L’esperta opera degli artigiani che accompagnano i campionati mondiali di biliardo

Nell’antichità del Giappone, era usanza credere che la purezza fosse uno dei meriti trascendentali di un luogo sacro. Per questo i sacerdoti shintoisti erano soliti praticare non soltanto le loro frequenti abluzioni rituali, ma anche una certosina pulizia dei loro templi, fino al più nascosto angolo invisibile ai propri fedeli. Ma a seguito di grandi sventure o eventi particolarmente sfortunati, quando ciò non era ritenuto più abbastanza, era l’usanza procedere alla demolizione sistematica dell’edificio stesso, per ricostruirlo il più possibile identico ed a qualche metro di distanza, perciò auspicabilmente privo di alcun tipo d’influsso maligno. In almeno un caso, la situazione fu giudicata abbastanza grave da dover spostare l’Imperatore e con esso, la capitale dell’intero paese. Soltanto nessuno avrebbe mai pesato che qualcosa di simile, al giorno d’oggi, continuasse a succedere nel gioco del biliardo.
Poche terminologie riferite ad un particolare tipo di passatempo sono andate incontro ad una serie di slittamenti semantici significativi quanto quelli relativi all’intrigante impiego di palle, tavolo e stecche (opzionali) da gestire con perizia imperitura. Il cui stesso nome, originariamente, fu creato al fine d’identificare in lingua francese (billard) l’insieme di svaghi da salotto inventati storicamente alla corte di Luigi XI nel 1470, da mettere in pratica nei giorni troppo piovosi o freddi per uscire a divertirsi nei giardini del palazzo reale. E che soltanto successivamente, nei paesi anglosassoni, avrebbe finito per identificare lo specifico sistema di regole del cosiddetto carom billiard, corrispondente essenzialmente alla carambola italiana, giocata mediante l’utilizzo di soltanto tre palle. Questo perché assai numerose, da un alto all’altro dell’Atlantico, sarebbero state la varianti inventate per contestualizzare lo scivolamento di una serie di sferoidi sopra un tavolo dal caratteristico color verde smeraldo. Ma soprattutto una, in Inghilterra, avrebbe acquisito una particolare popolarità a partire da uno specifico evento nella storia della tecnologia: l’invenzione della tv a colori. Sto parlando dell’iniziativa del famoso documentarista David Attenborough, all’epoca direttore della BBC2, che nel 1969 commissionò e mandò in onda il torneo di Snooker denominato Pot Black, durante cui per la prima volta i telespettatori poterono apprezzare la colorazione delle varie palle dai valori ai fini dell’attribuzione del punteggio finale. È altrettanto possibile tuttavia un secondo punto di svolta, nella storia mediatica di questo sport, che possiamo collocare arbitrariamente lungo l’arco dei canali tematici e lo streaming digitale on-demand: il preciso momento in cui le telecamere iniziarono a restare accese, tra una partita e l’altra e perciò anche diverse ore prima dell’inizio di un nuovo turno di giocate. Ed il pubblico scoprì, non senza un certo senso di sorpresa, la maniera in cui ciascun grande tavolo dalle considerevoli dimensioni di 365.8×182.9 cm veniva sistematicamente smontato, ed in seguito ricostruito, alla fine ed all’inizio di ciascun singolo evento. Tutto ciò per la necessità, in verità piuttosto contro-intuitiva, di preservare il più possibile la purezza funzionale di un qualcosa di apparentemente semplice (il mero piano orizzontale) che in effetti è la derivativa conseguenza di un’attenta serie di parametri, da preservare e perpetuare grazie all’adozione di standard particolarmente elevati. Osservate, a tal proposito, l’opera di questi notevoli praticanti, in un video datato al 2017 con oltre un milione di visualizzazioni, ma per il resto privo di particolari riferimenti, ambientato durante l’annuale torneo internazionale del sopracitato tipo di competizioni dall’alto livello d’abilità individuale. Riferita, come si scopre in questo caso, non soltanto ai giocatori propriamente detti, ma anche coloro che dovranno attentamente assicurarsi che il campo della contesa sia non solo perfettamente conforme alle pregiate regole internazionali, ma perfettamente identico tra una partita e l’altra. Perché vedete (e poco più sopra, l’avrete certamente visto) l’unicum almeno in apparenza indivisibile di un tavolo da biliardo è in realtà la risultanza di una serie di componenti, dalla natura particolarmente varia ed oltremodo interessante. A partire dalla struttura di sostegno lignea, attentamente numerata e dalle mortase create con il minimo margine di tolleranza, nonché dotata a simili livelli di un apposito sistema di riscaldamento, capace di minimizzare l’accumulo progressivo di umidità, con conseguente modifica del comportamento delle palle. Per proseguire con lo strato successivo di pregevole ardesia italiana, un vero incubo logistico nella continuativa pratica di questo antichissimo mestiere…

Procedure di costruzione come quelle messe in atto durante i campionati del mondo non sono frequenti all’interno di semplici club di biliardo, sebbene possano verificarsi nelle istituzioni più prestigiose. Previa opportuna verifica, in anticipo, dell’effettiva solidità della struttura architettonica, visto il peso approssimativo di un singolo tavolo capace di aggirarsi attorno alla tonnellata.

