La sublime arte del cambio da trasportatore a 18 marce

In molti hanno avuto modo di sperimentarlo: quando si accetta il compito di prendere un qualcosa di grosso e pesante, assicurarlo saldamente al retro del proprio veicolo e intraprendere un lungo viaggio, soltanto tre sono i fattori da considerare: il ritmo e il regime del proprio motore, la stanchezza fisica che può condizionare la nostra soglia di attenzione e… L’infinità quantità di variabili, contrattempi, imprevisti o situazioni meno che ideali, che possono frapporsi sul sentiero verso la piazzola di scarico del nostro destinatario di giornata. Che possono variare dall’effettiva necessità di deviare dal tragitto predeterminato, per lavori in corso o la chiusura (temporanea?) causa conseguenze di un probabile incidente, alla mera disposizione fisica degli spazi, capace d’includere, in determinati casi, quel tipo di disposizioni oblique che prendono il nome di “salita” o “discesa”. Che già ci condizionano, notoriamente, quando nel corso delle nostre passeggiate o pedalate ci approcciamo alla necessità di consumare un numero maggiore di risorse, al fine di percorrere una distanza niente affatto superiore, ma quando ci si trova appesantiti da 15, 20, 30 tonnellate di un rimorchio attaccato dietro al potentissimo motore, tutto cambia e tende, molto spesso, a peggiorare.
O almeno questa è una delle possibili interpretazioni di quanto qui di preoccupa di dimostrarci Dave, camionista da oltre 35 anni, oggi titolare tra le varie cose di un canale identificato come Smart Trucking, ricco di contenuti rivolti a chiunque si ritrovi, nel mezzo del cammin della sua vita, a desiderare d’intraprendere una simile carriera. Che in quello che costituisce ad oggi il suo video più popolare su YouTube (quasi 900.000 visualizzazioni!) si preoccupa di tradurre in parole una delle faccende che maggiormente tendono ad intimidire, per non dire paralizzare causa senso di transitorio ed istintivo terrore, la maggior parte dei suoi colleghi alle prime armi: il tipico cambio di una motrice stradale di livello 8, sarebbe a dire quello che i non iniziati chiamano “grosso camion” la cui pletora di rapporti, incidentalmente pari al numero di ruote di questi veicoli, risulta l’orgoglio e il simbolo forse meno noti di un’intera categoria sociale. “È molto semplice…” esordisce quindi, in maniera analoga a quanto fatto da altri video bloggers che hanno scelto, a loro modo, di trattare un così spinoso argomento “Basta fare le cose nel giusto ordine, e non saltare nessuno dei passaggi previsti nel manuale d’uso.” Quello fornito, per l’appunto, con il suo camion Peterbilt 379, vero e proprio classico della celebre marca produttrice texana, inciso a lettere di fuoco nella cultura popolare come forma alternativa dell’eroico robot transformer Optimus Prime. Che nell’allestimento situato sotto il suo sedile, presenta la formidabile dotazione del tipico cambio manuale RT-18 della Eaton, marca forse più famosa nel mondo consumer come produttrice di gruppi di continuità per il computer, di ogni possibile foggia o misura. Uno standard dell’industria, quando si tratta di essere sicuri che il regime del proprio motore da oltre 450 cavalli sia corretto per il tipo e l’entità del gradiente che si trova a frapporsi lungo l’estendersi del nostro sentiero. A patto, ovviamente, che il guidatore sappia dimostrarsi all’altezza di una tale “belva”…

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Il bolide corazzato capace di sfidare le convenzioni degli anni ’30

