Nuova simulazione informatica mostra come la Luna potrebbe essersi formata nel giro di sole 50 ore

Scintille nella tenebra del rendering tridimensionale, un ammasso di materia che in maniera procedurale sorge a bloccare l’unica e fondamentale fonte di ogni lucore cosmico incombente. Una sfera, se vogliamo, delle dimensioni approssimative di Marte; ma lanciata dalle forze cosmiche degli inconoscibili primordi all’interno di un’orbita erratica, soprattutto intersecantisi rispetto a quella disegnata dal nostro pianeta preferito nell’intero novero del catalogo interstellare, sulla base di fattori collaterali, come il ruolo di ospitare l’intera genìa pensante. Così sempre più grande, sempre più vicino, a questa Terra ricoperta di materia lavica fino ai remoti recessi del suo nucleo più profondo, come se costituisse la versione sottodimensionata di uno dei giganti inabitabili situati al di là della catena asteroidale… Essa era Theia, come sappiamo ormai da tempo, il nome della Titana che in base al canone mitologico greco avrebbe dato i natali, tra gli altri, alla pallida dea lunare Selene. In maniera compatibile con la nuova simulazione sperimentale che stiamo osservando, opera di scienziati dell’Ames Research Center attrezzati coi migliori strumenti informatici a disposizione, sebbene appaiano alcuni distinguo degni d’esser sottolineati. Mentre l’oggetto fuori dal contesto si disgrega e inizia a liquefarsi, una volta trovatosi al di sotto del limite di Roche (orbita più bassa possibile) del proto-pianeta più grande, formando un letterale arco di materia simile ai lapilli prodotti dall’occasionale brillamento di una stella. Abbastanza grande, sufficientemente pesante, da collassare autonomamente nel giro di un tempo “X” finendo per formare dai residui risultanti un terzo corpo, più piccolo di quello originale. Destinato a rimanere in quella stessa posizione, per gli svariati miliardi di anni a venire. Ma è la natura e durata di quel periodo “X”, secondo il nuovo schema digitalizzato, ad aver introdotto lo scorso aprile significanti spunti d’analisi ulteriori. Potendo aver coperto a quanto pare appena il tempo di due giorni ed una notte, un tempo comparabile ed invero persino inferiore alla Genesi secondo il credo della principale religione d’Occidente.
Da lì a quello che possiamo vedere oggi: un pianeta e il suo satellite, sospesi fin da tempo immemore nel terzo “spazio” delle orbite all’interno del Sistema Solare. Nella configurazione rara e totalmente casuale che permette al maggiore dei due corpi, in maniera certa e largamente acclarata, di essere arrivato ad ospitare la vita. Certo, almeno di quello possiamo esserne certi: altrimenti chi sarebbe, persino adesso, a interrogarsi sulla natura e l’ineffabile sostanza stessa dell’Universo? Con quel tipo di curiosità e desiderio di scoperta che ci ha fatto sollevare, gradualmente, un’importante serie d’interrogativi. Il primo relativo a come e perché, esattamente, l’accoppiata Terra/Luna presenti una disparità di dimensioni così poco pronunciata, con la seconda pari a circa il 30% della controparte, laddove la stragrande maggioranza dei satelliti astrali a noi noti raggiungono raramente il 10, 15% al massimo del loro corpo di riferimento. Per non parlare della straordinaria “coincidenza” che vede l’oggetto in questione ruotare su se stesso alla stesso ritmo della sua rivoluzione, creando essenzialmente il fenomeno persistente della cosiddetta faccia nascosta della Luna. In quella rara modalità cinetica che costituisce il moto “di minor dispendio energetico”. Certo, come no! Ma minore rispetto a cosa? Tra i primi a tentare di analizzare la questione di fondo mediante gli avanzati strumenti scientifici del mondo Moderno figura in effetti niente meno che Charles Darwin, il quale utilizzando l’analisi matematica riuscì a dimostrare come il corpo che tutt’ora agisce come un catarifrangente nel corso delle ore notturne, fin dall’epoca della sua remota formazione, si fosse gradualmente allontanato di una quantità difficilmente misurabile di chilometri nel suo complesso. Permettendogli di fare il passo ulteriore andando a ipotizzare che potesse essersi separato in qualche epoca pregressa per via della forza centrifuga rotativa. Se non eventi d’entità e portata inconoscibili, fino alla possibilità di ricorrere a strumenti d’elaborazione MOLTO più potenti della semplice mente umana…

