L’albero d’argento, leggendaria fontana medievale nel giardino del Khan

Sul retro dell’odierna banconota da 10.000 tögrög, in contrapposizione all’immagine del vecchio Gengis presente dal lato principale, figura l’immagine di un palazzo dall’aspetto simile all’architettura cinese, ornato dalla presenza di un curioso monumento. Simile a una pianta, ma chiaramente creato in qualche tipo di metallo, lo stretto arbusto si erge nella scena con le figure di tre leoni seduti in corrispondenza alle sue radici, ed un angelo con la sua tromba posto in posizione eretta sulla sua alta sommità. Tre serpenti si sporgono dalle sue fronde, simili a dragoni silenziosi. Dalle loro bocche, molto convenientemente, parrebbero scaturire zampilli di un qualche fluido non meglio definito, che soltanto un breve approfondimento letterario può riuscire ad identificare come vino, latte di giumenta fermentato e birra di riso. Si tratta di una riproduzione parzialmente fantastica, per sommi capi, dell’oggetto di cui il trascorrere dei secoli ci avrebbe privato, lasciando unicamente l’accurata descrizione di quell’uomo che, con i suoi stessi occhi provenienti da lontano, aveva avuto modo di conoscerne l’eccezionale esistenza.
L’azione si svolge nel 1254, presso la capitale dell’impero più vasto che il mondo abbia conosciuto, Karakorum. Siamo all’incrocio più importante sulla Via della Seta in Mongolia ed il frate fiammingo Guglielmo di Rubruck, inviato fin quaggiù da Costantinopoli su mandato papale e per volere del re dei Franchi Luigi IX d’Angiò, si trova presso la corte dei potenti ormai da svariati mesi, essendo rimasto colpito dalla natura cosmopolita dei suoi abitanti, appartenenti a un variegato amalgama di religioni, culture e provenienze distinte. Nessuna traccia del condottiero convertito alla cristianità che si era recato a cercare, quel Khan Sartaq che avrebbe potuto diventare un alleato del suo signore. Ma qui aveva avuto modo di conoscere, con suo sommo stupore, numerosi esuli cristiani, un intero quartiere musulmano, gli eredi dei mercanti europei che si erano spinti fino a tali luoghi e soprattutto, la figura dell’artista ed orafo parigino Guillaume Boucher, probabilmente catturato e trasportato fin quaggiù a forza assieme agli altri prigionieri di provenienza europea. Fu tale circostanza, per lui, un momento di sollievo dopo le difficili peripezie di un lungo viaggio in mezzo a un popolo che non esitò a definire nei suoi diari come composto per lo più da barbari e selvaggi, criticando a più riprese la loro presunta avidità, la società disordinata e gli improbabili precetti religiosi del Tengrismo. In una capitale relativamente accogliente, che aveva raggiunto seguendo una carovana di alti funzionari in viaggio presso il loro signore, dalla quale sembrò d’altronde essere tutt’altro che impressionato, trovandola notevolmente inferiore anche al semplice villaggio francese con l’omonima abbazia di St. Denis. Osservatore occasionalmente attento, tuttavia, il frate descrisse approfonditamente i rituali temporaneamente stanziali della corte viaggiante di Möngke Khan (regno: 1251-1259) nipote di Gengis e corrente sovrano dei propri spropositati territori. Riservando svariati paragrafi all’improbabile meraviglia artistica, che lo stesso Boucher ebbe a quanto pare modo di ultimare nel corso di quel soggiorno relativamente breve, destinato a risultare in una delle poche testimonianze scritte dell’aspetto e lo stile urbanistico di Karakorum…

Nota: la rappresentazione esteticamente più famosa dell’albero compare nell’opera illustrata del XVIII secolo di Pierre de Bergeron, Voyages faits principalement en Asie. Costituendo, assai probabilmente, anche l’ispirazione dell’illustrazione sulla banconota mongola contemporanea.

L’effettiva ricostruzione secondo metodi contemporanei della magnifica Karakorum fu un progetto promosso nel 2004 dal premier della Mongolia Tsakhiagiin Elbegdorj, che intendeva farne un simbolo nazionale presso lo stesso luogo in cui sorgeva un tempo. L’idea venne quindi immediatamente abbandonata dal suo successore, causa mancanza di fondi e poca praticità funzionale.

