Il cuore velenoso della macchina creata per dare un verso alla corrente alternata

In un’epoca antecedente alla miniaturizzazione dei componenti, prima che il grado di sofisticazione raggiunto permettesse di rendere invisibili i denti degli ingranaggi che fanno girare il mondo, gli strumenti tecnologici della modernità sapevano mostrare un principio di funzionamento situato alla saliente convergenza tra praticità e panache, termine concettuale francofono traducibile come “brio” ed al tempo stesso, “eleganza”. Così come la forza di una locomotiva a vapore, lungi dall’essere il trionfo dell’efficienza, veniva connotata dalla spettacolarità del suo pennacchio, il ritmo sferragliante, il fischio acuto della sirena, l’introduzione dell’energia elettrica portò con se una distintiva serie di connotazioni estetiche al confine pratico tra la risoluzione diverse tipologie di arte, inclusa quella del maestro vetraio. La cui migliore interpretazione del concetto di un bulbo ben più grande della tipica lampadina, trasparente e sottile, iniziò a trovare posto tra gli anni ’20 e ’30 dello scorso secolo negli ascensori, le motrici dei tram, i trasmettitori radio ed i macchinari all’interno degli opifici. Ovunque, insomma, dove l’utilizzo del tipo di corrente comunemente identificata come DC (diretta) fosse necessaria all’ottimizzazione di un processo fondamentale di funzionamento, soprattutto in presenza di una rotazione o forza motrice. Laddove al giorno d’oggi l’oscillazione del flusso di tensione avanti e indietro, avanti e indietro lungo il corso del circuito è quanto meno allineata ad uno standard di funzionamento per ciascun contesto nazionale ed oltre, c’è stato un tempo in cui ciò avveniva sulla base della convenienza di specifiche necessità infrastrutturali, piuttosto che l’arbitraria preferenza di ciascuna compagnia creatrice di un particolare tratto di distribuzione nei confronti di una zona densamente abitata. Il che rendeva, se possibile, il raddrizzamento dell’AC (alternata) più importante che mai, benché ciò tendesse a richiedere dei ponderosi quanto costosissimi generatori che occupavano uno spazio nei capanni o le cabine ai confini del vicinato. Molto prima che venisse scoperta l’efficacia in tal senso dei minuscoli semiconduttori, porte nel sistema fatte di ossido di rame, germanio, selenio… Fu risolutiva dunque l’illuminazione ricevuta dal tipico inventore dei primi del Novecento, l’ingegnoso quanto creativo conoscitore dei principi di funzionamento elettrico, Peter Cooper Hewitt. Figlio del sindaco di New York e nipote di un industriale di successo, il quale nel 1901 investì per introdurre sul mercato quella che potremmo definire come l’antenata dell’odierna lampada al neon. Un tubo trasparente in cui la luce veniva prodotta facendo passare una corrente elettrica, piuttosto che in un gas nobile e monoatomico come il neon, all’interno di un qualcosa di molto più sinistro e al tempo stesso condizionato da un terribile pericolo latente: l’esalazione, estremamente tossica, del metallo liquido noto come mercurio. Senza dubbio un rischio, eppure l’opportunità di una scoperta eccezionale. Quando egli si rese conto progressivamente di come la tensione tra le particelle fatta muovere all’interno del suo tubo non fosse mai capace, nel corso dei molti test effettuati, di tornare identica nel punto di partenza. Giacché poteva muoversi, in parole povere, in una sola direzione alla volta…