Leggi tutto

La grande fame di galassie di un ragno cosmico mai sopito

Spazio, ultima groviera: per un formaggio d’Emmental lungo la cui superficie, che potremmo definire in senso lato “curva dello spaziotempo” si susseguono una serie d’aperture verso il nucleo stesso degli eventi. Buchi neri, se vogliamo, scavati per l’effetto di un processo largamente ignoto ma che ben sappiamo caratterizzare, fin dalla sua genesi remota, il senso logico fondamentale dell’Universo. Perché a lungo astronomi, teologi e filosofi si sono interrogati sulla dimensione, diffusione e frequenza degli SMBH o supermassive black hole, gli oggetti astrali simili, nell’aspetto e la funzione, a quello che consegue dal collasso di una stella che ha esaurito i termini della propria millenaria esistenza. Ma che in modo distintivo, presentano una massa pari a milioni se non trilioni di volte quella del nostro Sole. Il che sarebbe possibile, in linea di principio, soltanto dopo un tempo sufficientemente lungo affinché tali estremi poli gravitazionali riescano ad ingurgitare una quantità sufficiente di massa energetica dal cosmo e i sistemi stellari vicini; se non fosse per l’insignificante “dettaglio” che c’è un limite alla quantità possibile di materiale assorbito in un tempo X, causando un’età stimata per alcuni di tali buchi antecedente alla presunta nascita di ogni possibile cosa-che-è.
Big Bang, l’esplosione che in un attimo cambiò e diede l’origine, un po’ come la scoperta pubblicata dall’astronomo Marco Mignoli dell’INAF di Bologna e colleghi alla fine di questo settembre 2020 e che soltanto adesso, per cause scatenanti non del tutto chiare, sta venendo ripresa dalla maggior parte dei quotidiani generalisti alla ricerca di un tema indubbiamente degno di essere approfondito. Questo poiché una simile presa di coscienza, se approcciata con il giusto atteggiamento, può effettivamente trasformare la comune cognizione in merito a cosa siamo e dove ci troviamo, nello schema generale che ci contiene. Tutto inizia il mese antecedente con l’osservazione per un tempo insolitamente lungo, mediante l’impiego dei colossali telescopi dell’ESA presso l’osservatorio del Paranal nel deserto dell’Atacama in Cile, di un settore di spazio noto come z=6.31 quasar SDSS J1030+0524, per la presenza estremamente significativa di uno dei cosiddetti oggetti “quasi-stellari” che dal 1964 sono stati ipotizzati essere, dall’astrofisico statunitense Hong-Yee Chiu, dei dischi d’accrescimento caratteristici del periodo antecedente alla formazione di una nuova galassia. Luoghi tanto luminosi, ed estesi nella loro forma pseudo-globulare, da costituire il fondale perfetto per individuare ciò che, normalmente, virtualmente ed essenzialmente invisibile risulta essere per qualsivoglia tipo di strumentazione umana. Un aspetto niente meno che fondamentale quando si considera come, nella maniera in cui potreste già sapere, ogni osservazione cosmica è in realtà un viaggio nel tempo, dato il tempo necessario affinché la luce possa attraversare i grandi spazi vuoti dell’Universo. Permettendo, in casi talmente estremi, di gettare un letterale sguardo verso le origini stesse del presente stato delle cose.
Ecco dunque, l’inaspettata quanto surreale verità: di un corollario al buco nero collocato in tale area, con una massa stimata attorno al miliardo di soli che lo rende certamente imponente ma neanche tra i maggiori fin qui scoperti, circondato a sua volta da una serie di fonti di luce. Che sono state comprese essere, dopo un tempo ragionevole per l’approfondimento, nient’altro che un minimo di sei galassie giovani, quattro del tipo Lyman Break e due Lyman Alpha Emitters. Ma è stato più che altro ciò che occupa lo spazio tra di loro e il centro di un simile vortice, ad attirare l’attenzione degli scienziati…

