gergo, si parla di un’automobile senza guidatore di livello 5. Neppure all’epoca degli anni d’oro dei simulatori ludici su PC, fu mai raggiunto davvero l’equivalente del livello 5. Ma in futuro, come dicevamo…

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