Fu dopo aver varcato con successo le turbolente acque di Capo Horn, dunque, che i marinai facenti parte della prima grande spedizione del capitano James Cook capirono che la loro missione era destinata ad un probabile successo. Giungere per tempo presso le remote lande dell’isola di Tahiti, nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico Meridionale, affinché gli scienziati a bordo potessero annotare l’osservazione del passaggio del pianeta Venere di fronte al Sole. previsto per la notte tra il 3 ed il 4 giugno del 1769. Una motivazione significativa ma per certi versi poco risolutiva, quella concordata ufficialmente tra il celebre esploratore della Royal Navy ed il re Giorgio III, se non fosse per la chiara possibilità di usare l’occasione come pretesto per proseguire, e finalmente portare a termine, l’esplorazione di un così vasto e sconosciuto territorio marino. Ciò che costoro ancora non potevano immaginare, tuttavia, era come i miti e leggende esistenti fin dall’epoca del Mondo Antico stessero davvero per realizzarsi, con la ri-scoperta da parte dell’uomo europeo della paventata Terra Australis, un continente segreto situato agli antipodi del grande globo. Così egli sarebbe giunto infine, nell’aprile dell’anno seguente, con la sua nave HMS Endeavor presso l’approdo di Point Hicks nella regione di Victoria, per proseguire immediatamente verso nord e completare la circumnavigazione della Terra. Ma non prima di aver circumnavigato, sulla strada verso il successo, una terra verdeggiante mai neppure immaginata, i cui alti rilievi offrivano uno scenario assolutamente spettacolare. Si trattava, principalmente, dell’Isola Sud della Nuova Zelanda. Mentre anche la sua prossima compagna, più piccola, settentrionale e pianeggiante, seppe presentare un biglietto da visita degno di essere celebrato: l’alta montagna conica di quello che Cook avrebbe scelto di denominare il promontorio di Egmont, dal nome di un nobile che non aveva mai lasciato l’Inghilterra, dagli oltre 2000 metri e con la sommità ricoperta di splendente neve. Nei fatti un vulcano e al tempo stesso, il singolo cono geologico più simmetrico mai incontrato dall’uomo.
Oggi spostandosi da quell’arcipelago largamente noto, per la qualità della vita e lo splendore cinematografico della sua natura, l’alta montagna è immediatamente riconoscibile almeno tra una certa categoria di persone: gli appassionati della cultura ed estetica Giapponese. Questo per il suo frequente utilizzo, in una lunga serie di pellicole tra cui “L’ultimo samurai” con Tom Cruise del 2003, come perfetta contromisura del monte Fuji, così come venne raffigurato in innumerevoli stampe, dipinti e altre testimonianze artistiche delle epoche trascorse. Ma è soltanto sollevandosi in aria mediante l’utilizzo di una moderna macchina volante (o semplicemente osservando le fotografie satellitari) che l’effettivo tratto distintivo di questa vera e propria meraviglia paesaggistica emerge dinnanzi allo sguardo degli osservatori: la maniera in cui le sue pendici verdeggianti cessano, d’un tratto, lungo una linea perfettamente equidistante dalla sua cima principale. Giungendo a formare un cerchio incredibilmente regolare, tanto che in molti potrebbero sospettare che debba esserci in qualche modo lo zampino di coloro che ogni cosa devono coltivare, trasformare, instradare all’impiego proficuo per la corrente società industrializzata. Il che non può che essere necessariamente corretto, così come riesce ad esserlo d’altronde per l’intera Nuova Zelanda, terra ricoperta un tempo integralmente dalla foresta selvaggia e ombrosa che oggi possiamo ritrovare tutto attorno alle pendici del monte Egmont, destinato ad essere ufficialmente ribattezzato nel 1986 con il nome in lingua indigena di Taranaki, significante letteralmente la “Montagna Splendente”. A causa di una serie di eventi e situazioni che potremmo ritrovare, essenzialmente, ripetuti nella storia ogni qualvolta una popolazione forte giunge in una terra dalle antiche tradizioni. E pone le basi, immancabilmente sanguinose, del suo futuro pentimento…
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È ancora ripida la scala che conduce a una perduta fortezza del Rinascimento indiano
Dove si colloca la linea di demarcazione tra una struttura difensiva utile, proprio perché posta in alto, ed un luogo tanto remoto e fuori dai sentieri più comunemente battuti, da trasformarsi in poco più che una dimostrazione del concetto di bastione imprendibile, per lo più finalizzato ad incutere mera inquietudine nell’operato di un’ipotetica strategia logistica d’invasione? Strutturalmente inerente risulta essere un tale concetto, nonché determinato dalle specifiche circostanze geografiche di ciascun caso preso in esame. In cui a un’estremo dello spettro potremmo porre, idealmente, i forti di pianura della Padania italiana, creati per resistere alle mire espansionistiche della serenissima Repubblica veneziana. Ed all’altra, spaziando nella nostra esplorazione, i remoti altopiani situati