Il Fato dà, il Fato toglie. Ciò è insito nella stessa concatenazione di causa ed effetto che governa il corso progressivo degli eventi. Ma è talvolta impossibile fare a meno di chiedersi che cosa sarebbe successo, se soltanto il battito d’ala della farfalla, alterando in maniera impercettibile il moto dei venti, avesse prodotto un effetto contrario al proverbiale uragano, impedendo il verificarsi dell’uno, oppur l’altro punto di svolta nello svolgersi di una particolare vicenda. Permettendo, per venire a noi attraverso un esempio, al rampollo ribelle Rust Heinz dell’eponima famiglia produttrice delle celebri “57 varietà di ketchup americano” fosse riuscito a superare nel 1936 l’esame presso l’università di Yale sul tema dell’architettura navale che avrebbe costituito la goccia in grado di far traboccare il vaso, portandolo a interrogarsi sul significato di un futuro già deciso dalle gesta del nonno e grande fondatore, mirante a ereditare l’azienda di famiglia senza nessun tipo di sforzo o difficoltà, né un importante lascito nei confronti del mondo. Oppure se soltanto, tre anni dopo, una fronte di bassa pressione capace di trasformarsi in alito d’atmosfera non avesse trascinato via il cappello trillby del suo amico temporaneamente al volante, di una potente Buick sopra il ponte di Westinghouse in Pennsylvania, portando quest’ultimo alla pericolosa manovra d’inversione che avrebbe portato all’impatto con un veicolo sconosciuto e il conseguente ferimento di cinque passeggeri, oltre alla morte di lui, l’uomo che alla tenera età di 24 anni aveva già una moglie, un figlio e un’idea (forse) capace di cambiare il mondo.
Già perché quando un pluri-miliardario per nascita decide di lasciare il nido e gettare via le catene imposte dalla sua eredità, generalmente, lo fa con un piano preciso e un progetto capace di garantire la propria indipendenza, pena il compiersi di un gesto del tutto privo di significato. E caso vuole che la passione, nonché il sole nascente del giovane Mr. Heinz fossero le automobili, particolarmente quando potenti, esteticamente notevoli o dotate di una qualsivoglia caratteristica fuori dalle normali concezioni veicolari precedentemente acquisite. Come la formidabile Cord 810 della Auburn Automobile con cambio automatico, fari a scomparsa e ben 125 cavalli di serie, prodotta nello stato dell’Indiana, al volante della quale aveva lasciato il Connecticut per recarsi ad Hollywood, come tanti altri giovani della sua generazione, con le stelle a brillargli negli occhi e il fermo desiderio di realizzare il Grande Sogno Americano. È cognizione ormai largamente acquisita il fatto che a questo punto, un tale personaggio avesse già ben chiara nella mente, se non addirittura disegnata all’interno della sua valigia, quella che sarebbe in seguito diventata la Corsair Phantom, una delle concept car capaci di lasciare il più indelebile segno nello stile e i propositi progettuali dell’intero terzo decennio del ‘900. Nonostante l’inaspettato concludersi della sua vita, per l’imprevedibile quanto fatale incidente, avrebbe portato la rilevante avventura ingegneristica a concludersi con la produzione del solo prototipo. Ma di che automobile stiamo parlando, signori miei!

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Missione bosozoku: chi cavalca il motorino più LUNGO della nazione?