Fa in effetti una certa impressione vedere i due addetti della squadra costruttori tavoli, almeno all’apparenza non particolarmente muscolosi, sollevare come se niente fosse ciascuna delle cinque lastre di pietra perfettamente levigate, dal peso dichiarato di circa 200 Kg (ed un semplice calcolo della densità del materiale, moltiplicato per spessore e dimensioni, non potrò che confermare quel dato) facendo delicatamente perno a partire da un carrello poco convenientemente non più alto di qualche dozzina di centimetri da terra. Un passaggio a cui fa seguito l’essenziale apposizione dell’appropriata quantità di stucco in mezzo agli interstizi risultanti, da parte dell’esperto caposquadra rigorosamente attrezzato col caschetto da cantiere, prestigioso simbolo paragonabile al cappello di Napoleone. Per un ruolo di comando ulteriormente rafforzato dalla maniera in cui costui misurerà la perfetta disposizione del piano di gioco, mediante l’impiego di speciali livelle di tipo ingegneristico. Verso un passaggio successivo che, persino ad altri praticanti di quest’arte, potrà sembrare un’affettazione prestigiosa e priva di alcun significato pratico immanente. Il quale si espleta immediatamente dopo l’essenziale srotolamento del cosiddetto panno inglese o feltro, costituito in genere da lana pura o il misto di lana/nylon chiamato baize, per fissare il quale viene adottata la tradizionale soluzione di un desueto martelletto ed appositi chiodini di precisione. Laddove una semplice spillatrice industriale avrebbe potuto ottenere risultati ragionevolmente indistinguibili nella metà del tempo. Incredibile dimostrazione di perizia tradizionale oppure… Che avesse semplicemente le batterie scariche, quel giorno? Segue l’incredibile sequenza, l’apposizione e conseguente avvitamento delle cosiddette sponde o cuscini, che vengono portati sulla scena già integralmente montati in ogni loro parte; si dice infatti che soltanto pochissimi praticanti della costruzione dei biliardi, persino ai vertici di tale settore, possiedano la precisione necessaria a ricoprire quelle superfici di gomma vulcanizzata con l’essenziale panno verde, pena la rovina irrecuperabile delle condizioni di gioco. L’impiego di una serie di accurate forme o templates, a questo punto, garantirà l’appropriata dimensione e angolazione delle buche.
Una precisa serie di passaggi che si dice derivare nel presente caso, secondo la tradizione, da un particolare ed ingombrante tavolo da biliardo che fu trasportato via nave attorno al 1875 fino alla sala ricreativa del Reggimento del Devonshire a Jubbulpore, in India. Suscitando l’attenzione dell’ufficiale Sir Neville Chamberlain, che ebbe l’idea di far giocare i suoi uomini non più con un numero limitato di palle, bensì l’intera dotazione che era disponibile presso la rigorosa e rigida istituzione militare. Così che in breve tempo, il suo regolamento capace di richiederne ben 21 avrebbe messo in difficoltà una certa quantità di nuovi giocatori incapaci di gestirne tante, portando all’abitudine di chiamare simili malcapitati snookers, dal termine idiomatico convenzionalmente riferito ai cadetti del primo anno. Finché con il trascorrere degli anni, ed il diffondersi del nuovo interessante metodo, tale termine avrebbe finito per riferirsi al gioco nel suo complesso. Consistente, come probabilmente già sapete, nel mandare in buca a turno le palle in base ad uno schema ben preciso, che prevede un’alternanza tra le 15 palle rosse e le rimanenti sfere colorate, in ordine da quella di valore minore fino alla preziosissima nera (che vale 7 punti). E molti drammatici momenti di spareggio, nella storia pregressa di questo sport, si sono giocati quando l’unica rimasta in gioco era proprio quest’ultima, mentre due abilissimi giocatori facevano a gara per riuscire a mandarla in buca. Una situazione chiamata in gergo anglofono re-spotted black e durante la quale, più che in qualsiasi altro momento, diventa fondamentale poter fare affidamento sulle condizioni prevedibili e ottimali del tavolo di gioco.

Molti dei primi tavoli impiegati durante i campionati televisivi si servivano di panni di colore azzurro, per il maggior contrasto con le palle dello Snooker a vantaggio degli spettatori a distanza. Un limite successivamente superato, grazie al miglioramento delle prestazioni del segnale e gli schermi.

Molte cose sono quindi mutate attraverso gli anni, nel tipo di materiali ed attrezzatura impiegati per la pratica di questa intera categoria di contese sportive, vedi ad esempio l’adozione di stecche costruite in materiali compositi come la fibra di vetro il kevlar, ma il tavolo in ardesia non è uno di queste. Quasi come se il mantenimento di uno scenario adeguato fosse il fondamento stesso della pratica capace di perpetrar se stessa attraverso i secoli, laddove la virtualizzazione, e conseguente perfezionamento dei canoni non è ancora stato portato a compimento. E chi può dire, a tal proposito, per quanto a lungo ancora i termini materiali di un qualsivoglia gioco potranno continuare ad avere un ruolo rilevante nelle pratiche di un’arte similmente perduta? Quando i giochi della nuova epoca si servono di pixel e poligoni, per raggiungere con comparabile efficienza lo stesso obiettivo!
Ma lo sapevano fin troppo bene quegli antichi sacerdoti: che l’eccessiva perfezione non è sempre un sinonimo di purezza innanzi agli occhi degli Dei in attesa. Ed il vero scopo di chi fosse incline a preservarla, non era tanto il risultato apprezzabile da tutti, bensì quello nascosto all’interno della propria personalissima, imprescindibile visione del mondo.

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