nella parte centro-occidentale del subcontinente indiano, all’interno del territorio facente parte di un antico e prestigioso impero. Fra tutti gli stati che compongono tale nazione, forse quello maggiormente dotato di un’identità propria e mutualmente esclusiva rispetto ai colleghi, direttamente riconducibile al personaggio storico del suo primo grande sovrano, il Chhatrapati (Re) Shivaji Bhonsale I, famoso per la guerra vittoriosa che concluse nel 1664, riuscendo finalmente ad arginare le mire espansionistiche dell’imperatore moghul Aurangzeb, in quel fatale 1664 che si sarebbe dimostrato estremamente significativo per l’India stessa. Un successo conseguito grazie alla notevole mobilità delle sue truppe a cavallo, capaci di spostarsi lungo creste montane quasi come fossero autostrade dei nostri tempi, cementando mano a mano i territori conquistati mediante la realizzazione di un particolare tipo di complessi architettonici: i leggendari forti di montagna del Maharashtra. Attribuiti alla sua figura in numero di circa 350, benché l’effettivo numero si aggiri assai probabilmente attorno a qualche decina, molti dei quali compongono parte irrinunciabile di un qualsiasi itinerario turistico della regione. Ed altri… Più che altro lo scenario vertiginoso di un possibile video su Internet, corrispondente a quel tipico genere mirato a stupire e coinvolgere lo spettatore d’occasione. Vedi l’impressionante oggetto della nostra trattazione…
È il punto centrale del celebre e difficile percorso di Alang, Madan e Kulang (spesso abbreviato in AMK) ovvero in un certo senso il suo culmine, quello che si realizza nella breve sequenza di Devendra Gogate, in cui assieme al suo seguito l’utente si avventura lungo il complicato tragitto che conduce fino alla cima piatta dell’omonima montagna. Una salita del tipo che soltanto poche persone al mondo potrebbero affrontare, se non fosse per il pratico punto di passaggio lasciato in eredità dai suoi insigni predecessori, costituito da una scala parzialmente erosa ricavata direttamente nel fianco della parete rocciosa. Una paradosso emozionante, quindi, quello che ricorderebbe le comuni metodologie di accesso a un’area da pic-nic, se non fosse per le molte centinaia di metri a strapiombo che fiancheggiano, a neanche un metro di distanza, il precario punto d’appoggio dei suoi piedi; verso il concludersi di un’esperienza che potremmo definire, senza dubbi di sorta, come ricca di quei contenuti adrenalinici che riescono a caratterizzare le più estreme situazioni d’altura. Verso il cielo ed oltre, tra le distanti cime che si perdono nella foschia, in una visita archeologica forse più conforme ad una tipica spedizione di alpinismo. Soprattutto perché molto poco resta, su ciascuna delle tre sommità citate, fatta eccezione per alcune cisterne d’acqua, una caverna, le semplici fondamenta di templi abbattuti dalla furia incontenibile del tempo. Laddove le destinazioni alternative, nel ricco catalogo dei dintorni, oltre ad essere più facili da raggiungere possiedono senz’altro un fascino più facile da essere descritto ed interpretato…
Imponente vulcano di ghiaccio compare improvvisamente in Kazakistan
Persone normali che s’intrattengono in un pomeriggio normale, dinnanzi a un fenomeno particolarmente rappresentativo dei mesi d’inverno: la crescita prevista da queste parte, alta e superba, di un cono tozzo con tanto di profondo cratere sulla sua sommità. Dal quale fuoriesce, in copiose quantità in cadenza poco più che oraria, l’acqua semi-solida proiettata con tutta la potenza di un vero e proprio pozzo artesiano. Siamo sul ghiaccio, s’intende, e per essere più precisi nella gelida regione kazaka di Almaty, secondo il “pezzo” ufficiale tra i due villaggi di Kegen e Shyrganak. Il che presenta senz’altro qualche piccolo problema concettuale, vista l’assenza di significative quantità d’acqua tra l’uno e l’altro secondo Google Maps (fatta eccezione per uno stretto ruscello) benché campeggino almeno un paio di capienti laghi a circa 50-60 Km in direzione nord-ovest (il piccolo Bartogay) e sud-ovest (l’enorme Issyk Kul). Difficile, a questo punto, determinare il sito esatto di una simile scena, la cui portata immaginifica per la popolazione risulta nel frattempo perfettamente chiara; quanto spesso, d’altra parte, capita di vedere un piccolo monte sorgere nel giro di una singola notte, come i castelli o ponti edificati, secondo un diffuso corpus leggendario internazionali, da demoni, mostri o creature fantastiche della foresta? Almeno 10 metri di mura scoscese, composte di ghiaccio e neve ben compatta, come un pupazzo geologicamente corretto usato per dimostrare uno dei principi basilari della Terra: che esiste qualcosa di fluido, sotto la spessa crosta che ospita i nostri sforzi di creature “superficiali” e che i processi incaricati di trasformare continuamente gli stati della materia sono almeno parzialmente responsabili, della sua tendenza occasionale a scaturire in vistosi zampilli verso le argentate nubi disperse in cielo.