Dice la sgargiante Kawasaki Z1 blu notte del ’72 nel parcheggio del Ryokan, presso l’imbocco settentrionale della Shuto, celebre superstrada che permette di raggiungere rapidamente i quattro angoli di Tokyo: “Ah, voi giovani! Da quanto tempo avete perso il contatto con i valori alle origini del nostro mondo?” Le carene rialzate ed inclinate a 45 gradi, il manubrio rivolto all’indietro, il vistoso poggiaschiena dietro quel sellino connotato ulteriormente, in base al gusto del suo proprietario, da una triplice marmitta degna di trovare posto sopra un dragster supersonico di concezione americana. Eppure niente affatto impressionato, oppure in soggezione, sembrava essere lo Skywave 250 Type S della Suzuki, anno 2005, color verde coleottero, la sella tra le elitre scanalate, i fari sostituiti da quel rostro aerodinamico, fatto per “insinuarsi” o “trafiggere” gli ingorghi in mezzo al traffico di tipo convenzionale. “È questo che pensi, ojiichan? (nonnetto) Superare i limiti di velocità, passare con il rosso, provocare le polizia mentre s’indossano uniformi con slogan altisonanti e altri accessori da piloti di una guerra ormai dimenticata… Secondo me questo è l’anacronismo, l’inutilità che si trasforma in rombo di motore! Il nuovo è basso e aerodinamico, senza neanche l’ombra di una molla nelle sospensioni…”
Bōsōzoku, ovverosia 暴走族: letteralmente [la] tribù che corre senza controllo. Il principale movimento giovanile nato immediatamente dopo la fine del secondo conflitto mondiale in Giappone, sulla base di quel tipo di veicolo a due ruote, la moto, che poteva essere guidato senza attendere il raggiungimento della maggiore età. In abbinamento con un forte senso di nazionalismo piccato, reso chiaro con l’impiego di simbologia militare, tra cui l’intramontabile bandiera con il Sol Levante a strisce rosse e bianche, usata per la prima volta sui campi di battaglia dell’epoca dei samurai, fortemente associata ad un particolare tipo di pensiero politico e sociale. Il che lascia intendere un fraintendimento alla base di questo particolare movimento, visto dal pensiero internazionale come una via di mezzo tra le gang motociclistiche ribelli statunitensi, nello stile degli Hell’s Angels, e la cultura Mod britannica con le sue vespe fortemente accessoriate, punto di rottura con lo stile sobrio ed “elegante” di coloro che avevano posseduto l’asfalto delle strade fino a quel momento. Laddove non c’è niente, contrariamente all’apparenza, di selvaggio e imprevedibile nei gruppi organizzati di costoro, all’interno dei quali vige una gerarchia ancor più rigida dell’adiacente società civile, basata sul sistema giapponese dei senpai e kōhai (“primo” e “ultimo” compagno, sostanzialmente un merito donato dall’anzianità) legati assieme dalla struttura inscindibile del nakama (gruppo a.k.a. famiglia o clan, non per forza di tipo biologico) e dediti a una serie di valori estremamente precisa: lealtà, onore, coraggio, rettitudine… In buona sostanza, una versione riadattata ai nostri tempi del Bushido, famoso codice di autoabnegazione e sacrificio nei confronti del proprio signore.
Eppure, può sembrare strano: se si mette piede in un raduno bōsōzoku successivo all’anno 2000 e le più stringenti leggi messe in opera dagli ultimi governi, c’è ben poco di quest’aria carica di pregni e ormai desueti significati, sostituita dal palese desiderio di stupire colui che guarda, mediante l’ineccepibile originalità delle proprie soluzioni veicolari dal piglio altamente personalizzato. Mezzi che, come le itasha del contemporaneo (automobili decorate con personaggi dei manga) o gli sfavillanti dekotora (camion ricoperti di luci decorazioni di vario tipo) sembrano conformarsi agli stilemi privi di contesto del più assoluto e sfrenato post-modernismo. E ciò ancor prima di considerare quello che costituisce, forse, il più imperdonabile tra tutti i tradimenti: l’alta percentuale di veicoli totalmente fuori dalla categoria produttiva della tradizionale Universal Japanese Motorcycle (UJM) soluzione in grado di rivoluzionare il mercato dei trasporti a due ruote verso l’inizio degli anni ’70. Sostituiti da quelli che potremmo solamente definire, con vezzo prettamente europeo, dei veri e propri big scooter per l’impiego esclusivamente urbano…

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L’eccellenza italiana del treno che credeva di essere una moto

