Dai visionari anni ’80, la perfetta unione tra un camper e il motoscafo

Cos’è l’oggetto sgargiante ed oblungo che si avvicina coraggiosamente al lago, due ruote del tutto in acqua, il lungo finestrino fumé accompagnato da un’armonia di colori azzurro-arancione dal gusto marcatamente retrò? Pronto a spezzarsi, incredibilmente, a metà! Sopra ed oltre l’invisibile barriera… Che si frappone tra il mondo acquatico e quello terrigeno arrivando a presentare, in determinati luoghi ricoperti d’asfalto, porte d’ingresso, ovvero luoghi di transizione tra uno stato e l’altro, che l’essere umano può imparare ad attraversare senza nessun tipo di conseguenza. Dopo tutto siamo creature anfibie, tu ed io, provenienti dalla primordiale genìa natante di microrganismi e pesci, gradualmente transitati dallo stato pinnuto al possesso di quattro arti dotati di muscoli, artigli e tendini resistenti. E lo stesso può dirsi dei nostri strumenti di spostamento elettivo, pratici veicoli frutto della scienza & tecnologia pregresse. Di certo esistono, soprattutto nei contesti militari, mezzi dotati di ruote con scocca costruita in fibra di vetro o altro simile materiale, capaci di galleggiare in caso d’improvvisa necessità. Ma essi purtroppo sono, in funzione di tale ineccepibile versatilità, dei deludenti fuoristrada ancorché pessime barche, poiché niente può efficacemente incarnare, allo stesso tempo, i due spiriti contrapposti del trasporto veicolare motorizzato. Ecco perché in campo civile, l’unico all’interno del quale praticità e convenienza rappresentano due semi nello stesso baccello, si è sempre lavorato, piuttosto, sul miglior modo di UNIRE barca e automobile, tramite l’impiego di speciali rimorchi, carrelli o altri simili implementi finalizzati al trascinamento di carichi speciali. Così che l’appassionato o padre di famiglia attraverso le decadi, ha dovuto acquisire abilità come quella di parcheggiare con l’elemento che sterza in opposizione al contrario del volante, o far marcia indietro lungo il ripido declivio fino all’immersione di tale oggetto, affinché il carico possa venire “lanciato” oltre i limiti dell’elemento a noi congeniale. Tutto questo, mentre qualcuno nella periferia di San Diego pensava, pensava in maniera davvero intensa, se davvero non potesse esistere una soluzione in qualche modo migliore.
E quel qualcuno, di cui il nome oggi appare del tutto ignoto al popolo quasi-onnisciente di Internet, era il fondatore della Sport King Boaterhome West Inc, azienda fermamente intenzionata a debuttare nel 1986 durante il salone della barche californiane con un’idea straordinariamente intrigante, per non dire ragionevolmente rivoluzionaria: l’eponima curiosità veicolare, congiunta in un tutt’uno perfettamente divisibile all’occorrenza. Una boaterhome, nel suo concetto originario e prodotto unicamente in 21 (alcuni dicono 26) esemplari, è questo bizzarro veicolo lungo all’incirca 12 metri composto dalla parte frontale di un versatile furgone Ford E-Series, iconica spina dorsale dell’America che lavora, e un’imbarcazione completa a tutti gli effetti, con tanto di cabinato pensato per fondersi, e continuare idealmente, il cassone del conseguente spazio abitativo. Già perché questa boater, come preannunciato dal nome, è anche e soprattutto una casa mobile (home) nella quale l’unica cesura tra i diversi mondi è quella presentata dalla giunzione, praticamente invisibile, tra le due parti costituenti…

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L’invisibile giardino dei divertimenti sotto la città più affollata dell’America Latina