Leggi tutto

Google Maps si espande ai pianeti e le lune del Sistema Solare

Considerato tutto il tempo che ha richiesto il lungo viaggio della sonda Cassini-Huygens dalla Terra fino a Venere, poi intorno a quel pianeta incandescente per sfruttare l’effetto fionda della gravità nell’invertimento di rotta fin qui ed oltre, verso i distanti anelli di Saturno, è singolare che alcuni degli effetti nella presentazione scientifica dei dati abbiano assunto una natura del tutto sorprendente. Come per il fatto che sia possibile recarsi una mattina su Google Earth per controllare un itinerario, scorrendo accidentalmente la rotellina del mouse in senso inverso dal massimo livello di zoom. Soltanto per allontanare e “liberare” la visuale, ritrovandosi di fronte a una nutrita barra laterale di possibilità. Raffigurante… I pianeti rocciosi ed alcuni delle lune più importanti del nostro particolare angolo di spazio siderale. Intendiamoci, non è che qui siano presenti soltanto i mosaici grafici delle fotografie scattate dalla sonda più avanzata della storia. C’è anche, ad esempio, una dettagliata mappa della nostra familiare luna notturna. E una versione ruotabile per circa metà della sua circonferenza di Plutone, il recentemente declassato pianeta “nano” che si trova agli estremi margini di quanto siamo riusciti ad inquadrare di non stellare coi nostri telescopi migliori. E poi Venere, Marte, Mercurio. Quest’ultimo in particolare che può sorprendere, per la somiglianza esteriore con il già citato satellite del nostro Pallido Puntino Blu. Menzione a parte meritano Ceres, l’unico asteroide del gruppo (dopo tutto, è il più grande che conosciamo) Ganimede, principale luna di Giove e una versione navigabile e cliccabile dell’ISS, la Stazione Spaziale Internazionale. Non che fosse particolarmente attinente allo specifico contesto. Ma le vere star dello show sono, a mio parere, proprio loro: Titano, Rea, Giapeto, Dione… Oggetti più grandi di alcuni dei pianeti fin qui citati, e facenti parte a pieno titolo di un vero e proprio sistema all’interno del sistema, il secondo, e certamente il più bello, dei corpi più grandi osservabili nelle nostre immediate vicinanze. Le Sidera Lodoicea (Stelle di Luigi XIV) come aveva scelto di chiamarle il Cassini storico, in onore del suo re e nella stessa maniera in cui Galileo definì “Medicee” le lune di Giove, con riferimento alla più importante famiglia fiorentina del Rinascimento italiano. Luoghi letteralmente sconosciuti al cinema di fantascienza, ed altrettanto poco discussi nei libri di testo scolastici e nei rari documentari d’astronomia. Eppure tra i migliori candidati, in più di un caso, come possibili spazi abitati da forme riconducibili al nostro concetto di forme di vita complessa, nascoste tra rocce che forse, un giorno, arriveremo per ribaltare.
La vera star della serie, ovviamente, è Titano: con una massa che è il 75% di quella di Marte, e quindi definita Luna unicamente in funzione della sua orbita dipendente da quella del gigantesco Saturno, per la prima volta mostrato con un livello di dettagli notevole, grazie ai sedici passaggi ravvicinati portati a termine dalla sonda Cassini Huygens, prima dello sgancio, il 14 gennaio 2005, del suo dispositivo di atterraggio e rilevamento, che continuò a funzionare per circa 2 ore inviando sulla Terra dati importanti e la fotografia di una singola inquadratura di una valle pietrosa, paragonabile a quelle dei due più celebri rover marziani. E sembra quasi di poter navigare, alla maniera di tali veicoli, tra un cratere e l’altro, attraverso l’alternanza di territori scuri e chiari che è una caratteristica tipica anche degli altri maggiori tra i 55 fratelli che ruotano attorno a Saturno. Al che, sarà opportuno specificarlo a questo punto, incontreremmo potenzialmente qualche problema. Questo perché, nella consueta fretta di suscitare l’interesse collettivo implementando qualche nuova funzione, Google sembrerebbe aver commesso un errore piuttosto madornale. O per meglio dire, parrebbe averlo fatto Björn Jónsson, “artista astronomico” a cui il blog ufficiale attribuisce la giunzione ed annotazione delle mappe. Almeno al momento in cui scrivo, quasi 24 ore dall’implementazione del sito, che tutt’ora presenta la nomenclatura topografica di queste lune invertita di 180 gradi. Casistica facilmente verificabile nel caso di Mimas, il corpo celeste spesso paragonato alla Morte Nera di Guerre Stellari per la presenza di un gigantesco cratere da impatto nella sua regione equatoriale, denominato Herschel, dal nome dell’astronomo e compositore tedesco. Ebbene tale nome compare, purtroppo, dalla parte diametralmente opposta della sfera crivellata dagli asteroidi. Altro che senso unico invertito sull’itinerario del TomTom…