Nell’epoca in cui lo svolgimento di mansioni che oggi diamo per scontate richiedeva ancora l’impiego di soluzioni comparativamente dispendiose o complicate nella propria implementazione, un brevetto poteva sottintendere un margine di miglioramento tale, e conseguente opportunità di guadagno individuale, da renderlo ben più prezioso dell’argento o dell’oro. Soprattutto quando coadiuvato da una valida capacità imprenditoriale, quale Hewitt seppe dimostrare, successivamente al 1902, creando formalmente quello che sarebbe diventato il primo esempio di valvola raddrizzatrice al mercurio. Un qualcosa che soltanto l’uso su larga scala avrebbe potuto rendere ragionevolmente familiare, visto l’aspetto generico riconducibile al tipo di apparato che ti aspetteresti di trovare nel laboratorio del Dr. Frankenstein, piuttosto che il nucleo segreto di un’astronave aliena. Nonostante il suo funzionamento sia nei fatti semplice ed al tempo stesso elegante, analogamente a quanto avviene per molta della componentistica che oggi si presenta in dimensioni semplicemente troppo piccole per invitare l’attenzione dello sguardo umano. Così la super-lampadina in questione, ben protetta all’interno di un apposito armadietto, trovava posizione sopra una ventola di raffreddamento necessaria per dissipare l’energia in eccesso durante l’immissione del flusso di corrente all’interno di un catodo liquido, nient’altro che una certa quantità di metallo liquido concentrato nella parte bassa del contenitore. La cui conseguente vaporizzazione, in maniera analoga a quanto avveniva nelle precedenti lampade di Hewitt, finiva quindi per condurre la tensione. Con una finalità e chiarezza d’intenti, questa volta, ben diversa vista la presenza di una serie di escrescenze a coronamento del meccanismo, configurate come delle ampolle che potevano trovarsi nella parte alta o bassa del recipiente. Spazi entro i quali erano state preventivamente disposte delle stecche di grafite, capaci di agire come anodo nella formazione del cosiddetto arco, la scarica “volante” capace di trasferire attraverso un gas (in questo caso, il mercurio) l’energia elettrica latente. Con una quantità variabile sulla base del numero di fasi che caratterizzavano l’onda sinusoidale dell’AC di partenza, gli anodi si occupavano perciò di ottenere due effetti pressoché immediati: il primo, non particolarmente utile, era un tiepido lucore lampeggiante dal tenore bluastro, in buona parte responsabile dell’aspetto ultramondano di questo surreale oggetto di un tempo. Ed il secondo, la concentrazione ai propri vertici, di lor conto collegati a un collettore finale, di splendida, purissima energia DC, mentre il flusso di ritorno risultava impossibile lungo il ponte aereo dell’arco, giungendo a dare per scontato ciò che tanto lungamente aveva costretto gli architetti a prevedere grandi stanze per i sopra menzionati generatori. Il che avrebbe creato un paradigma temporaneo in cui ogni apparato elettrico di una certa dimensione veniva concepito per alimentarsi dal potere intrinseco di un gas potenzialmente velenoso, la cui fuoriuscita all’interno di spazi chiusi avrebbe potuto danneggiare in modo permanente l’apparato respiratorio (e non solo) dei malcapitati presenti.

Il pericolo è d’altronde parte imprescindibile della tecnologia moderna, così come vivere all’ultimo piano di un grattacielo comporta il superamento dell’innata paura umana per le altezze potenzialmente letali. Il raddrizzatore al mercurio in conseguenza di ciò, inerentemente scalabile in base alle necessità di un’ampia serie di applicazioni, trovò largo impiego fino agli anni ’70, quando l’accettazione ed implementazione su larga scala di soluzioni basate sui semiconduttori servì finalmente a condurlo in una tardiva condizione d’obsolescenza. Il che portò, come potrete facilmente immaginare, notevoli ricchezze all’indirizzo di Peter Cooper Hewitt, che morì nel 1921 all’età di 60 anni. Non senza lasciarsi dietro un testamento problematico, in cui aveva decretato che soltanto un terzo della sua fortuna andasse alla moglie, con la maggior parte rimanente riservata alla figlia, a patto che si sposasse e generasse un’ulteriore generazione. Il che ebbe un risvolto tragicamente inaspettato quando la beneamata consorte, donna squilibrata e con problemi di gioco, chiese ed ottenne che Ann Cooper Hewitt venisse sterilizzata a sua insaputa durante un’operazione di appendicectomia. Il che divenne un caso mediatico di notevole portata, quando la vittima portò la genitrice in tribunale a San Francisco, chiedendo ed ottenendo non senza difficoltà un risarcimento di 150.000 dollari. Ma non, purtroppo, la punizione criminale dell’avidità materna, vista la triste accettazione della procedura effettuata, tutt’altro che inaudita all’epoca per supposti, più o meno verificabili, problemi “d’instabilità mentale”. Invero, certi progressi dal punto di vista sociale risultano ben più ardui da portare a coronamento, anche rispetto a quelli tecnologici di epoche coéve. E finiscono, al conteggio finale, per avere un costo persino maggiore dal punto di vista di coloro che si trovano costretti a respirarne, loro malgrado, le mefitiche esalazioni.

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