L’albero era, sostanzialmente, una scultura interamente in argento d’imponenti dimensioni dotata di una funzione ben precisa: distribuire, nel corso delle feste o riunioni presso il palazzo khaganale, inebrianti bevande di una triplice ed altrettanto apprezzata natura. Proprio per questo trovava posto all’esterno della residenza probabilmente ispirata allo stile della dinastia cinese dei Jin, sconfitti e conquistati circa 20 anni prima dal potere illimitato delle orde mongole, affinché gli utilizzatori inebriati non avessero necessariamente accesso alla ricca residenza del Khan. Il suo utilizzo, quindi, comportava una serie di passaggi necessariamente sempre identici a loro stessi. In primo luogo, un uomo avrebbe trovato posto nell’apposito alloggiamento nascosto all’interno del tronco, azionando laboriosamente un mantice che avrebbe fatto muovere l’automa angelico sulla sommità, indotto a sollevare la sua tromba chiamando, in questo modo, i servi con le bevande tenute in fresco presso una vicina caverna. Essi avrebbero quindi versato il vino d’uva, il caracosmos (latte fermentato) e la terracina (birra di riso) all’interno degli appositi condotti, affinché il sistema idraulico della fontana potesse portarli a zampillare dalla bocca dei serpenti, all’interno degli appositi recipienti. Molte parole sono state spese in merito all’iconografia alquanto cristiana di un tale scenografico orpello, probabilmente allusiva alla virtù della forza e l’albero della conoscenza, benché nessuna tradizione biblica parlasse di un angelo posto a guardia di un così fatale arbusto. La dinastia di Genghis, d’altra parte, si era più volte dimostrata aperta verso la principale religione d’Europa, con lo stesso frate Guglielmo che racconta di una conversazione avuta con il Khan Möngke, in cui il sovrano paragonava il Dio dell’Occidente a un’aspetto differente del sommo Tengri, spirito creatore secondo le credenze almeno in parte monoteiste della Mongolia. Ed una posizione celebrata in modo simile all’albero era stata riservata dalla cappella viaggiante favolosamente decorata con immagini di santi, angeli e il crocifisso, che Luigi IX d’Angiò aveva precedentemente inviato in dono al predecessore e zio dell’attuale Khan Güyük, nella sua ricerca di alleati nel corso delle crociate in Terra Santa. Detto ciò, il frate fiammingo criticò più volte la percezione della diplomazia chiaramente dimostrata dai mongoli, che rilevò essere convinti per principio che ogni regalìa ricevuta dovesse costituire in realtà un tributo, inviato a causa del sacro terrore dei sovrani stranieri nei confronti dei loro eserciti, per lo più imbattuti in battaglia.
Il destino esatto della fontana, successivamente alla ripartenza di Guglielmo ma non del suo compagno di viaggi Bartolomeo di Cremona che giudicò di essere ormai troppo anziano per sopravvivere al lungo tragitto necessario per approdare infine a Cipro, resta largamente incerto. Benché si possa presumere il riutilizzo per fini diversi del prezioso metallo di cui era stato costruito, in maniera analoga a tutti gli altri celebri manufatti storici costruiti in oro ed argento di cui parlano le letterature coéve. La stessa citta di Karakorum, che data la natura nomade dei mongoli non superò mai le poche migliaia di abitanti, avrebbe iniziato a conoscere un lungo declino alla salita sul trono del successore di Möngke, Kublai Khan, che a partire dal 1260 aveva spostato la capitale Shangdu ed in seguito Khanbaliq, quella che sarebbe diventata un giorno la grande città di Pechino. Il centro del potere mongolo, spostatosi in Cina durante tutto il corso della dinastia Yuan (1279-1368) avrebbe quindi abbandonato le vaste pianure erbose del suo originario luogo di provenienza, benché il palazzo originario del Gran Khan continuasse ad essere gelosamente custodito dai suoi eredi, che avrebbero tornato ad abitarci nel 1370, dopo la sconfitta ricevuta da parte degli eserciti dei Ming. Un epilogo le cui conseguenze si sarebbero dimostrate ancor più drammatiche quando, 18 anni dopo, i cinesi a lungo tiranneggiati avrebbero marciato fin sopra le mura recentemente ricostruite di Karakorum, mettendola a ferro e fuoco e distruggendone fino all’ultimo edificio degno di nota.

I 108 stupa nelle mura del monastero di Erdene Zuu, situato a poca distanza dai pochi resti rimasti in-situ a Karakorum, costituisce ad oggi una delle principali attrazioni turistiche della regione. Ciò detto, molti di essi furono ricostruiti nel XIX secolo, con l’esplicita intenzione di riproporne i fasti al mondo in paziente attesa.

L’effettiva posizione esatta di Karakorum sarebbe quindi rimasta per lo più misteriosa fino all’epoca moderna, quando nel 1889 l’archeologo siberiano Nikolai Yadrintsev riuscì ad identificarla nelle rovine di Karabalgasun, capitale storica del primo khaganato Uyghur. Scavi più approfonditi, quindi, avrebbero riportato alla luce verso l’inizio del XX secolo i resti dei magnifici palazzi, stupa, statue di tartarughe draconiche ed altri misteriosi manufatti ormai perduti dal tempo, all’ombra delle mura del monastero di Erdene Zuu, probabilmente il singolo edificio buddhista più antico di tutta la Mongolia. Risalente al XVI secolo e fondato sulla base della stessa cognizione sincretistica che tanti anni prima aveva portato alla creazione lungamente celebrata della magnifica città di Karakorum.
Del fato dello stesso artigiano francese Guillaume Boucher, creatore dell’albero d’argento, restiamo egualmente incerti. Soltanto alcune opere decorative e gioielli dalle dimensioni certamente meno notevoli, vantati nei lunghi repertori dei Khan successivi, sono state attribuite occasionalmente a lui, benché si tratti per lo più di teorie. In merito alla personalità di un artista le cui eccezionali capacità avrebbero potuto farne, in un altro tempo e luogo, tra i più celebrati creativi del mondo intero.
E viene giustamente da chiedersi quando e come, esattamente, l’ultimo zampillo sia potuto scaturire dall’albero più fantasioso che abbia mai gettato la sua ombra sugli avventori alle grandiose feste dei Khan. La cui passione per il buon vino, ed altri passatempi dissoluti, avrebbero costituito a lungo uno dei problemi maggiori affrontati dagli eredi diretti di Gengis. Molto più che i loro nemici in armi, perché non sempre il pericolo proviene da direzioni chiare. O lontane.

La grande sala di riunione del monastero di Erdene Zuu, anch’essa costruita su ispirazione cinese filtrata da comprabili sensibilità architettoniche, potrebbe rappresentare una valida analogia del palazzo costruito a suo tempo dal Gran Khan. L’albero avrebbe trovato posto, assai probabilmente, proprio di fronte all’ingresso principale.

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