Generalmente quando tre voragini profonde 35 metri fanno la loro comparsa nel bel mezzo di un sovraffollato distretto finanziario, non è l’inizio di un buon capitolo nella storia urbana di una grande capitale nazionale. Soprattutto quando, come nel quartiere denominato Santa Fe di Città del Messico dal nome di un antico ospedale del pueblo, oggi poco più che un rudere, tale faccenda si palesa nel bel mezzo nella piazza abbandonata intitolata a Guillermo González Camarena, ormai da tempo utilizzata dagli impiegati dei moltissimi uffici circostanti al fine di parcheggiare abusivamente le loro automobili. Fortuna quindi che per tali veicoli, dopo una precisa segnalazione dell’amministrazione locale, un’altra collocazione fosse stata trovata, prima che il suono delle ruspe e dei martelli pneumatici potesse iniziare a diffondersi nell’aria. Perché già, ho mancato di evidenziare fino a questo punto la maniera in cui il “disastro”, inteso come punto di rottura con le aspettative o le condizioni operative pregresse, sia in effetti la diretta risultanza di un preciso accordo tra la città e il settore privato, o per essere più precisi i due importanti conglomerati Gruppo Carso e Copri, previo coinvolgimento degli studi architettonici messicani KMD e Arquitectoma. Per la creazione di un qualcosa che in tutta l’area culturale nordamericana, ma anche nel resto del mondo, nessuno aveva mai tentato con le stesse identiche modalità: la creazione di un centro commerciale sostenibile, dall’impatto ambientale contenuto e al tempo stesso, incredibile a dirsi, posizionato per almeno il 90% al di sotto del livello del manto stradale cittadino. Come una stazione della metropolitana ma con più marmo di pregio, negozi e soprattutto, senza SEMBRARE una stazione della metropolitana. Proprio grazie al particolare accorgimento nato dalla collaborazione dalle due figure dei progettisti principali dei rispettivi studi Francisco Martín del Campo e Jose Portilla Riba: i colossali lucernari a pianta circolare dal diametro di circa 30 metri ed ancor più profondi, con la forma approssimativa di un cono rovesciato in grado di ricordare, per una mera coincidenza, l’esatta forma dei gironi dell’Inferno Dantesco.
Nessuna punizione o diabolica presenza nel fondo della struttura inaugurata a maggio del 2014 con il nome stranamente anglofono di Garden Santa Fe, bensì un luogo di ritrovo “pubblico ancorché privato” dalla straordinaria luminosità e circolazione dell’aria nonostante il posizionamento, proprio grazie alla totale trasparenza della copertura interna delle suddette voragini, con un complesso sistema di vetri sovrapposti e apribili che bloccano l’ingresso dell’acqua durante la pioggia ma non l’ossigeno di ricambio. Nati, secondo un aneddoto raccontato da Martín del Campo, proprio a seguito della caduta accidentale di un mattone ad opera di un operaio distratto durante la costruzione, lasciando scaturire l’intuizione di quanto potesse risultare utile un tale accorgimento, nell’incrementare il già notevole eclettismo funzionale di un simile spazio ad uso commerciale. Chi avrebbe mai voluto visitare, d’altra parte, gli oltre 90 negozi disposti nei 12.000 metri quadri del nuovo ambiente, se la sensazione restituita fosse stata quella di trovarsi all’interno di una prigione sotterranea del Medioevo…

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Amezaiku, il fine pesce fatto dello zucchero del mondo

Durante l’intera epoca a cavallo del nostro anno mille identificata con il nome della capitale, Heian (l’odierna Tokyo) il Giappone andò incontro a un periodo di fiorenti commerci ed interscambi culturali con il continente, in modo particolare attraverso il viaggio dei suoi monaci, che si recavano in pellegrinaggio presso i maggiori templi buddhisti della Cina. Un processo che avrebbe incontrato l’inizio, piuttosto che la presupposta repressione, durante il regno dell’imperatore Kanmu nell’antecedente 782 d.C, il quale stanco delle manipolazioni politiche operate dal clero spostò la sua corte temporaneamente presso la città di Nara, mentre le istituzioni religiose continuavano ad ampliare ed istituzionalizzare il proprio predominio sugli ambienti urbani al centro dell’unico paese dalle migliaia di Dei. Fu dunque nel ventennio successivo, noto come periodo Enriaku (782-806) che la classe dirigente della religione provenuta da Occidente inviarono figure di letterati, poeti e studiosi al fine di riportare in patria dei particolari elementi o tratti distintivi, in grado di rappresentare un cardine del proprio predominio sui colleghi del tempo. Fu proprio ciò l’origine di tante arti oggi considerate prettamente “giapponesi” a causa delle forti rimodulazioni e modifiche apportate attraverso i lunghi secoli a partire da un tal momento: pittura, scultura, calligrafia, allestimento dei giardini, disposizione dei fiori… Persino la famosa cerimonia del té, benché in una forma embrionale ancora ben lontana dall’incredibile raffinatezza dell’epoca pre-moderna. Detto ciò, una delle eredità più eclettiche ed inaspettate, tra tutto il vasto comparto rispondente a tali presupposti, fu senz’altro quella del To-ji, tempio di Kyoto appartenente alla setta del buddhismo Shingon, che nel giro di pochi mesi ed anni vide il proprio spiazzo riempirsi di pensiline per gli ex-voto, sotto ciascuna delle quali, invece della tradizionale tavoletta di legno, trovavano posto pesci, rane, cavalli, conigli ed altre bestioline di buon augurio, realizzate con un qualche tipo di splendete e traslucido materiale.
Il quale risultava essere, in maniera certamente sorprendente, niente affatto del “semplice” vetro (ammesso che all’epoca esistessero dei mezzi tecnologici per lavorarlo) bensì uno speciale amalgama di zucchero, malto e riso glutinoso chiamato mizuame (水飴), caratterizzato dal comportamento tipico dei fluidi non newtoniani. In grado di offrirgli, in altri termini, la capacità di cambiare dallo stato solido a quello semi-denso quando avvicinato ad una fonte di calore, permettendo a un abile artigiano di plasmarlo nella forma momentaneamente desiderata. Un passatempo popolare, questo, certamente già noto in Cina e praticato ancora oggi con il nome di Táng rén (糖人 – persone di zucchero) benché configurato unicamente sull’introduzione di una certa quantità d’aria mediante l’impiego di cannuccia per poi aggiungere, con le pinzette, zampe o gambe alla piccola figura (teoricamente) commestibile infissa su di un bastoncino. Mentre come spesso capitava già in quell’era remota, la reinterpretazione giapponese assunse ben presto i contorni definiti di una vera e raffinata forma d’arte, con tanto di maestri identificati con il termine di ame shokunin (餹職人 – coloro che sanno far bene lo zucchero) capaci di dare vita, letteralmente, ad un simile materiale. Al punto che guardando la naturalistica e guizzante figurina conseguente dalla loro opera, ci si aspettava di vederla nuotar via o spiccare il volo verso le nubi distanti…

