Immersione nella storia del primo sommergibile dotato di un motore

Molti sono gli ostacoli sulla strada di un onesto cittadino che, per una ragione o per l’altra, abbia scelto come scopo nella vita di riuscire un giorno a salvare il mondo. Nessuno, tuttavia, più grande e profondo di questo: l’Oceano stesso, inteso come massa d’acqua che costruisce invalicabili confini, mettendo a rischio la sopravvivenza di persone appartenenti a classi giudicate “inferiori”. Questa l’impressione che ebbe assai probabilmente il patriota, ideologo e si, anche inventore Narcís Monturiol di Figueras (Catalogna) durante un viaggio educativo a Cap de Creus, sito costiero nella parte nordorientale del suo paese. Quando a poco meno di 4 decadi dalla sua nascita dovette assistere coi propri occhi all’accidentale annegamento di un ragazzo con la metà dei suoi anni, la cui mansione quotidiana era tuffarsi per raggiungere una delle rare e preziose barriere coralline del Mediterraneo. Allorché lui, dinnanzi alla dolorosa presa di cognizione della ricorrente occorrenza, giurò a se stesso che avrebbe creato un veicolo capace di ridurre il rischio di una tale professione. Un battello pienamente funzionale, capace d’immergersi al di sotto del livello delle acque e restarvi per il tempo necessario a prelevare i tesori degli abissi, mediante l’utilizzo di braccia snodate e reti incorporate. Il risultato fu la prima iterazione dell’Ictíneo, che prendeva il nome da una composizione tra le parole spagnole per “pesce” e “nave”, varato due anni dopo attraverso la laboriosa opera della sua compagnia fondata nel 1857 presso la città ed il porto di Barcellona. Costruito con uno scafo ellittico che ricordava vagamente la forma di un pesce, possibilmente ispirato all’opera del padre di Monturiol che faceva il bottaio, sotto quella scorza esterna in assi di rovere e di pino l’imbarcazione nascondeva un secondo scafo concentrico, potendo incorporare nell’intercapedine l’acqua di zavorra e funzionali quantità di ossigeno per l’equipaggio di quattro persone all’interno. Lungo appena 7 metri e con 7 metri di cubi di capienza, esso era dotato ancora in tale fase di un sistema di propulsione già diffuso all’epoca, consistente essenzialmente in manovelle da girare unicamente grazie all’energia della propria forza muscolare. Il tempo d’immersione, limitato primariamente dalla quantità di aria, era di 2 ore e 20 minuti più volte dimostrate durante le 69 immersioni a fino 20 metri di profondità registrate ufficialmente nel porto della città, che colpirono immediatamente la fantasia della popolazione ma non necessariamente quella degli ispettori cittadini. La situazione in essere, d’altronde, andò incontro ad un brusca battuta d’arresto quando nel 1862, un cargo di passaggio urtò l’Ictineo mentre si trovava attraccato alla banchina, causando danni irreparabili e ponendo, almeno in linea di principio, la parola fine all’ambizione dell’inventore etico catalano. Se non che costui, sognatore di professione con il proprio nome collegato tra le altre cose all’utopia socialista della repubblica di Icaria da fondare nel Texas statunitense, piuttosto che perdersi d’animo decise a questo punto di costruire nuovamente il sommergibile. Più grande, potente e maggiormente funzionale di prima…

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A un soffio da Parigi, l’iconico complesso del carro solare in ferro e cemento