Leggi tutto

Il gemello segreto che insegue il Sole

Tutto appariva normale, nel braccio periferico del disco della galassia. Ma se lo si guarda da abbastanza lontano, è praticamente sempre così… Quale enorme supernova, che incomparabile disastro, potrebbe risultare abbastanza forte da scuotere in un dato momento l’agglomerato di un milione di stelle? Ogni cosa è importante, in senso cosmico eppure da un certo punto di vista, proprio per questo, quasi niente lo è davvero. Una simile situazione cambia radicalmente soltanto quando un evento si analizza nello specifico, dal particolare verso l’assoluto, immaginando il punto di vista di chi deve vivere (o non-vivere) con le conseguenze di simili cause spropositate. Eppure, come nel caso delle antipatie e differenze tra antiche divinità, che condussero a guerre apocalittiche nell’era delle antiche mitologie, nessuno poteva davvero profetizzarlo. Quando d’un tratto, trascorsi i canonici 26 milioni di anni, ritornò lui. L’astro cupo delle profondità galattiche, una silenziosa nana grigia dalle emissioni praticamente impercettibili, passando attraverso l’agglomerato della nube di Oort. Colui o colei che da sempre aveva condotto un’esistenza del tutto solitaria, senza influenzare o essere influenzato da chicchessia. Tranne che in quei singoli e rari, ma regolari casi, in cui oltrepassando il velo glaciale, era sbucata nell’oscurità oltre l’ultimo dei pianeti. Trascinandosi dietro una certa quantità di meteore e comete. Stiamo parlando, sia chiaro, di un qualcosa di largamente ipotetico. Una risposta, piuttosto che la domanda, relativa al perché, effettivamente, possa essersi verificata a più riprese l’estinzione di un parte significativa della vita terrestre. Che fa da corollario alla celebre teoria del grande impatto, andando ad analizzarne la remota e poco luminosa ragione: la vendetta di un fratello. Il ritorno di un dio offeso. Colui che nascendo assieme alla nostra stella, aveva avuto la peggio, crescendo debole e malaticcio.
Il come e perché ciò potesse essersi verificato, fin dall’elaborazione di questa sfrenata ipotesi verso la metà degli anni ’80 e la denominazione dell’oggetto col nome piuttosto suggestivo di Nemesis, sono rimasti largamente ignoti alla scienza. Finché lo scorso 28 aprile non è stato pubblicato, sul server online dell’università di Cornell, un nuovo studio realizzato da Steven Stahler, astronomo di Berkeley, e la sua collega Sarah Sadavoy, mirato a presentare un’analisi dell’indagine astronomica di tutte le protostelle della nube molecolare di Perseus, sita a circa 230 parsec dal nostro sistema solare, un’operazione denominata VANDAM (VLA nascent disk and multiplicity survey). La precisa catalogazione, sostanzialmente, di una vera e propria forgia galattica all’interno della quale si verificano la serie di reazioni e coincidenze alla base della nascita di un corpo astrale del tutto nuovo. Il procedimento dell’elaborazione di una statistica matematica, si sa, è la strana prassi per cui il frequente verificarsi di un qualcosa lo rende più probabile in futuro. Oppure, in casi ancora più privi di una logica generativa, si presume succedere l’esatto contrario. Fatto sta che all’ennesimo spalancarsi di una simile finestra sull’infinito, in molti casi la sola che abbiamo, è apparso evidente come la maggior parte delle stelle neonate di classe spettrale G2 di Perseus, ovvero le più simili alla nostra, apparissero come parte di un sistema binario distante. Il che voleva dire, sostanzialmente, che esse ruotavano l’una attorno all’altra, a una distanza di circa 500 unità astronomiche, che poi sarebbero 17 più della distanza che c’è tra il Sole e il suo ultimo pianeta, Nettuno. Questo perché, come ampiamente dimostrato dai radiotelescopi del New Mexico usati nel corso del sondaggio, per ciascuna formazione stellare era presente una concentrazione molecolare nota come “ammasso denso” simile a un uovo con due tuorli distinti. Talvolta più distanti, e quindi propensi a separarsi per l’effetto della forza centrifuga rotativa, e qualche altra invece estremamente vicini, inevitabilmente destinati a formare sistemi multipli come quello della vicina Alpha Centauri. Ma il caso del Sole e di Nemesis, per inferenza, dovrebbe essere ancora diverso, ovvero quello di una delle due parti che assorbe una simile quantità di materiale da subordinare la sua controparte, limitando le sue dimensioni sufficientemente da farla restare intrappolata nel suo campo gravitazionale. Con le succitate conseguenze che purtroppo, noi già ben conosciamo. È una strana correlazione di fattori, che ci permette di comprendere qualcosa del nostro più prossimo vicinato attraverso l’osservazione di una realtà sita ad oltre 700 anni luce di distanza. Il che significa, incidentalmente, che stiamo osservando il passato. Ma questo, come si dice, è tutto un’altro paio di maniche…

Leggi tutto