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Il robot creato per far rimbalzare pietre piatte sulla superficie di un lago

Le stagioni passano ma le vecchie abitudini sono dure a morire. Per un martello, qualsiasi cosa è un chiodo. E qualora l’attrezzo dovesse mancare, sarà la natura ad accorrere in aiuto, con l’alternativa valida di oggetto globulare ed oblungo, talvolta ruvido al tatto (ma non sempre). Il sasso in grado di delimitare un sentiero, ovvero la strada anche detta Via, che conduce all’ultima realizzazione di un pregevole obiettivo: dimostrare il proprio predominio sulla fisica dei corpi in movimento, intesi come cosa piatta che rimbalza, in qualità sua massima prerogativa, lungo la superficie lievemente increspata di un corso/specchio d’acqua, per molteplici e inarrestabili volte. Ma generalmente non più di dieci. Intere generazioni di fanciulli dediti al cosiddetto rimbalzello, sia in termini d’anni trascorsi dalla loro nascita che per l’età mentale soggettivamente percepita, hanno tentato di superare quel fatidico numero, accedendo alla fama del proprio limitato consorzio generazionale. Finché il globalismo dei moderni sistemi comunicativi, unito al senso della competizione contemporanea che ogni cosa pervade, non hanno aperto come una chiave la porta del perfezionamento, dimostrando che una persona sinceramente impegnata poteva ottenere molto, molto più di così. E che dire, dunque, di un ESSERE ARTIFICIALE?
“Creatore, qual’è il mio scopo?” Risuona metaforicamente la voce priva d’intonazione di una macchina, soltanto vagamente antropomorfa (beh, più che altro una scatola con testa ed arti) costruita al fine di essere trasportata presso il lago Cavanaugh nello stato settentrionale di Washington da niente meno che Mark Rober, l’eclettico ex-ingegnere della NASA famoso online, tra le molte altre cose, per aver partecipato alla progettazione del Rover Curiosity che oggi si trova su Marte, prima di passare al costume di Halloween con la coppia di iPad che proietta il “buco” attraverso la sagoma riconoscibile di zombies, fantasmi o altre creature da incubo temporaneamente resuscitate su questa Terra. Lui che si trovava qui impegnato, con il nutrito pubblico dei suoi giovani nipoti e mi sentirei anche d’ipotizzare, vista la quantità di gente, anche qualche amichetto di scuola, nel dimostrare in maniera pratica alcuni metodi del processo creativo al centro della sua carriera, particolarmente verso l’ottenimento di una configurazione finale finalizzata all’ottenimento di un record numericamente importante. Grazie a Skippa, l’essere mostrato in apertura, in realtà frutto dell’adattamento di una macchina per l’allenamento nel baseball, con il braccio alterare per non lanciare più il tipico pegno sferoidale di un tale sport, bensì un oggetto piatto riconducibile, sostanzialmente, al discobolo di Mirone: cerchietti d’argilla essiccati al sole. Per lo meno, in questa fase preliminare dell’intrigante progetto, finalizzato a dimostrare le vette sportive raggiungibili da un dispositivo creato artificialmente, quando le condizioni d’impiego risultino perfettamente prevedibili ed uguali per ciascun singolo tentativo. Una qualcosa di perfettamente riconducibile anche alla pratica umana di un simile campo d’interesse, quando si considera come nel solo ed unico campionato mondiale di stone skipping o skimming (come viene alternativamente chiamato nel mondo anglosassone) tenuto ogni anno a settembre presso l’isola scozzese di Easdale, uno degli aspetti chiave sia l’impiego di pietruzze quasi perfettamente identiche, tutte provenienti dallo stesso materiale dell’ardesia un tempo estratta da quel territorio, prima che il modificarsi del paesaggio portasse le antiche miniere a ritrovarsi completamente allagate. Poco male, considerata la nuova attività-simbolo di queste persone…

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