Il cosiddetto criovulcanismo dei laghi ghiacciati non è d’altronde dovuto a fenomeni idrotermali sul diretto modello magmatico, come si potrebbe istintivamente credere per l’analogia con il geyser, bensì il prodotto del semplice moto ondoso che si abbatte su coste dalle precise caratteristiche paesaggistiche, contribuendo a generare questo spettacolo certamente raro, eppure tutt’altro che inaudito.
La maggior parte delle trattazioni scientifiche in materia, filtrate occasionalmente nella coscienza pubblica e ripubblicate online per via di precedenti occorrenze, sono a tal proposito riferite a strutture simili formatesi a ridosso dei Grandi Laghi statunitensi Michigan ed Erie, già celebri per l’ampia varietà di strane visioni glaciali capaci di prendere forma ad ogni concludersi dell’annuale periodo estivo, tra cui: cumuli di sfere candide, “pancake” sovrapposti di neve o interi edifici ricoperti da uno spesso mantello costellato di stalagmiti. In funzione di una forte incidenza meteorologica dei venti e le basse temperature che possiamo, per deduzione, attribuire anche alla versione asiatica dello stesso rilievo tendenzialmente effimero, altresì dotato di una forma e una massa ancor più significative. Ma proveniente dalla stessa, identica serie di circostanze, frutto dell’implacabile termodinamica ed una concatenazione fruttuosa, di causa ed effetto contestuale alle ghiacciate opportunità del caso…
La lunga ricerca del più grande nido mai costruito da un uccello terrestre
Vedere per credere, toccare con mano per sperimentare la sensazione. Sedersi dentro per trasformarsi nell’approssimazione antropomorfa di un gigantesco pulcino implume, fatta eccezione per il cappello da ranger e la giacca color verde militare. La vita del ranger è piena di sorprese ed una delle più piacevoli può essere collocata di questi tempi, grazie a una foto che sta ottenendo un significativo successo su Internet, presso lo Hueston Woods State Park di Preble County, Ohio. Dove qualcosa di sovradimensionato sembrerebbe essersi posata a terra, armata di becco, rametti ed il coraggio di usarli, mettendo assieme la più sfolgorante abitazione per volatili. Ben 2,5 metri di diametro per almeno uno e mezzo di profondità, tali da permettere a chiunque ne provi il desiderio di sedersi all’interno, per ponderare la propria condizione assieme al sogno di prendere il volo che un tempo fu, per Leonardo da Vinci, una ricerca programmatica dei propri codici più interessanti. Ciò detto, pubblicare l’immagine in questione sul sito del parco naturale sembrerebbe aver sollevato, a suo tempo nel 2017, non poche critiche accese da parte di chi non si prese la briga di leggere la didascalia; dopotutto, gli americani possono tollerare molte cose. Ma NON sottrarre per studio la nursery a un uccello simbolo della nazione, la Haliaeetus leucocephalus o splendida aquila di mare testabianca, costringendola presumibilmente in una sorta di semplice attrazione per turisti. Mentre un’analisi più approfondita, o la semplice voglia di usare la logica avrebbe aperto gli occhi dei detrattori verso alcune significative incongruenze. Prima tra tutte, la presenza di una rete metallica all’interno del nido, per poter tollerare meglio il peso e l’ingombro di una figura umana. Per non parlare dei giganteschi “rami” fin troppo perfetti, apparentemente usciti dal tipico diorama museale di un’epoca preistorica ormai perduta. Quello che urge sapere per giungere ad un’interpretazione realmente corretta della faccenda, tuttavia, è il modo in cui l’intera costruzione risulti essere assolutamente in scala reale, piuttosto che ampliata per valorizzare i più minimi dettagli. Volendo rappresentare nient’altro che un una dimensione possibilmente media, per l’essere che costituisce il costruttore di nidi arboricoli più alti nell’intero corso della storia evolutiva terrestre.
Non lo pterodattilo (che lasciava i suoi piccoli a schiudersi all’interno di una buca nel terreno) e probabilmente neppure le mega-colonie del passero tessitore, sebbene talvolta l’agglomerato dei loro nidi possa raggiungere le proporzioni accidentali di una vera e propria piccola città pigolante. Laddove parrebbe esserci qualcosa di estremamente speciale nel concetto stesso di un grande uccello il quale, mantenendosi monogamo per tutta la vita, fa ritorno per 20, 30 anni nello stesso luogo, ogni volta ampliando e restaurando il suo sopraelevato grattacielo. Vi sono, tuttavia, casi estremi in cui gli stessi eredi di una coppia hanno continuato ad utilizzare l’abitazione dei propri genitori, come nella celebre osservazione del nido fotografato per la prima volta nel 1805 presso un’isola del fiume Missouri, da J.C. Cowles. E che 55 anni dopo, il capitano ed esploratore William F. Raynolds ritrovò perfettamente invariato, nello stesso identico luogo. Struttura di cui non fu mai misurata l’ampiezza, benché possiamo presumere, nonostante tutto, che avesse mancato di raggiungere anche soltanto il record ufficiale registrato nel libro d’oro dei Guinness contemporanei, tale da far impallidire lo stesso costrutto artificiale dello Hueston Woods State Park.