All’avvicinarsi della terza curva che consentiva d’immettersi sulla strada di scorrimento urbana, verso il tragitto che portava a scuola, ebbi un’improvvisa realizzazione: il fatto che ad analizzare con il senso critico l’intera faccenda, il modo più sicuro per immettersi non fosse dopo tutto, fermare il motorino in mezzo alla corsia, come fatto fino ad ora. Bensì limitarsi ad una breve decelerazione, anticipando con i gesti il movimento in grado di modificare il vettore di movimento nel senso della marcia, procedendo con certezza verso l’obiettivo finale. Fu quello il singolo momento in cui ogni aspirante centauro, attraverso l’inclinazione del suo punto di vista, sperimenta per la prima volta l’effetto della forza centrifuga alla guida. Sensazione strana ed inebriante, in grado di aumentare al tempo stesso la percezione gravitazionale che ti spinge nel senso contrario al cambiamento desiderato, eppur toglie momentaneamente ogni consapevolezza della propria singolare transitorietà. Quando smetti di essere una mente in viaggio, trasformandoti nel corpo spinto innanzi dalle circostanze, secondo i crismi di una macchina che avrebbe senso definire “Moto (non più) lineare ed uniforme”.
Ed è così che nacque, assai probabilmente, la cognizione assai diffusa nei primi anni ’70 e particolarmente in Europa, che dovesse esistere un modo migliore per spostare le persone, come il singolo, così la moltitudine, attraverso l’invenzione rinnovata di cosa fosse, e la maniera in cui dovesse comportarsi, un treno. Giusto mentre due nazioni, in modo particolare, investivano copiose risorse finanziarie nella costruzione di un diverso binari, ragionevolmente rettilinei nonché conformi a standard produttivi più elevati, capaci di permettere una marcia a un ritmo di plurime centinaia di chilometri orari: la Francia, con i suoi lignes à grande vitesse (LGV) ed il Giappone degli iconici 新幹線 (Shinkansen, nuovi tronchi ferroviari). E che dire invece di tutti quei paesi che, avendo recentemente investito copiose risorse nel potenziamento delle proprie reti, a quel punto non potevano, o volevano cambiarle nuovamente per accomodare gli ultimi progressi in materia di motori, pena spese ancor maggiori e difficili da sobbarcarsi… Luoghi come la Spagna, l’Inghilterra, la Svizzera, la Svezia e perché no, l’Italia, il cui primato tecnologico-industriale grazie a grandi aziende nazionali come la FIAT, a quei tempi, non era ancora stato messo in dubbio da nessuno. E fu quindi proprio quest’ultima, grazie a un progetto collaborativo tra la Ferrovie di Stato e la sua Sezione Materiale Ferroviario di Torino, a percorrere per prima la strada che avrebbe potuto condurre alla domanda maggiormente risolutiva, che riporterò a seguire. Se non è possibile cambiare il percorso ferroviario per favorire l’impiego delle nuove locomotive, perché non modificare il funzionamento dei vagoni? Sfruttando quel concetto largamente noto secondo cui non sono le macchine trasportatrici, intese come attrezzatura tecnologica capace di svolgere una funzione, a presentare il limite ultimo di quale metodo possa servire allo scopo. Bensì coloro che le usano, ovvero i limitati, problematici, esigenti umani. Persone come i passeggeri, che salendo a bordo di un convoglio perfettamente in grado di raggiungere i 200 Km/h in tratte serpeggianti come Roma-Napoli, Roma-Ancona o quella pressoché leggendaria tra Trofarello ed Asti, pretendevano persino di non ritrovarsi disorientati, mentre l’oggetto perfezionato al fine di rispondere a una simile esigenza, voltava e poi voltava ancora il suo senso di marcia, con precisione millimetrica seguendo le precise indicazioni dei binari. Almeno finché nel 1971, sotto gli occhi della commissione deputata, fece il suo debutto l’innovativo prototipo del FIAT V 0160, primo treno “ad assetto variabile attivo” (mediante l’impiego di pistoni idraulici) nella storia di questo particolare modo di spostarsi da un punto A a B. La cui caratteristica del tutto inusitata, per riprendere il discorso motociclistico d’apertura, era quella d’inclinarsi letteralmente fino a una pendenza di 35-40 gradi, nel preciso istante in cui il suo prezioso e vociante carico si ritrovava ad affrontare una curva, in direzione opposta ad essa, mediante i dati raccolti da una serie di sensori elettronici. Il che permetteva di ridurre, in modo apprezzabile, le forze soggettivamente sperimentate da costoro, con conseguente ritorno ad un disagio tollerabile, per non dire appena apprezzabile, persino sulle succitate tratte dal tenore più rallistico e insicuro. E fu quello l’inizio della storia dell’indimenticato Pendolino, primo concetto di un treno super-veloce letteralmente adatto a “tutti i terreni” (o per meglio dire, anzianità dei tragitti d’impiego) lasciando un segno indelebile nella storia delle ferrovie europee. Al punto che non pochi altri paesi tra quelli citati, in epoca coéva, tentarono di riprodurre le sue prestazioni senza pari…

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