Uguali per nascita, diversi per provenienza, educazione, contesto culturale di appartenenza. L’afflusso di strati umani sovrapposti, che a partire dalla presidenza di de Gaulle negli anni ’60 iniziarono a trasferirsi dalle campagne al principale centro urbano e capitale di Francia, portò gli amministratori parigini a dover compiere dei significativi compromessi. L’investimento nella periferia ed un tentativo di risolvere la questione degli alloggi, che nel giro di alcuni anni avevano raggiunto prezzi stratosferici e condizioni igienico sanitarie per lo più latenti. Così la costruzione di un nuovo tipo di case popolari, dalle caratteristiche architettoniche qualitativamente superiori e finanziate in parte dalla vendita di una porzione di appartamenti “di lusso” avrebbe condotto, nel corso della successiva epoca Mitterand e fino al culmine del penultimo decennio del secolo, a un’emersione interpretativa del concetto utilitaristico di Brutalismo, con maestose costruzioni di cemento in cui l’estetica non era solo una diretta risultanza della pura e semplice necessità. Bensì un riferimento, talvolta colto e convoluto, ad alcuni dei valori che avrebbero potuto e dovuto elevare lo stile di vita del sostrato di disagio umano, che permeava il popolo nel regno circostante alle cadenti, caotiche periferie delle banlieue. Esperimento riuscito soltanto in parte, come potrebbero facilmente confermare gli abitanti di un luogo come il comune di Noisy-le-Grand, composto da 63.000 anime posizionate appena fuori l’anello stradale e ferroviario che costituisce l’ultimo confine dell’antistante Parigi. Da cui potrà anche non essere visibile la Tour e le altre meraviglie dell’epoca Liberty nel centro pulsante della Città delle Luci, ma permane un certo fascino frutto della visione post-moderna delle cose, in cui la scelta di una forma riesce a sottintendere pregevoli metafore connesse alle visioni universali di questioni ermetiche latenti. Vedi l’opera del catalano Ricardo Bofill ed il suo studio RBTA, che di queste villes nouvelles fece un esperimento contestuale senza precedenti, fino al bizzarro e celebre capolavoro del condominio Les Espaces d’Abraxas (vedi precedente trattazione). Ma vedi anche, a meno di un chilometro e mezzo di distanza pur senza essere dirimpettaio, l’equipollente opera del russo per nascita, ma altrettanto spagnolo di adozione, Manuel Noez Yanowsky. Che allo pseudo-teatro del collega, completo di minuscolo arco di trionfo, volle contrapporre una sua particolare cognizione di creazione utile ad attrarre sguardi, persone, il pensiero dei filosofi indotti a sostare nel giardino antistante: un’arena, da ogni punto di vista rilevante. Poggiata attorno ad una piazza ottagonale dedicata al grande Picasso, che come nelle geometrie pittoriche delle sue tele, avrebbe trovato in una forma strategicamente ripetuta il simbolo monumentale della sua esistenza: due ruote tondeggianti dal diametro di 50 metri ciascuna, dichiaratamente ispirate all’immagine concettuale di una biga rovesciata. Ma anche il sorgere dell’astro diurno e della luna contrapposta, sebbene i più prosaici abitanti avrebbero finito per chiamarlo con un soprannome maggiormente prosaico ed al tempo stesso descrittivo: [le confezioni tondeggianti de] il formaggio camembert

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Un tunnel per energizzare la centrale ticinese, grazie all’efficienza svizzera del brucomela

L’ostinato verme geometride avanza, avanza con possenza sotto l’irto zoccolo di pietra. Facendo uso di una testa dove tutto è un disco diamantato e i denti rotativi non cagionano ragioni o procurano alcun senso di riposo agli osservatori. Mentre il corpo si àncora e si accorcia, poi si allunga ed àncora di nuovo. Ormai praticamente verticale, esso è il frutto della percezione imprescindibile, secondo cui ogni anelito di Sole ed aria potrà essere alla fine adeguatamente ricompensato. Poco prima che lo scroscio delle acque riempia il frutto del suo agguerrito ed instancabile lavoro. Fin giù nel profondo, in mezzo agli ingranaggi rotativi parte della stessa civiltà famelica che lo ha creato.
Tra le più estese ed elevate catene montuose al mondo, le Alpi hanno costituito fin da tempo immemore un ostacolo davvero significativo all’interscambio di genti e culture situate a entrambi i lati del confine peninsulare. Forse proprio per questo, l’insediamento in mezzo a tali vette degli Elvezi successivamente incorporati nell’Impero Romano avrebbe aperto la strada ad un approccio utile a risolvere la questione: l’esistenza di centri abitati e infrastrutture la cui stessa esistenza era interconnessa, permettendo l’attraversamento in tempi ragionevoli di quegli stessi ardui sentieri, che prima d’allora soltanto Annibale era stato capace di oltrepassare. Trasferendo dunque la questione all’epoca moderna, luoghi come questi diventarono l’ideale punto per l’applicazione di metodi e sistemi innovativi, funzionali alla scoperta di nuovi approcci per l’accorciamento delle distanze e la riduzione dell’energia necessaria ad ottenere il massimo, mediante investimenti calibrati in base alle reali priorità dei popoli adiacenti. Allorché nel 1917, dovendo prendere atto della scarsità di carbone importato dalla Prussia per l’estendersi del primo conflitto mondiale, gli amministratori nazionali diedero il via libera ad un progetto avveniristico per tale anno di riferimento. Niente meno che l’installazione di una potente centrale idroelettrica, per poter alimentare la ferrovia strategica del San Gottardo, completata 3 decadi prima per collegare Lucerna a Chiasso, nel Canton Ticino. E sarebbe stato proprio entro i confini di quest’ultimo, presso il lago più elevato della Val Piora che prende il nome di Ritòm (letteralmente: il l. del ruscello di Tom) che una cooperativa formata dalle ferrovie e l’azienda elettrica svizzere avrebbe scelto di edificare la propria diga, intrappolando e al tempo stesso permettendo la crescita mediante accumulo del barbagliante specchio montano. Ma il tempo passa ed allo stesso modo, con il prolungarsi delle epoche giungono a mutare le aspettative. Ragion per cui a partire dal 2017, i gestori dell’impianto chiesero ed ottennero il permesso di effettuare un aggiornamento. O per meglio dire, sostituire totalmente il vecchio cavallo da guerra, mediante la creazione di un sistema parallelo di approvvigionamento energetico. Il cui elevato grado di sofisticazione, completo di efficienti soluzioni logistiche mirate all’implementazione pratica, non avrebbe mai potuto risultare maggiormente diverso…

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Che fine ha fatto l’autobus a propulsione nucleare, strano sogno cinematografico degli anni ’70

Cruciale nel comprendere l’assioma tipicamente anglofono secondo cui less is more (“meno è meglio”) è ritornare con la mente al tipo d’intrattenimento proiettato sugli schermi cinematografici di due o tre generazioni prima di quella corrente. Prima della grafica creata al computer, dei personaggi totalmente fittizi, delle scene immaginifiche e delle comparse duplicate digitalmente. Quando un Buon Effetto Speciale era frutto dell’ingegno, il senso pratico, la capacità di rendere possibile il volere del regista sul suo trono trasportabile di alluminio e tela. E costruire automobili rappresentava, tanto spesso, il volto tecnologico di produzioni con un budget sufficientemente ampio, poiché il mondo dei motori continuava ad essere, nella mente e nell’immaginario collettivo, il simbolo rombante del progresso e dell’avvenire. Questo seppe dimostrarci Batman già verso la metà degli anni ’60 e per trasferire tale locuzione ad un diverso genere, la memorabile Monkeemobile del telefilm sui stravaganti musicisti ed aspiranti star del rock Dolenz, Nesmith, Tork e Jones, in realtà nient’altro che una Pontiac GTO modificata, con fari e pinne aerodinamiche notevolmente ingrandite. Dietro il successo andato avanti fino al ’68 dei Monkees figurava d’altro canto un giovane regista, la cui voce risuonava come quella del magico manichino nell’appartamento dei protagonisti, capace di elargire perle di saggezza ogni qualvolta ne tiravano lo spago di attivazione. Il suo nome era James Joseph Frawley ed otto anni dopo avrebbe finito per costituire la mente tecnica di uno dei più bizzarri, insoliti e per certi versi meglio riusciti disaster comedies nella storia di Hollywood. Prima di Airplane! (L’aereo più pazzo del mondo, 1980) e Critical Condition (Prognosi Riservata, 1987) e certamente prima di Sharknado (2013) fu per iniziativa dei cervelloni della Paramount che venne messo in produzione il concept per qualcosa di piuttosto raro dai tempi di Agatha Christie: una pellicola girata quasi totalmente, per lo meno nella finzione scenica, all’interno di un veicolo in movimento, la cui stessa esistenza era del tutto e puramente fantastica, essendo la risultanza di una fortunata comunione di menti creative. Andando nel contempo a rivisitare, in chiave ironica, le celebrate narrazioni drammatiche e terrificanti del regista cult e Master of Disastre, Irwin Allen (1916-1991). Così raccontano le poche cronistorie degli eventi tra cui quella dell’appropriatamente intitolata rivista Bus World, di come al direttore artistico dell’innovativa proposta, Joel Schiller fosse stato fornito un ampio budget di 250.000 dollari (pari ad un milione al cambio attuale) per creare un veicolo che fosse memorabile ed al tempo stesso iconico, degno di figurare come il vero e proprio protagonista dello show. Operazione destinata a compiersi senza disegni preparatori, un piano preciso e progetti ingegneristici, poiché quella era l’usanza dell’epoca, ma con l’assistenza di tecnici veterani quali Gaile Brown e Lee Vasque, addetti al dipartimento effetti speciali della compagnia. Fiduciosi che l’oggetto scarsamente identificato risultante da un simile summit di talenti, lungo più di 30 metri ed alto come un double-decker londinese, con 32 ruote di cui 8 sterzanti e costruito attorno ad un vistoso “reattore atomico” dalla potenza fuori scala, avrebbe finito per lasciare basiti persino loro stessi…

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